Estate, 1925-1945
Il grande crollo
Einaudi e Albertini sono legati a filo doppio. Si sostiene che siano due le notti decisive nella vita di Albertini. La prima corre tra il 18 e il 19 maggio del 1899. L’allora direttore del «Corriere», l’onorevole Domenico Oliva (1860-1917), non è in redazione. Luigi Albertini, direttore amministrativo ma con funzioni direttive del giornale, si impone al direttore capo e lo induce a scrivere una vivace critica contro il primo ministro Luigi Pelloux (1839-1924): la linea del giornale è mutata e Oliva si dimette. In quei giorni i socialisti e l’estrema sinistra costringono Pelloux a sciogliere la Camera. Dopo le elezioni di giugno Pelloux si dimette. Il 13 luglio del 1900 Albertini assume la direzione. La seconda notte corre tra il 28 e il 29 ottobre del 1922. Durante la giornata i fascisti hanno marciato su Roma. Quella notte, dopo una conversazione telefonica con Mussolini, Albertini si rassegna a non pubblicare il giornale, per evitare l’occupazione dello stabilimento. La sera del 29 ottobre, alle 8, Mussolini parte in treno per Roma, dove arriva alle 11.30 del 30 ottobre: alle 18 presenta il suo governo. Dopo una prima fase, in cui molti liberali vedono nel regime la possibilità di perseguire obiettivi di ordine pubblico in funzione anticomunista e di crescita economica in chiave liberal-liberista, il regime muta indirizzo. È il 1925. Con il discorso alla Camera del 3 gennaio, Mussolini dichiara di assumere la responsabilità, morale e storica, dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924). Il regime serra i ranghi e si consolida. E tra il 1925 e il 1928 viene approvata una serie di leggi dette appunto «fascistissime».
La legge sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo (24 dicembre 1925), la legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche (31 gennaio 1926), la legge per la difesa dello Stato con la quale viene creato un tribunale speciale e si ristabilisce la pena di morte (5 novembre), il testo unico sulle leggi di pubblica sicurezza (6 novembre 1926). Tra il 1925 e il 1926 anche la libertà di stampa è in pericolo. In questo clima, il «Corriere» diventa il maggiore quotidiano di opposizione. Albertini ed Einaudi sono sotto speciale osservazione, perché pubblici esempi di antifascismo. Alla fine di novembre del 1925 arriva ad Albertini l’amaro diktat dei fratelli Crespi, gli industriali tessili proprietari della maggioranza delle quote del «Corriere»: qualora non si fosse dimesso, il giornale sarebbe stato sospeso. Albertini cede, e con lui Einaudi, il quale interrompe la collaborazione con il quotidiano avviata all’inizio del secolo.
E più avanti aggiunge:
Il 23 dicembre viene annunciata l’uscita, tra gli altri, di Einaudi. Il clima è mutato. Ma pur in un clima mutato la sezione economica del «Corriere» viene affidata a un economista, Alberto De’ Stefani. Ciò significa che lo spazio aperto da Einaudi, quello dell’economista intellettuale che è ascoltato dal grande pubblico, è un dato acquisito. La politica e la società hanno bisogno dello sguardo dell’economista. Certo, il clima è allora di illibertà; ma il dato resta e resterà tale nel 1945, come resta oggi.
Inizia per Einaudi una terza vita, dopo gli anni della formazione,dopo gli anni dell’affermazione. È l’immersione in una vita ritirata e, per molti versi, più intima. Passano quasi venti anni prima della riemersione pubblica. Non smette di leggere, scrivere, studiare. Nell’estate del 1926 si reca negli Stati Uniti per tenervi una serie di conferenze. Sono passati oltre venti anni dall’ultima volta in cui ha lasciato il Paese, da quel breve passaggio giovanile in Svizzera. Vive nel rifiuto dei viaggi all’estero. Ma nel 1926 il viaggio negli Stati Uniti è forse un motivo di salutare evasione. Tocca le sedi più prestigiose degli studi universitari, quali Berkeley, Columbia, Harvard, Princeton, Yale. Al ritorno in patria lo attende la cattiva sorte. Sono i giorni afosi di agosto. Scende da un tram ancora in movimento e cade: ne risulta la frattura del collo del femore della gamba sinistra. Sarà claudicante per il resto della vita. La zoppia diventa uno dei tanti tratti fisico-mentali caratteristici di Einaudi, che ne fanno quasi una icona. Sono i contrasti a colpire: un grande uomo in un piccolo corpo; il fisico gracile, ma indurito dalla vita; lo sguardo antico, ma gli occhi vivaci; i capelli ispidi e bianchi, e gli occhiali tondi e neri; la penna velocissima, e il bastone lento. Anche la vita familiare arriva a una svolta. Il primo figlio, Mario Einaudi, dopo la laurea in Giurisprudenza a Torino con relatore Gioele Solari e dopo gli studi di storia del pensiero politico, alla London School of Economics, con Harold Laski (1893-1950), futuro presidente del Partito laburista (1945-1946), diventa professore a Messina. Nel 1932 sposa Manon Michels, figlia di Roberto Michels (1876-1936): allievo di Max Weber, teorico delle élites, Michels è introdotto all’Università di Torino da Loria ed Einaudi; socialista, poi fascista, è professore di storia delle dottrine economiche e politiche. Con il matrimonio Mario e Manon si trasferiscono negli Stati Uniti. Dalla famiglia arrivano a Luigi Einaudi gioie e dolori. Nella notte del 23 marzo 1929 il secondo figlio, Roberto Einaudi, ingegnere, viene arrestato mentre attacca dei manifesti elettorali antifascisti in vista del plebiscito di quell’anno. Mussolini impone al Prefetto di Torino che Einaudi chieda, per iscritto, la liberazione del figlio e si impegni a vigilare su di lui. Un colpo durissimo.
