La grande bolla
Credito all’ingrosso
LA CRISI SCOPPIA UFFICIALMENTE NEL 2007. E se le responsabilità sono ben diffuse a livello planetario, a favorirla è il contesto economico e sociale che ha sostenuto la crescita degli Stati Uniti d’America negli anni precedenti. Uno scenario caratterizzato da denaro disponibile a bassissimo costo e da forti incentivi a indebitarsi. Imprese e famiglie possono chiedere soldi alle banche e alle finanziarie restituendoli in comodissime rate e a tassi di interesse prossimi allo zero. Auto, case, televisori, nuove attività produttive o commerciali: tutti in America si indebitano per fare shopping o investimenti, e sarebbe sciocco non farlo. Prendere il denaro in prestito, visto il livello dei tassi di interesse e dell’inflazione, è molto più conveniente che risparmiare o aspettare qualche mese prima di cambiare suv, frigorifero e, soprattutto, casa, la quale, se rivenduta in poco tempo, può persino far guadagnare un sacco di soldi.
Questa situazione non deriva dal caso, ma da una scelta deliberata. La vuole il governo statunitense, e le distorsioni che essa comporta sono responsabilità di varie amministrazioni, repubblicane quanto democratiche. L’obiettivo è chiaro: per sostenere la crescita economica si devono incentivare i consumi e spingere le famiglie a spendere il più possibile.
A fare in modo che le rate siano concesse a tutti, con i tassi che si trasformano in specchietti per allodole, è la Federal Reserve, la banca centrale americana guidata da Alan Greenspan, la quale, in pieno accordo con la Casa Bianca, mantiene per lungo tempo ai minimi il tasso per i finanziamenti alle banche, facendo così calare il costo dei prestiti che vengono poi accordati a imprese e famiglie.
Detta così, sembra la formula magica per garantire ricchezza e benessere diffusi, ma anche in economia valgono le regole della natura e della fisica. Pensiamo alla legge della conservazione della massa: nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Tradotto: non ci sono pasti gratis. O, almeno, non ci possono essere per troppo tempo e per tutti.
La stagione del credito facile, al fine di drogare la ripresa, dura più o meno dal 2002 al 2005 e serve a ridare fiato all’economia e al mercato finanziario, usciti malconci dallo scoppio della bolla della new economy, con il crollo in Borsa dei titoli Internet, e dagli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Gli americani, insomma, hanno le loro buone ragioni per tentare di riavviare lo sviluppo domestico. Ma l’idea di regalare dollari ha un effetto diretto su uno specifico mercato, quello degli immobili. Il sistema del denaro facile favorisce infatti un giochetto di prestigio: fa aumentare la compravendita di case e salire i prezzi del mattone, rendendo tutti i proprietari potenzialmente sempre più ricchi. Più indebitati, ma virtualmente più ricchi. È un benessere effimero e gli americani lo scopriranno in fretta. Eppure, per un po’, tutto funziona al meglio, offrendo sostegno a uno dei settori meno innovativi e maggiormente legati al concetto di rendita parassitaria, quello del mattone.
Cinesi d’America
In economia niente è isolato e ogni cosa ha un prezzo. Drogare tassi e prestiti, all’inizio, ha un effetto benefico, ma affinché il motore non vada subito fuori giri, lasciando tutti a piedi, si devono verificare alcune precise condizioni. Una di queste, ad esempio, è che l’inflazione sia sotto controllo: i prezzi dei prodotti e dei servizi non devono cioè essere troppo spumeggianti. È fin troppo evidente: stampare moneta e regalare denaro spinge la gente a comprare di più, e la corsa allo shopping fa salire i listini.
Che cosa, dunque, consente alla FED di mantenere il costo del denaro così basso senza risvegliare l’inflazione? La risposta si trova all’altro capo del mondo: la Cina. O meglio, lo squilibrio commerciale e della bilancia dei pagamenti deliberatamente costruito insieme al gigante asiatico e ad altri Paesi dell’area.
