1. Impossibile perdersi
Il sole è appena spuntato, ma siamo in strada già da un po’. Ho un sonno terrificante. Il barile di nescafé trangugiato a occhi chiusi non fa nessun effetto. Sulla panchetta laterale del Land, imbambolato dalla rotta serpeggiante che Miller è costretto a tracciare per evitare di farsi intrappolare dalle dune, rischio di riaddormentarmi. Vorrei evitarlo, giusto per educazione. Allegra e Miller, davanti, blaterano dall’alba di bovidiano: teste rotonde, bubalino, tamacheq, Mori, Monod e Lhote. Vedo che ne sapete quanto me. Tranquilli, è tutta roba relativa a campagne di scavi, pitture e incisioni rupestri, lingua e scrittura tuareg. Inserirmi nella conversazione, neanche per scherzo. Niente da fare, sto per crollare. Oltretutto, qui dietro c’è una puzza di benzina, gasolio, cazzonesò, che pare di stare su un traghetto della Tirrenia. Il serbatoio perde. Sono state le prime parole di Miller ieri, quando è venuto a prendere me e Allegra all’aeroporto di Tozeur. Una cosa da niente.
Aveva detto la stessa cosa una dozzina d’anni fa, quando io e lui ci siamo conosciuti. Una cosa da niente, certo. Non fosse che, a quei tempi, fumavamo tutti come Sandro Ciotti. E il suo vecchio Land Rover color sabbia avrebbe potuto saltare in aria da un momento all’altro. Quello con Miller, per me, era stato un incontro significativo.
Per le vacanze di Natale dell’ultimo anno di liceo, con una manciata di quasi amici, combinammo di andare a svernare in Nordafrica. Sbarcati a Tunisi, noleggiammo due Citroën Visa e ci lanciammo a sud. Poi risalimmo da Tataouine a Douz, con una deviazione a Ksar Ghilane, dove vedemmo le nostre prime dune. Infine, attraversato il Chott El Djerid coi suoi miraggi, raggiungemmo Nefta, dove contavamo di fermarci 3-4 giorni senza fare un cazzodiniente in attesa del rientro verso il freddo, la casa, la scuola. Ma era bastata una sola mattinata di svacco a bordo piscina per far tornare a tutti la voglia feroce di rimontare in macchina. E così ci fiondammo a ovest, lungo quella che pareva essere l’unica strada nel raggio di un milione di km. Ben presto, però, prendemmo ad abbandonare la striscia d’asfalto per brevi sortite, attratti da palmeti, sorgenti d’acqua calda, cammelli e macchie di dune che si facevano sempre più estese. E scoprimmo che guidare sullo sterrato, ma più ancora sul sottile strato di sabbia che il vento vi depositava sopra, era divertente il giusto, specie per dei segaioli come noi, che avevamo fatto la patente da due mesi. Così, a un certo punto, ritenemmo inutile ritornare sulla P3. Avremmo potuto benissimo proseguire fuoristrada. Chi ce lo avrebbe impedito? In fondo, bastava seguire i solchi lasciati dai mezzi che da decenni percorrevano quelle piste. Perdersi sarebbe stato impossibile. Quei sentieri non facevano altro che seguire paralleli, a poche centinaia di metri, la strada principale. Quando ci fossimo stancati di mangiar polvere e dare culate ai sedili di marmo delle Visa, sarebbe bastato tagliare ad angolo retto per ritrovare la retta via.
Ovviamente, ci perdemmo.