Nel 1931 Roberto Einaudi viene assunto alla Sofindit. Si tratta della società pensata per smobilizzare, all’indomani del grande crollo del 1929, il portafoglio industriale della Banca commerciale italiana. Nel 1934 Roberto viene nominato sindaco della società elettrica Alta Italia, ma la nomina viene presto revocata per volere di Mussolini, a causa del passato antifascista. Sicché Roberto passa dapprima alla Dalmine e poi alla Finsider, la holding finanziaria costituita nel 1937 in seno all’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, fondato nel 1933 per fronteggiare la crisi. Qui Roberto lavora a stretto contatto con Agostino Rocca (1875-1935), ingegnere, allora direttore generale della Finsider, che nel dopoguerra lascia l’Italia: parte per l’Argentina e fonda la Techint. Tramite Roberto, Einaudi ha un contatto con l’Iri e i suoi uomini, che sarà molto importante per il dopoguerra.
Il terzo figlio, Giulio Einaudi, sviluppa presto l’amore per la carta stampata e i libri. Dopo la laurea in Medicina, fonda la piccola casa editrice Giulio Einaudi, registrata alla Camera di Commercio di Torino nel novembre del 1933. Giulio Einaudi sarà uno dei giganti dell’editoria italiana del dopoguerra. E dopo la guerra, nel 1946, è l’editore Einaudi a pubblicare la traduzione di un volume apparso in inglese nel 1935 (in francese nel 1939) curato da Friedrich von Hayek (1899-1992). Pubblicato con il titolo di Pianificazione economica collettivista, si inserisce nel dibattito sulle grandi scelte del Paese: economia di piano o di mercato? Curiosamente nella traduzione italiana viene espunto un noto saggio di Enrico Barone (1859-1924), l’economista amico di Luigi Einaudi che forse per primo aveva portato la scienza economica sul crinale della distinzione logica tra piano e mercato. Si teme che lo scritto di Barone, un economista liberale, possa favorire il socialismo. Ma è negli anni Trenta che la casa editrice subisce le pressioni più forti. Alcuni libri vengono sequestrati e nel 1935 Giulio Einaudi viene arrestato. La repressione fascista colpisce il gruppo torinese di «Giustizia e Libertà» e, tra gli altri, anche Norberto Bobbio (1909-2004) e Massimo Mila (1910-1988).
Per Giulio, come già per Roberto, Luigi Einaudi deve intervenire. Sono tutti affanni che gravano sul suo corpo e sulla sua mente. Ha quasi sessanta anni. Einaudi incontra il vicequestore Mambrini. Il resoconto che Einaudi tiene di quell’incontro è degno di una pièce teatrale. Le battute sono quelle giuste, il ritmo pure. Si parla degli archivi della polizia fascista e dei suoi funzionari («il lavoro che i filologi tipo Barbi fanno su Dante»); si parla dei fuoriusciti («non le pare, che i veri colpevoli siano i fuoriusciti?»); del potere delle idee («bisogna ricordare che la piccola minoranza che pensa è quella che in definitiva dirige i destini del mondo, non oggi ma fra cinquanta o sessanta anni»). Giulio Einaudi viene liberato. E la casa editrice va avanti. Il primo volume è Che cosa vuole l’America di Henry Agard Wallace (1888-1965), ministro dell’Agricoltura (1933-1940) e poi vice (1941-1945) del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt. La pubblicazione porta una prefazione di Einaudi su planismo e mercato. Mussolini recensisce il libro su «Il Popolo d’Italia». Tra il 1933 e il 1944 escono circa trenta titoli, tutti selezionati da Luigi Einaudi. Il numero 4 della Collana «Problemi contemporanei», con caratteri neri su copertina verde e per lire dodici, è I trasferimenti anormali dei capitali e le crisi, dell’economista padovano Marco Fanno (1878-1965). Fanno è il maestro di Guido Carli (1914-1993), il quale nel 1938 entra giovanissimo nell’Iri. Per vie non lineari va preparandosi l’incontro di Carli con Einaudi.