Il sistema, introdotto dalla globalizzazione, funziona così: la stragrande maggioranza degli oggetti che vengono prodotti da aziende americane e venduti in tutto il mondo – dai tablet, alle camicie alla moda – è realizzato in Asia beneficiando di una manodopera che costa quasi niente (sia in termini di dollari sia, spesso, in termini di diritti umani) e accettando un cambio con lo yuan, la moneta cinese, tenuto artificialmente basso per mantenere vantaggiosi i prodotti di Pechino.
Le merci, in tal modo, costano meno di quello che dovrebbero, i prezzi in patria sono sotto controllo, l’inflazione non corre troppo, mentre la differenza tra il bassissimo prezzo di produzione in Asia e quello di vendita nel resto del mondo si trasforma in meravigliosi profitti per le imprese e le multinazionali, fiorisce nei dividendi per gli azionisti, nei guadagni di Borsa, nei premi ai manager, nel pil che corre. Una manna.
Tutto lecito e regolare. Gli americani hanno cominciato ad applicare questo modello nel sudest asiatico già dagli anni Settanta. L’invenzione della globalizzazione non è un fattore negativo; anzi, ha portato e porterà benessere in aree del mondo per anni emarginate o escluse dallo sviluppo. Il problema, come sempre, sono gli squilibri spinti all’eccesso, le esagerazioni, le derive patologiche e le tentazioni degli esseri umani a cavalcare la rendita oltre ogni ragione.
Quello che funziona meno bene in questa architettura che interessa gli Stati Uniti è, infatti, lo «scambio» che viene messo in piedi. La Casa Bianca assicura che la Cina resterà ancora a lungo la fabbrica degli americani, per questo Washington continuerà a comprare i suoi prodotti senza imporre né dazi, né clausole sociali. Allo stesso tempo, con i dollari che arrivano in Asia, Pechino si impegna a comprare i titoli di Stato del maxi debito degli Stati Uniti o le obbligazioni delle imprese americane. In pratica: gli USA acquistano prodotti made in China a prezzi competitivi, si indebitano per continuare a fare i ricchi, e quel debito lo sostengono i cinesi.
Anche in questo caso il problema non è il meccanismo, ma l’esagerazione. La Cina ha in tasca 1.200 miliardi di dollari di debito pubblico statunitense, quasi il 10 per cento del totale, e complessivamente ha investito in biglietti verdi ben 3.200 miliardi delle proprie riserve ufficiali.
Il gioco delle bolle
Ricapitolando: anche grazie al sostegno asiatico gli Stati Uniti possono abbassare il costo del denaro e spingere sull’indebitamento, pubblico e privato, per far crescere ricchezza e pil e garantirsi un discreto passo di sviluppo. Il denaro facile sostiene i prezzi degli immobili e, come previsto e voluto fortissimamente dalla Casa Bianca d’intesa con la Federal Reserve, si gonfia la «bolla immobiliare».
Fin qui niente di nuovo. D’altra parte il legame tra l’economia americana, il mattone e il concetto di rendita fondiaria è antico quanto il primo insediamento a New York. Non tanto per il fatto che Wall Street passa proprio dove sorgeva il «muro» eretto nel 1653 per proteggere il territorio di Nieuw Amsterdam dalle incursioni dei nativi. Quanto piuttosto per un aneddoto ben raccontato anche da tante guide di New York: l’acquisto dell’isola di Manhattan dagli indiani Algonchini, nel 1626, da parte della compagnia olandese delle Indie Occidentali, in cambio di ciondoli e cianfrusaglie per un valore di 24 dollari.
Gli edifici che ospitano il cuore pulsante della finanza internazionale, in sostanza, sorgono sul più grande affare immobiliare che la storia conosca. E, forse, è naturale che la più grande crisi del capitalismo occidentale abbia le sue origini proprio qui.
Ma perché la turbolenza possa trasformarsi nella tempesta perfetta, oltre al credito facile e al debito irragionevole, servono altri ingredienti. Il più importante risiede nella proliferazione di prodotti finanziari capaci di nascondere i rischi di questo gioco pericolosissimo.
