I fatti di Casignana
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I fatti di Casignana

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Prefazione di Goffredo FofiSulle orme de I Conquistatori di Francesco Perri, I fatti di Casignana – opera pubblicata per la prima volta nel 1974 – narra le vicende della lotta contadina all'indomani della Grande guerra in un paese alle pendici dell'Aspromonte per il rispetto della legge Visocchi, secondo cui ai reduci di guerra era concesso di sfruttare i terreni incolti. A Casignana, feudo della principessa di Roccella, i contadini iniziano a bonificare la foresta Callistro ma, un mese prima della marcia su Roma, la concessione delle terre viene revocata; i contadini, guidati dal sindaco socialista Filippo Zanco, occupano pacificamente la foresta; il prefetto intima lo sgombero, le forze dell'ordine attaccano e si consuma la tragedia. A fomentare la dura repressione ci pensano i figli di Don Luigi Nicota, il ricco e arrogante proprietario del paese. Un romanzo coinvolgente in cui, con estrema obiettività e realismo scevro da ogni retorica populista, Mario La Cava indaga sulle cause della sconfitta del movimento contadino, mette in luce il contrasto di interessi tra contadini e pastori, denuncia la complicità del potere economico e politico, smaschera l'ambiguità dei traditori, si compenetra nella sofferenza dei sopravvissuti, racconta la solitudine di chi non era riuscito a guidare il suo popolo alla vittoria.

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Information

I fatti di Casignana

A Francesco Perri
che con «I Conquistatori» del 1925
primo esempio di romanzo sui conflitti sociali in Italia
orientò decisamente le mie prime passioni civili.

1.