Senza accorgercene, ci eravamo allontanati così tanto dalla P3 da non riuscire più a ritrovarla, nemmeno dopo un paio d’ore di tentativi, condotti peraltro senza un atomo di razionalità. Quando finalmente anche l’ultimo irriducibile ammise che ci eravamo smarriti, spegnemmo i motori e ci mettemmo a scrutare l’orizzonte in ogni direzione, sperando di scorgere un camion, un bus, un vecchio Peugeot 404 col pianale stipato di pecore. Quindici minuti di silenzio immobile furono sufficienti per scatenare in Karmacs una crisi isterica che lo avrebbe sputtanato per i successivi novant’anni. Convinto che saremmo tutti morti entro il calar della notte, si mise a vomitare aborti di parole sconclusionate sulla sua povera mamma inconsolabile, sulla nonna ancor più disperata e sulla morosa che non aveva mai avuto. Terrorizzato, blaterava sputacchiando saliva sulla faccia di chi gli stava vicino. Era un vezzo di cui si fregiava già in bonaccia, figuriamoci in quel frangente. Ad ogni modo, alla fine scoppiò a piangere come una vedova, anche se sosteneva fosse colpa della sabbia che gli si era infilata sotto le lenti a contatto.
La cavalleria giunse prestissimo, a bordo di una camionetta. Le giubbe dei soldati, però, non erano blu. Erano quelle verde scuro dell’esercito algerino. Capimmo subito che sarebbero stati cazzi. Perché, evidentemente, avevamo sconfinato. E l’avevamo fatto illegalmente. Inoltre, uno di noi nemmeno aveva con sé i documenti, lasciati al sicuro nella camera d’albergo. Il sanspapiers, ovvio, era il vecchio Karmacs, a cui le maledette lenti a contatto provocarono un’altra crisi di pianto. E forse, a giudicare dalla macchia scura che andava allargandosi a vista d’occhio all’altezza della patta, le lacrime non erano il solo liquido corporale che la mezzasega aveva deciso di lasciar defluire. Ma bisognava capirlo, povero nano: non solo gli avevano già messo le manette, ma il tizio che comandava la pattuglia sembrava apprezzare parecchio i suoi lunghi capelli da popstar, e non smetteva di accarezzargli il coppino. Non preoccuparti, disse qualcuno all’amico incontinente, se gli sputi in faccia come solo tu sai fare, forse il sultano qui, non ti riterrà degno di far parte del suo harem. Anche se questa, va detto, è gente di bocca buona.
Il Maroon, più pratico, fece notare che sarebbe stato difficile sputare in faccia al sergente, visto che questi, sul più bello, si sarebbe certamente trovato alle spalle del nostro compagno di viaggio, secondo il modus amandi degli ovini.
A quell’epoca, sapete, eravamo molto spiritosi.
Tutti, ma in particolar modo l’amico sfigato, fummo salvati dal gong che, nella fattispecie, suonava come il clacson di un vecchio Land Rover color sabbia, anch’esso con targhe algerine. Evidentemente, vagando in circolo nel tentativo di ritrovare la strada maestra, avevamo alzato della gran polvere. E l’esercito algerino non era il solo che aveva deciso di venire a dare un’occhiata. Il tizio che scese dal gippone aveva più rughe di Agnelli, la pelle del viso incisa e imbrunita dal sole. La donna che era con lui, invece, aveva il capo del tutto coperto. Davanti agli occhi, una finestrella orizzontale a trama finissima le permetteva di guardare il mondo. Dal lungo vestito vinaccia, che più tardi avremmo imparato a chiamare galabeya, spuntavano solo le mani e i piedi nudi. I due salutarono dapprima i militari, con cui scambiarono qualche parola. Lei in arabo, lui in francese. O meglio, lui si rivolgeva al sergente in francese, ma capiva perfettamente ciò che questi gli rispondeva in arabo. Intanto, due di noi ripresero a trattare con le reclute per negoziare la liberazione del prigioniero.
Mai visto dei milanesi arrangiarsi col francese, disse la donna nella linguadidante. Non sembrate neanche italiani. Infatti siamo ticinesi, spiegai. In compenso, parliamo italiano come Toro Seduto.
Un pochino meglio dai, concesse lei ghignando.
Dopo le presentazioni, tutti le stringemmo la mano. Tranne quelli ammanettati, ovvio.
Nita, aveva detto. Il mio uomo invece si chiama Miller.
Il mio uomo. Così lo aveva chiamato. Che donna.