Nel mondo restando in Italia
Quanto più l’aria si fa soffocante «dentro», tanto più si cercano spazi «fuori», all’aperto. I contatti di Einaudi con l’estero si intensificano, pur restando relativamente pochi. Legge moltissimo, soprattutto in inglese, ma viaggia poco. Sono contatti di primissimo livello, soprattutto con istituzioni anglosassoni, che Einaudi intrattiene dall’Italia, senza muoversi. Contatti con istituzioni che preludono, sempre, a contatti umani. La collaborazione più antica, la «prima», è con il settimanale inglese «The Economist». I primi anni sono quelli di una corrispondenza anonima, firmata «Italicus». Gli scritti suscitano molto scalpore. Einaudi nega a lungo, ma in realtà Italicus è lui; è lo stesso alone di fascino e di mistero che nel secondo dopoguerra, mutatis mutandis, circonda un altro nome criptato, su «L’espresso» di Eugenio Scalfari: «Bancor» (Guido Carli, o Carli-Scalfari), dal nome della moneta sopranazionale proposta da Keynes alla conferenza economica internazionale di Bretton Woods del 1944. Così tra il 1920 e il 1939 la collaborazione di Einaudi con «The Economist» diventa assidua, stabile: sono oltre duecento pezzi, sotto forma di lettere inviate senza firma da Torino all’editor di turno, Harley Withers (1916-1921) e poi Sir Walter Layton (1922-1938). È la voce che più di ogni altra (se non quella dell’economista Piero Sraffa, che dal 1927 è a Cambridge) racconta al mondo anglosassone cosa accade in Italia, specie nei momenti cruciali: nel 1922 scrive The Fascisti and their programme; nel 1927 si occupa di rivalutazione della lira (The Bank of Italy); nel 1933 di corporazioni (The Corporative State), nel 1934 dell’Iri (The New Institute for Industrial Reconstruction).
Sempre negli anni tra le due guerre vedono la luce due lavori di Einaudi, anch’essi frutto della collaborazione, la «seconda» in ordine di tempo, con una istituzione estera, questa volta degli Stati Uniti. Si tratta di due monografie, intitolate La guerra e il sistema tributario italiano e La condotta economica e gli effetti sociali della guerra, pubblicate rispettivamente nel 1927 e nel 1933, entrambe per i tipi di Laterza. Quale l’origine di questi due volumi? Occorre fare un passo indietro fino al 1914, anno dello scoppio della Prima guerra mondiale. In quell’anno, infatti, la Fondazione Carnegie per la pace internazionale avvia un lungimirante programma di ricerca sulla storia economica della guerra appena iniziata. La fondazione è già nota nel Paese per aver costituito, nel 1912, presso il Ministero dell’Interno italiano un fondo per gli atti di eroismo (Hero Fund). L’ispiratore è il ricchissimo imprenditore e filantropo scozzese, poi naturalizzato statunitense, Andrew Carnegie (1835-1919). Nel 1919, per il programma di ricerca sulla guerra, si costituiscono i comitati nazionali. Per l’Italia è chiamato alla presidenza Luigi Einaudi. Ora, gli aspetti economici e industriali della guerra sono gestiti in Italia dal Cmc, ovvero il Comitato per la mobilitazione civile. È un organo che costituisce l’occasione per integrare nell’amministrazione pubblica apporti esterni: gli imprenditori, tra cui Alberto Pirelli (1882-1971) e Giuseppe Volpi (1877-1947); gli ingegneri, tra cui Giuseppe Belluzzo (1876-1952) e Oscar Sinigaglia (1878-1953). E i militari: in primis, il generale Alfredo Dallolio (1853-1952). Saranno tutti, e a vario titolo, protagonisti dell’economia italiana tra le due guerre e, in un caso, quello di Sinigaglia, anche del secondo dopoguerra. Ed è questo il motivo per il quale Einaudi pensa dapprima di affidare agli «uomini pratici» del Cmc la redazione delle singole monografie di storia. Scrive: «Nessun economista fu chiamato in Italia, a differenza che in altri paesi, a far da consulente governativo durante la guerra». L’unica eccezione, ai suoi occhi, è costituita da due amici: il napoletano Pasquale Jannaccone (1872-1959) e il chietino Umberto Ricci (1879-1946), entrambi «ben qualificati per un compito del genere». I due diventano vicepresidenti del comitato italiano della fondazione.