Non avevano fatto la guerra, per morire di fame, una volta tornati a casa. No, don Luigi Nicota si sbagliava. Erano finiti i tempi suoi, quando poteva comandare, senza pagare. Ora si doveva pagare, tutto; e le donne non si sarebbero arrese al suo volere. C’erano chi le proteggeva. Erano tornati dalla guerra, i padroni dovevano dare conto a loro.
«Abbiamo vinto, e siamo tornati!» dicevano: intendendo che dalla vittoria sullo straniero si sarebbe passati alla vittoria sul padrone.
«C’è la foresta Callistro tutta per voi! La foresta Callistro, di terra nera: dove crescono i lentischi e le ginestre; ma che sarà dissodata da voi!» gridava Cupido nella piazza.
Anch’egli era ritornato; ma era ritornato perché aveva saputo fare. Si era addestrato nella mafia a farsi rispettare; e in guerra i sergenti, gli ufficiali, tutti avevano paura di lui. Lo avevano rispettato; lo avevano destinato ai servizi più sicuri; o se li era procurati da sé, perché così aveva voluto. Non gli era mancato il coraggio di mafioso; e con quel coraggio gridava: «Sono andato in America, perché qui non mi facevano vivere, e sono ritornato per ubbidire al re. Ma mi hanno ingannato. La feci franca, anche in mezzo alle palle. E ora volete che mi rassegni a farmi comandare da don Luigi Nicota? Che comandi sulle sue serve, se gli ubbidiscono ancora!»
Parlava bene, e i contadini lo ascoltavano. Altri parlavano altrettanto bene. Con quei discorsi, si sarebbe conquistato il mondo. Uno il fine: occupare le terre, distruggere l’antico potere.
Da Caraffa era arrivata la notizia della prima occupazione. Purtroppo, era fallita. Il padrone aveva fatto schierare un battaglione di soldati, con le armi puntate. E i caraffesi ebbero paura. Ricordarono la guerra, dove tanti erano morti, e si dissero: «Che cosa facciamo? Siamo scampati là, per cadere qui?» Si calmarono di fronte a quei fucili spianati e tornarono indietro.
Ma dopo qualche giorno, alle nove di sera, il palazzo del notaio Battaglia prese fuoco. Erano tutti a dormire nel palazzo; e si salvarono a stento. Si perdettero anche i denari, nella cassaforte: bruciati dal fuoco.
Ecco come i caraffesi avevano risposto ai fucili dei soldati: anche se il palazzo di Battaglia non era quello di chi li aveva cacciati dalle terre occupate. Non importa: era sempre quello di un padrone odiato.
Ma a Casignana le cose erano diverse: i casignanesi avevano alleati capaci. Il medico Staltari, prima di tutti, che voleva strappare la foresta Callistro a don Luigi Nicota, a vantaggio dei contadini, se non per sé: odiando don Luigi, che gli aveva conteso sempre il comune, con il prestigio di quella foresta.
Stava appartato il medico Staltari, per temperamento, ma aveva chi lavorava con lui. C’era suo fratello, don Micuccio, che non aveva nulla da perdere; e don Micuccio sapeva insinuarsi nell’animo dei contadini.
Si fece nominare presidente della cooperativa “Giuseppe Garibaldi”; e con quella carica, le sue parole divennero più autorevoli.
Secondo lui bisognava sfruttare le leggi: c’era stata la legge Visocchi che concedeva le terre incolte ai contadini delle cooperative. «Lasciate fare a me, e ci sbarazzeremo di don Luigi Nicota!»
C’era Antonio Romeo, il falegname, che aveva fondato la cooperativa e che voleva un’azione rapida, indipendente dalla legge Visocchi. «Quanto dovremo aspettare? Non morremo intanto di fame?»
Ma don Micuccio Staltari rimbeccava: «Volete fare come i caraffesi che si sono ritirati alla vista dei fucili?»
«Noi non siamo come i caraffesi!»
«Avete i pastori contro!»
«I pastori verranno con noi! »
«Verranno dopo l’assegnazione, non prima!»
Antonio Romeo ribatteva: «E se non verranno né prima né dopo?»
«Faremo senza di loro!» rispondeva don Micuccio; e con quelle parole sembrava altrettanto deciso di coloro che volevano l’azione immediata.
Bisognava tenere conto dei pastori indirizzati dai figli di don Luigi Nicota contro i contadini. Quei figli non erano stati legittimati; ma nelle faccende della proprietà parteggiavano sempre per il loro padre. «Volete perdere le belle terre dei pascoli?» dicevano. «Se le terre restano a noi, saranno anche vostre, lo sapete. Cosa pagate? Un misero fitto. E non lo paghereste, se noi fossimo proprietari; e anche noi siamo fittuari del principe di Roccella. Dobbiamo pagare; e vi pare che ci lasceremo spogliare? Meglio morire, che una cosa simile!»
«Siamo con voi, vi difenderemo...» dicevano molti tra i pastori: convinti dall’interesse, esaltati dalla forza. I figli di don Luigi erano scavezzacolli riconosciuti. Ma s’imponevano per la parte di potere che dava loro il padre, e per quanto conseguivano con la loro diretta intraprendenza.
I pastori perciò li temevano più che li amassero; e forse avrebbero desiderato in cuor loro la fine del loro potere, se non avessero temuto di perdere le terre per i loro pascoli.
«Li assoceremo a noi, dopo l’occupazione. Siamo fratelli; siamo poveri e sfruttati. Viva il socialismo!» gridava Antonio Romeo.
«Va bene!» rispondeva don Micuccio Staltari. «Abbiamo la legge Visocchi dalla parte nostra! Si tratta di aspettare ancora un po’...»
Gli animi erano tesi; ma l’antica paura non era finita. Il prete, don Carlo, era dalla parte dei Nicota; ma dal pulpito parlava con parole di amore per il popolo. «Mi preoccupo di voi. Ci sono i carabinieri, la caserma è a due passi da qui, a Caraffa. Che ci vuole che vengano e vi arrestino? Pensate o sposi alle vostre spose: o figli, alle vostre madri. Non fate azioni di forza. Aspettate! Il governo penserà per voi!»
«Ma quando? Ma quando?» gridava Cupido; ed era sempre più audace: «Preparate le corde per appiccare i vostri nemici! Hanno abusato delle nostre donne, durante l’assenza!»
Sì, aveva ragione. Ma la scaltrezza di don Micuccio Staltari ebbe il sopravvento. Casignana non si mosse finché non venne l’autorizzazione del prefetto di occupare legalmente la foresta Callistro, dando pure istruzioni perché fosse equamente distribuita tra i membri della cooperativa. Sembrava che ogni pericolo per essi fosse stato escluso. Tutto sarebbe stato facile e bello nell’avvenire.