Miller e il sergente seguitavano a parlare, indicando di continuo l’orizzonte, prima a oriente e poi a ovest. Forse vi è andata bene, disse Nita. Potreste cavarvela con centomila lire, cinquecento franchi francesi, quello che è, e due pacchetti di sigarette. Ecco quanto valeva la virtù del nostro compagno. Comunque, non sarà una cosa veloce, aggiunse lei. Vi sarete accorti che quaggiù nulla viene risolto in tempi brevi.
La pantomima, infatti, procedeva sulla medesima falsariga. Miller diceva una cosa e indicava prima di là e poi di qua, verso il sole che stava ormai tramontando. Il sergente rispondeva guardando prima il sole e poi dall’altra parte. Il fatto è che nessuno sa di preciso chi abbia davvero sconfinato, spiegò la donna. E questa è la vostra fortuna. Aprì il portellone del Land Rover e prese una sacca di pelle informe. Tolto il turacciolo, ci diede le spalle, sollevò il velo e bevve. Tornò a coprirsi il volto, si voltò e chiese se ne volevamo anche noi. No grazie, rispondemmo in coro fidandoci del Routard, che già a pagina due consigliava di bere soltanto da bottiglie sigillate.
Da quanto ho capito, incalzò Nita, Miller è quasi riuscito a dimostrare che questa è ancora Tunisia. E che ad aver pisciato fuori dal vaso sono stati i soldati. La cosa migliore è levare le tende al più presto. Se dovesse spuntare la polizia tunisina, allora sì, sarebbe un guaio.
Sono loro quelli col kalashnikov in mano, quindi bisognerà assecondarli. Dovrete ammettere di avere sbagliato e vi toccherà chiedere scusa, quando il sergente vi restituirà i documenti.
Miller, intanto, tornò alla macchina e sfilò dal bagagliaio due sacchetti di plastica pieni di arance pallide. Li diede a una recluta ricevendone in cambio una barchetta di paglia intrecciata colma di datteri. Dovrete sganciare trecento franchi, ragazzi, ci informò. E un bel po’ di Marlboro, ovvio.
Messa insieme la grana, la infilammo in una stecca di sigarette ancora mezza piena e la passammo a Miller. Lui tornò dal sergente, gli mise in mano il malloppo e ci scambiò ancora qualche parola. Una recluta ci restituì i passaporti e poi tolse le manette all’ostaggio. Subito chiedemmo all’amico di cacciare la sua parte di riscatto, ma lui disse che non gli sarebbe stato possibile, perché aveva lasciato tutti i suoi soldi al sicuro in albergo, insieme ai documenti. Nessuno si stupì di nulla.
A Nefta vi riaccompagniamo noi, ci rassicurò Miller. Passeremo dalla porta di servizio, quindi è meglio darci una mossa, seguire le piste di notte è sempre un casino.
2. L’estate del ‘66
Ce l’ho anch’io una bella storia estiva da raccontare. Miller togliendo la teiera verde dalle braci torna a sedersi e comincia a versare il thè bollente in quella rossa. Poi fa il contrario. E così via, da una all’altra, almeno una decina di volte. Versa ogni volta da un po’ più in alto senza sprecarne nemmeno una goccia. Così facendo, il thè si raffredda e forma in superficie una schiuma sempre più chiara e vaporosa, liberando tutto il profumo della menta. Lasciamolo riposare un paio di minuti, ci consiglia, e state un po’ a sentire.
È il 1966 e io ho appena fatto la maturità. A scuola sono sempre stato una bestia e ho dovuto mettere in piedi qualche macumba per riuscire a strappare il maledetto trentasei. Cantù è un altoforno e non vedo l’ora di andarmene a Schignano, al fresco, per dormire di giorno e leggere tutta la notte. Romanzi, finalmente. I libri di testo mi hanno nauseato e li ho buttati via subito dopo gli esami. Rivenderli? Neanche sotto tortura. Nel distruggerli ho goduto come un maiale. E poi, per dirla tutta, non ho bisogno di soldi. Mio nonno è morto da poco e mi ha lasciato la casa e un po’ di moneta. L’eredità comprende anche la sua vecchia macchina. A Schignano, però, ci vado con la corriera. So già guidare molto bene, il nonno mi ha insegnato prestissimo. Ma sono ancora senza patente, la prenderò durante l’estate.