Quando si sente qualcuno dire che serve uno shock per rilanciare un’economia ristagnante, ci si dovrebbe mettere in guardia. Gli shock, in genere, portano scompensi, e non causano danni peggiori della cura solo se si è bravi a farli rientrare in fretta. Altrimenti producono «bolle», cioè rigonfiamenti artificiali di prezzi o valori oltre ogni logica. E, come sanno anche i bambini, prima o poi, le bolle scoppiano. Gli Stati Uniti le bolle le conoscono bene. La crescita USA, da tempo, si alimenta così, tra crescite esplosive e cadute altrettanto rapide.
Ma come si riconosce una bolla? Secondo Alan Greenspan, l’ex presidente della FED, tra i più bravi a soffiare l’acqua saponata nei cerchi, è impossibile riconoscerla finché non scoppia. In realtà, non è difficile individuarla in tempo. Se in circolazione ci sono un po’ troppe banconote o troppi prestiti, dovrebbe quanto meno suonare un primo campanello d’allarme. Oppure, pensiamo ai prezzi delle case. Se la crescita della popolazione di un Paese è stagnante, la compravendita di immobili cresce poco, i costi delle costruzioni avanzano senza strappi, ma se le quotazioni delle case vendute si impennano di colpo, è chiaro che qualcosa non torna.
Dal 1997 al 2006 negli Stati Uniti avviene proprio questo. A fronte di un andamento tranquillo di tutti gli altri fondamentali del mercato immobiliare, i prezzi al metro quadrato crescono in neanche dieci anni di quasi il 90 per cento. Come abbiamo visto, è la politica monetaria della Federal Reserve, che favorisce i prestiti per l’acquisto di case, a generare la bolla. Ma a riempirla di plutonio è qualcun altro.
La moda dei subprime
La prima carica esplosiva la mettono le banche e gli operatori del settore immobiliare. I quali non si accontentano più di prestare soldi a clienti che desiderano acquistare una casa, ma si adoperano con impegno per farla comprare anche a chi faticherebbe persino a pagare un affitto modesto. Così vengono coinvolte le categorie più povere ed emarginate della popolazione, illudendole di poter coronare il sogno di un tetto di proprietà. È l’invenzione dei mutui subprime, così chiamati perché in termini di rischiosità del soggetto che li accende stanno molto, ma molto più sotto di quelli concessi ai clienti affidabili, definiti prime.
Questo tipo di mutui è l’ultimo livello che si possa immaginare in una graduatoria di rischio. Negli USA c’erano i mutui sicuri concessi ai clienti affidabili (prime), poi quelli un po’ più rischiosi, perché di importo di gran lunga superiore ai limiti suggeriti dal buon senso (jumbo), poi quelli concessi senza nemmeno guardare la busta paga dei richiedenti (alt-A). Infine, ecco i mefitici subprime, erogati a persone che non avevano né lavoro, né reddito, né tantomeno patrimonio: per questo chiamati anche ninja, no income, no job, no assets.
A parte gli acronimi poco rassicuranti, l’intenzione di fondo può apparire generosa. L’obiettivo di dare la casa a tutti risponde a una volontà politica che affonda le sue radici nella storia e si rafforza con le amministrazioni Reagan. Una nobile causa, per la quale il mercato si mette diligentemente a disposizione.
Purtroppo, però, per quanto ne dicano gli utopisti dei diritti infiniti, il credito non è un gioco, e la facilità con cui lo si concede può essere molto più pericolosa della facilità con la quale lo si nega. Perché se viene a mancare l’anello decisivo della responsabilità, da parte di chi presta denaro come di chi lo riceve, il sistema a un certo punto non può che andare in tilt, rendendo indigesto il caro vecchio pasto gratis.
La sete di profitti spinge il sistema immobiliare a cavalcare l’onda, trasformando le proposte di finanziamento in richiami luccicanti, spesso vere e proprie frodi a danno di persone inconsapevoli e impreparate. Così proliferano prestiti che dietro l’apparente semplicità nascondono condizioni capestro o maxirate finali impreviste. O mutui che prevedono solo due anni di tassi bassi e fissi, per poi lasciare il posto a tassi variabili e rate sempre più salate. I soliti trabocchetti bancari che celano la verità nelle clausole riportate nel fondo della pagina e a caratteri minuscoli.