In realtà, le cose vanno diversamente. Non solo i nomi degli amici Jannaccone e Ricci non figurano tra gli autori delle monografie, ma neppure quelli dei «protagonisti sul campo» della guerra italiana sotto il profilo economico-industriale. Scrive:
L’Italia sta compiendo la difficile riconversione da una produzione accentrata di guerra a una diffusa di pace, non senza difficoltà: bancarie, monetarie, sociali. Il biennio rosso incalza (1919-1920), e lo squadrismo fascista pure. Non resta per Einaudi che rivolgersi agli economisti di professione. Si tratta, oltre allo stesso Einaudi, di Alberto De’ Stefani (1879-1969), poi ministro delle Finanze (1922-1925) nel primo governo Mussolini; Giorgio Mortara (1885-1967), insigne economista e statistico; Riccardo Bachi (1875-1951), economista, compilatore dell’«Italia economica», supplemento de «La Riforma sociale»; Arrigo Serpieri (1877-1960), uno dei protagonisti del programma di bonifica integrale. Quali i punti fondamentali dei due volumi firmati da Einaudi? Nel primo (La guerra e il sistema tributario) l’accento è sulla classe dirigente: sulla sua capacità − in questo caso l’incapacità − di realizzare riforme al passo con i tempi. La riforma tributaria avrebbe dovuto vedere la luce prima della guerra. La seconda (La condotta economica e gli effetti sociali della guerra) ha un respiro ampio, e coglie l’insieme di aspetti istituzionali, politici e sociali, che accompagnano «sempre» il cambiamento nella struttura economica di una società. Il libro si chiude con una osservazione preziosa sull’importanza di collocare i fenomeni in una prospettiva storica: «le idee e le azioni dell’oggi sono pur figlie delle idee e delle azioni del passato». Non c’è soluzione di continuità tra ieri, oggi e domani. Sono i concetti a mostrare le fratture; ma i concetti sono statici e i fenomeni sono dinamici. Aveva già scritto Enrico Barone: «Quasi che l’oggi non sia il risultato dell’ieri e non sia la preparazione del domani».
La «terza», in ordine di tempo, è la collaborazione con la fondazione Rockefeller, organizzazione filantropica creata negli Stati Uniti nel 1913. I fondatori, John Davison Rockefeller senior (1839-1937) e il figlio John Davison Rockefeller junior (1874-1960), proprietari della imponente società petrolifera Standard Oil, si propongono di favorire il benessere e il progresso civile. Tra il 1913 e il 1951 la fondazione si rende nota in Italia soprattutto per il progetto di eradicazione di alcune malattie quali la tubercolosi, il tifo, la febbre gialla; e nel 1925 finanzia la costituzione per la Stazione sperimentale per la lotta antimalarica di Roma, diretta dal medico igienista Alberto Missiroli (1883-1951), che diventa il punto di formazione e riferimento internazionale nella lotta antimalarica. Sono gli anni in cui i viaggi del ministro delle Finanze Giuseppe Volpi per la sistemazione del debito di guerra italiano, dapprima negli Stati Uniti con il segretario al Tesoro Mellon (1925) e poi in Inghilterra con il cancelliere dello Scacchiere Churchill (1926), guadagnano all’Italia la fiducia del grande capitale. Molti giovani, in molti campi, beneficiano delle borse di studio della fondazione. La fondazione sostiene anche il perfezionamento degli studi di giovani economisti meritevoli. Einaudi è il consulente dall’Italia per l’assegnazione delle borse. Molti si recano negli Stati Uniti, ma non solo. Il giovane Attilio da Empoli (1904-1948), genio assoluto e precoce, è dapprima, per l’ultimo quarto del 1929, alla London School of Economics, e poi negli Stati Uniti per l’intero 1931: prima alla Columbia University di New York, sotto la guida di Edwin Robert Seligman (1861-1939), e poi all’Università Chicago, sotto la guida di Theodore Schultz (1902-1998), premio Nobel per l’economia nel 1978. Caso paradigmatico della via culturalmente ed economicamente alternativa agli Stati Uniti, tra i tanti borsisti Rockefeller, è quella percorsa dal giovane Ezio Vanoni (1903-1956), che va in Germania. Allievo, all’Università di Pavia, di Benvenuto Griziotti (1884-1956), dopo una borsa all’Università Cattolica di Milano, nel 1929 Vanoni va prima a Berlino, poi a Bonn. È una strada che percorrono economisti e non, borsisti Rockefeller e non: tra gli economisti «non» borsisti Rockefeller vale segnalare un caso. Ha infatti implicazioni generali. Si tratta del giovane Guido Carli (1914-1993).
Assunto all’Iri nel 1938 grazie all’interessamento di Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI, un amico di famiglia) e di Sergio Paronetto, l’economista e manager industriale amico di Montini, Carli compie un periodo di studi a Monaco di Baviera. Perfeziona il tedesco;...