Miller versa il thè nei piccoli bicchieri. Mette un po’ di legna sul fuoco e riprende.
La Ines, che da qualche anno cucina e fa per noi tutti i mestieri. È venuta anche stamattina, per controllare che nella mia valigia ci sia tutto il necessario. In realtà, è una sacca da marinaio, ma fa niente. Naturalmente, dice che manca un po’ di tutto. E ci ficca dentro un paio di maglioni buoni per un bivacco himalayano, calze e mutande di lana. È l’inizio di luglio e ci sono trentatre gradi. Ma per lei, che non si è mai allontanata da Cantù, fra i seicento metri di Schignano e il campo base del K2 non c’è differenza. Inoltre, dice che nella sacca ci sono troppi libri e poca biancheria. Se voglio finalmente trovare la morosa dice che dovrei fare proprio il contrario. Aggiunge che verrà lo stesso tutti i giorni, anche con la casa vuota, per arieggiare e bagnare i fiori. Salutandomi, si mette a piangere. È certa che lassù sui monti, da solo e al freddo, morirò di stenti entro un paio di giorni. Mi smarco a fatica e finalmente mi ritrovo in strada, diretto in piazza, dove mi attende la corriera per Como, che in realtà è un filobus.
Miller va verso il Land. Torna con la pipa e tutto l’armamentario. Lascia che Allegra finisca il suo thè e riempie di nuovo i bicchieri. Con il pollice schiaccia il tabacco nel fornello e accende con un fiammifero. Tira un paio di boccate poderose e poi preme di nuovo, stavolta con il pigino. Riprende ad aspirare, ma con molta meno forza. Si sente il tabacco crepitare nella radica, e lui ritorna a quell’estate.
Il filobus è avvolto nella lava incandescente e, benché siano soltanto le undici del mattino e i finestroni spalancati, c’è una puzza di sudore da caserma. Mi viene subito la nausea. Ho sempre sofferto il mal d’auto, specie la mattina. Anche per questo motivo è necessario che prenda la patente. Tutti mi dicono che, messe le mani sul volante, smetterò di star male. Quando mezzora più tardi sbarco in Piazza Cavour, sono sudato e bianco come un pannolino, mi gira la testa e mi tremano le gambe. Da quel che ricordo, la prima corriera per Schignano parte fra dieci minuti. E allora saranno davvero cazzi, perché la strada del lago è tutta curve. All’altezza di Moltrasio chiederò all’autista di accostare e scenderò a vomitare l’anima. Storia vecchia. Alla biglietteria, però, l’impiegata mi dice che quella corsa è stata cancellata. Sa com’è, oggi tutti si sono fatti la macchina e in corriera non viaggia più nessuno. La prossima è fra quattro ore. Se ha davvero fretta, può andare in battello fino ad Argegno e da lì salire in Val d’Intelvi con la compagnia privata. Brava. Se in strada mi limito a vomitare, in battello svengo e muoio soffocato dal contenuto del mio stomaco.
Prego? Niente, mi scusi. Mi dia un biglietto per quella delle sedici.