2.

Chiesero l’aiuto del prete perché prestasse la Madonna a benedire con la sua presenza la foresta Callistro, il giorno in cui fossero andati ad occuparla. Senza della Madonna, si sarebbero sentiti colpevoli. Non bisognava offenderla, con l’indifferenza verso la sua volontà divina.
Ma don Carlo rispose: «V’impossessate delle terre altrui e volete pure che la Madonna vi dia la sua benedizione?»
«Sono terre che ci ha concesse il governo».
«Se il governo vi vuole concedere terre, che vi doni le sue terre, non quelle della principessa di Roccella...»
«Ce le ha date, per coltivarle...»
«E prima non le coltivavate?»
«Ma perché non ci aiutate contro quelli che si oppongono?»
«Volete che la Madonna prenda parte alle vostre risse? Calmatevi, tornate a casa...»
Alcuni credettero che non volesse prestare la Madonna in processione per non fare il lungo e accidentato cammino fino alla foresta, e dissero: «Potremo portarla fino all’ultimo spuntone, donde si vede tutta la foresta; non occorre che si arrivi sul posto. Tante volte ci avete accompagnato nei campi per implorare la pioggia...»
«Non è la stessa cosa... Qui si vuole coinvolgere la fede nelle vostre beghe politiche. No, no, e poi no...»
«Se non volete venire voi, ci sarà la confraternita che in abito bianco la potrà accompagnare...»
«Sono io il vostro padre spirituale. Se credete, pregate in chiesa. La Madonna vi farà le grazie che chiedete; purché siano sante, e non offendano il suo santo nome...»
Qui Antonio Romeo insorse, con quella maleducazione che tutti gli attribuivano e gridò: «Ma non lo lasciate perdere? Non vedete che è venduto ai Nicota? Che vi interessa del suo consenso e di quello della Madonna, dei Santi, del Diavolo, e di chi hanno inventato per tenervi schiavi? Andiamo, prendiamo le nostre bandiere! In nome del Socialismo e della Libertà!»
Trascinò tutti con la sua foga, impedendo che Cupido facesse qualche colpo di forza, che avrebbe compromesso l’adunata e, prese le bandiere della cooperativa e del partito, si mossero con le accette attaccate alla cintola, verso la grande foresta che nereggiava in mezzo ai campi coltivati, al di qua del fiume Buonamico. Li accompagnarono le donne, molte donne, e ragazzi e vecchi. Andavano tutti in frotta a fare atto simbolico di occupazione, in attesa che il geometra del governo dividesse le parti, sorteggiandole tra gli aventi diritto. E quel giorno, ch’era un bellissimo giorno della fine di novembre – era l’anno 1919 e i viveri aumentavano giorno per giorno paurosamente – essi diedero il primo colpo di accetta ai tronchi degli arbusti, per liberare la terra.
Su quella terra avrebbero piantato il grano e le patate e i pomodori e i peperoni. Il ben di Dio avrebbero fatto contro la fame. Ed avrebbero guidato la capretta, senza il timore che i guardiani di don Luigi gliela ammazzassero, se l’avessero trovata che pascolava nei campi padronali. Con quelle legna, tante legna, si sarebbero riscaldati durante l’inverno; e se ci fosse stata la fame, non l’avrebbero sentita perché dice il proverbio che l’uomo col pane morì, ma col fuoco sopravvisse.
Accesero, infatti, il fuoco anche negli spazi liberi della foresta e cucinarono qualche provvista che avevano portata da casa; o trovarono le erbe sul posto, oh quante erbe per la loro fame.
Fu una bella giornata, nella quale si dimenticò che la carestia avanzava, che il padrone ancora esisteva nei campi che circondavano quella foresta, e che i suoi dipendenti più fidati li seguivano passo passo sulla collina di fronte per controllare e riferire. Fu una giornata di festa, come quando si andava a Polsi per chiedere grazie alla Madonna o per offrire voti, e si ballava, si gridava, si tiravano colpi coi fucili, per dimenticare le pene. Anche allora il padrone scompariva, diventava un uomo come gli altri, bisognoso di aiuto e protezione. E ora egli non si sarebbe più avanzato contro di loro, non li avrebbe soverchiati con la sua potenza. Avevano il governo dalla parte loro e nessuna congiura li avrebbe sorpresi.