I subprime, tra l’altro, prevedono ovviamente commissioni maggiori degli altri mutui. Per questo le banche tendono a rifilarli anche a clienti con profili di rischio migliori, che potevano meritarsi condizioni contrattuali meno onerose. Ma cosa importa la categoria in cui si finisce? Il bello di questo gioco è che le banche, violando ogni regola di buon senso e prudenza, concedono a tutti prestiti di gran lunga superiori al valore della casa che si vuol comprare. E questo piace infinitamente ai consumatori americani.
Con campagne pubblicitarie a tutto campo, inserzioni sui giornali e spot televisivi, la gente viene spinta in massa a sottoscrivere mutui spazzatura, solo per far crescere i profitti degli intermediari che li propongono. Ci sono persino agenzie con vetrine sulle strade nelle quali un passante può entrare e, con una manciata di dollari, comprarsi un profilo di rischio perfetto da presentare alla banca per ricevere un super mutuo. Spesso non serve nemmeno portare i documenti per ricevere i soldi: avere un cliente indebitato è già una fonte di guadagno.
Più mutui per tutti
Quello dei mutui è un boom senza precedenti, sul quale i privati si gettano a capofitto. Dal 2001 al 2003 il valore dei prestiti per l’acquisto di una casa sale da 2mila miliardi a 4mila miliardi di dollari. Il 100 per cento in più in due anni.
Il business è così promettente che non si rispetta più alcun criterio: nel 2006 la metà dei soldi incassati da banche e casse di risparmio proviene da attività sui mutui. Meglio se da prestiti accordati a soggetti a rischio, considerato che fanno guadagnare di più. Per rendere un’idea di cosa accade: nel 2002 i rischiosi subprime rappresentavano solo l’8 per cento del totale dei mutui, nel 2006 arrivano a essere il 20 per cento, uno su cinque. Questa dinamica avrebbe dovuto già mettere in allarme istituzioni ed autorità di vigilanza. Eppure, per un bel po’, non accade nulla.
A rendere l’America un Eldorado immobiliare è il fatto che tutti guadagnano allegramente, perché i prezzi delle case corrono all’impazzata e sembrano non fermarsi mai. Dunque, per fare un esempio, il signor Smith o la signora Gonzàlez possono comprare una casa per 150mila dollari, indebitarsi per 170mila, rivenderla dopo un anno a 200mila, poi accendere un nuovo mutuo per comprare un’altra casa, e via dicendo. Il mutuo diventa così uno strumento per creare ricchezza facile e diffusa. Gli americani si indebitano per comprare l’abitazione e con i soldi che ottengono in prestito si indebitano per comprare l’auto, e poi con quelli fanno le vacanze o cambiano il frigo. C’è un momento nel quale le famiglie arrivano ad avere un debito superiore a quello che guadagnano in un anno: 100mila dollari di stipendio e 120mila dollari di debiti.
Una situazione che spinge le imprese a costruire più case del necessario e gli americani, anche la gente semplice, a comprare e vendere immobili come se il mercato fosse un gigantesco erogatore di banconote, un gioco del Monopoli nel quale tutti chiudono gli occhi e smettono di ragionare. Tanto si vince sempre.
Veicoli rischiosi
Una delle parole più importanti, in economia, è rischio. La corretta valutazione di un rischio è ciò che permette di concludere un buon affare, di evitare danni a sé, alla propria famiglia, alla comunità, di programmare la crescita responsabile di un’impresa offrendo lavoro e generando sviluppo. Ed è accettando un discreto grado di rischio che si possono compiere passi importanti. Quando invece questo è celato, viene meno anche la categoria della responsabilità, e gli esseri umani finiscono per lasciare che la tensione etica vada lentamente alla deriva.
Nella vicenda del mercato delle case in America il fattore rischio è stato annullato del tutto. In due modi: da un lato lasciando intendere a investitori e speculatori che a garantire sui mutui pericolosi sarebbero state agenzie governative, dunque lo Stato, con i soldi dei c...