Infilo a tracolla la sacca da marinaio, che pesa sei tonnellate, e percorro a zigzag i portici di via Plinio, diretto in Piazza del Duomo. I duecento metri più penosi della mia vita. Giunto davanti a un bar molto figo, mi tuffo sul primo tavolino libero. Sono sfatto e non porto né giacca né camicia. Ma si intuisce, forse per via della t-shirt della Columbia e le scarpe da basket americane, che posso pagare. E così il cameriere, invece di cacciarmi, mi chiede cosa gradisco e mi chiama pure sir. Gli hanno insegnato che i turisti stranieri non sanno vestirsi, ma hanno tanta grana. Poi però, sentendomi parlare italiano, qualche dubbio gli viene. Lo vedo dalla faccia che fa. Lo rassicuro allungandogli una banconota da cinquemila, un sacco di soldi, e gli chiedo se, già che c’è, può mandare un garzone dal tabaccaio a comprarmi un pacchetto di Lucky Strike. Lui, allora, me ne propone uno di Camel, ovviamente originali svizzere. Ci siamo capiti. Mi porta le paglie insieme alla birra e mi informa che per il club sandwich ci vorranno solo cinque minuti. Gli dico di portarmi Il Giorno. Appoggio il boccale di birra alla fronte e poi me la bevo tutta d’un fiato. Quando il cameriere torna con il giornale, gliene chiedo un’altra, bella grande. Comincio a leggere. Dall’ultima pagina, come al solito. Il gol di Pak Doo Ik, Leonardo Sciascia pubblica A ciascuno il suo, gli USA in Vietnam con trecentocinquantamila uomini. Arriva il club sandwich. Micamale. Anzi, è proprio comesideve. Si vede bene che qui, specie d’estate, è pieno di inglesi e americani. Do una mancia esagerata al cameriere e gli chiedo se mi tiene la sacca nel retrobottega per un paio d’ore. Mi infilo nelle viuzze del centro, dove c’è ombra. Devo ammazzare il tempo fino alla partenza della corriera. Mi fermo dal giornalaio. Compro un Oscar Mondadori, pago trecentocinquanta lire e faccio dietrofront, torno verso il lago. Mi sdraierò a leggere su una panchina dei giardini, al fresco. Ma poi vedo la locandina di Per un pugno di dollari, che finora ho dovuto snobbare per via dei miei compagni di scuola, coi quali si poteva andare a vedere solo roba d’autore. Da qualche parte, però, ho letto che ‘sto western è una specie di omaggio a Kurosawa. Fanculo ai miei compagni: sgancio anche qui trecentocinquanta lire e mi fiondo nel cinema. Leone, Eastwood, Morricone e Volonté. Mai visto niente di più bello. Fanculo un’altra volta ai miei compagni coglioni. Recupero la sacca e chiedo al cameriere se mi vende un’intera stecca di Camel. Pronti. Salgo sulla corriera e, miracolo, stavolta non vomito. Sarà merito della Splügen tracannata al volo alla stazione degli autobus. La radio del baretto trasmetteva Se piangi, se ridi, diosanto. Giungo a Schignano in discrete condizioni e, sacca a tracolla, affronto la scalata di sesto grado superiore per raggiungere la nostra casa di vacanza. Che nostra non è, in realtà. Il nonno, infatti, per quarant’anni ne ha pagato l’affitto al suo vecchio amico Gusto. Per la festa di San Martino, come i fittavoli di una volta, stabilivano la somma e si stringevano la mano. Poi stappavano e facevano merenda con castagne e lardo. Ora il nonno non c’è più. Io sono rimasto solo. Il prossimo novembre non rinnoverò nessun accordo. Dovrò trovare un modo per dirlo al Gusto.
Ti butto un salvagente?
È proprio il vecchio Gusto, appoggiato alla ringhiera, in cima al muro di contenimento. Mi ha visto annaspare in salita e si è fatto due risate.
Salut, Ti’ Mill.
Ha passato metà della vita in Francia, parla una lingua tutta sua. E dunque da sempre mi chiama Ti’ Mill’, cioè Petit Millèr. Mi arrampico sugli ultimi quattro gradini, sgancio la zavorra e gli vado incontro.
Potevi mandare un taxi a prendermi, no?
Laisse tomber. Ci sarei venuto io a darti una mano con quella sacca da sfollato. Ma la mia belle-fille ha detto che potevo scordarmelo. Mi tiene prigioniero, ha paura che mi rompo ancora il femore. A proposito, Ti’ Mill’, desolé di non essere stato presente all’interramento di tuo nòno, in febbraio. Se non ero in quel letto d’ospedale, ci venivo di sicuro.
Mi dà la destra, e appoggia la sinistra sulla mia spalla.
Non preoccuparti, Gusto. Ci siamo sentiti al telefono. E poi hai scritto. Non c’era nient’altro che potevi fare. E la tua gamba come va?
Come nuova. La sola a non essersene accort...