Ci fu un tale che, sognando il benessere che mai aveva avuto e che pensando alla scena di sangue, quando per gelosia aveva ucciso sua moglie, pianse, isolato dagli altri e quasi nascosto dietro un cespuglio. Oggi non avrebbe fatto quell’omicidio, oggi la vita gli avrebbe dato altre speranze; e forse la moglie non lo avrebbe tradito. Se lo aveva tradito, era stato per la grande povertà di lui. La grande povertà era la colpevole; e la moglie, nel ricordo, si trasformava, diventava l’innocente ch’egli aveva uccisa, senza saperlo.
Ed altri, nella notte, quando tutti furono rientrati nelle loro case, si pacificarono con le loro mogli, alle quali rimproveravano tradimenti veri o immaginari. Furono con loro più indulgenti, perché più sicuri di sé. Lo stato di necessità era scomparso, ora la vita sarebbe stata più facile per tutti.
Credevano negli aiuti del governo per mettere a coltura quelle terre, non dubitavano più della forza dello stato. Oppure dubitavano appena, per certe cose marginali; ma non per la sostanza.
Temevano di essere imbrogliati nel sorteggio delle quote, avevano qualche dubbio su don Micuccio Staltari, benché fosse stata opera sua soprattutto l’azione per la concessione delle terre. Forse gli rimproveravano il proposito di farsi assegnare una quota della foresta, come se fosse un contadino che la potesse coltivare. Era invece il fratello del medico, benché fosse anch’egli senza proprietà e vivesse con l’aiuto dei parenti. Diceva che l’avrebbe fatta coltivare dagli altri, non da padrone, ma da fratello, perch’egli era un membro della cooperativa, era anzi il presidente, e solidarizzava con tutti i contadini.
Antonio Romeo, invece, aveva dichiarato ch’egli, benché iscritto alla cooperativa dei contadini, era in realtà falegname. Non voleva terre, non voleva niente. Aveva clienti un po’ dappertutto nei paesi. Voleva solo essere riconosciuto il capo di tutti, per la sua fede politica e per la sua lealtà. I capi più autorevoli dei paesi, il farmacista Sculli, il medico De Angelis, lo ricercavano nelle loro riunioni, lo trattavano da compagno sicuro. E che cosa diceva egli ai suoi compaesani, ai soci della cooperativa? «Statevi stretti, non mollate!» diceva, «perché il nemico è in agguato. Vi potrebbe colpire a tradimento. Vi potrebbe spingere a rinunziare ai vostri diritti, per effimeri vantaggi che vi potessero sembrare più convenienti. State all’erta! Non abbandonatevi alla gioia spensierata! Avrete ancora un domani di lotta e di sacrificio!»
Così parlava nella riunione che fecero alla cooperativa, mentre il presidente taceva, non si sa se perché condividesse il punto di vista di Antonio Romeo o perché lo disprezzasse. La folla lo ascoltava, per il rispetto che gli doveva. Ma tutto poteva pensare, tranne che Antonio Romeo avesse ragione coi suoi sospetti e che le sue predizioni si potessero avverare.

3.

Don Luigi Nicota non se l’aspettava: ma se l’avvocato Catamano, l’amministratore della principessa, gli aveva detto che non aveva nulla da temere! Come aveva potuto il prefetto tradirlo così impunemente? Che razza di prefetto era e che leggi doveva applicare? Ma era vero dunque che stava per scatenarsi la fine del mondo?
Don Luigi Nicota non leggeva i giornali: non voleva affaticare la mente. Ma si faceva riassumere le notizie più impor...

Table of contents

  1. I fatti di Casignana
  2. Colophon
  3. Prefazione di Goffredo Fofi
  4. I fatti di Casignana
  5. Fortuna critica de I fatti di Casignana
  6. Indice