L’evasore espulso.
La strategia delle norme sociali
REALIZZARE IN ITALIA UN «PATTO DI GIUSTIZIA FISCALE» vuol dire mettere in campo una nuova strategia, che risponda a un obiettivo di fondo: creare un profondo, radicale, continuo contrasto d’interessi tra l’evasore e il contesto sociale nel quale opera. L’evasore dev’essere isolato culturalmente e psicologicamente. Perché, come ha affermato di recente il direttore dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera, «le tasse sono un bene per tutta la comunità, di cui però non ci si accorge. Così come l’evasione è un danno che si fa in definitiva a se stessi».
L’evasore deve perdere la certezza di poterla fare franca anche grazie alla connivenza o all’indifferenza degli altri cittadini contribuenti. Deve poter temere non una semplice sanzione, ma il venir meno del «rapporto» con lo Stato e con la comunità nella quale vive. In altri termini, l’evasore recidivo dev’essere e deve sentirsi «espulso» dalla comunità nella quale vive e opera. Serve un cartellino rosso alzato in faccia davanti a tutti, un arbitro che abbia il potere di farlo e l’immediata uscita dal campo dell’evasore che ha commesso il fallo da espulsione.
Per raggiungere questo obiettivo, bisogna cambiare in profondità il nostro ordinamento tributario attraverso l’introduzione di quattro «norme sociali».
La prima misura – nuova e coraggiosa – che consentirebbe di isolare l’evasore dal contesto nel quale opera è l’introduzione di un bonus fiscale per chi denuncia episodi di evasione. L’idea consiste nel premiare con un bonus pari al 10% delle somme recuperate dall’erario chi segnala, sotto garanzia di anonimato, condotte di evasione fiscale che procurano un danno alle casse dello Stato: sarebbero nel mirino delle «denunce» evasori fiscali, ma anche amministratori pubblici corrotti o infedeli. È prevedibile che questa misura possa sollevare critiche di tipo «garantista». Ma basterebbe ricordare che meccanismi di questo tipo sono già attivi, da decenni, nella civilissima democrazia statunitense.
Un provvedimento di questo tipo, peraltro, amplificherebbe gli effetti di un fenomeno particolarmente positivo che la Guardia di Finanza ha già registrato a partire dai primi mesi del 2012: la moltiplicazione delle telefonate di cittadini, che chiamano il numero 117 per segnalare episodi illeciti. Per quanto riguarda le denunce di evasione fiscale, in particolare, nel febbraio 2012 c’è stato un boom del 382% e nel mese di marzo addirittura del 408% rispetto agli stessi mesi del 2011. È facile immaginare quale formidabile strumento di «dissuasione sociale» possa diventare il 117 della Guardia di Finanza, nel caso in cui fosse istituito il bonus fiscale per chi denuncia qualsiasi forma di evasione.
Sul fronte delle sanzioni nei confronti di chi evade, invece, bisogna rafforzare quelle di natura non monetaria che implicano importanti «costi sociali». In particolare, è necessario stabilire un principio generale secondo cui l’esercizio di un’attività commerciale o di una libera attività professionale può essere consentito solo nel pieno rispetto delle regole fiscali. E dunque – in applicazione di questo principio – a chi viola in modo rilevante gli obblighi in materia di documenti fiscali dev’essere inibito l’esercizio dell’attività commerciale o della professione. Una volta accertato per due volte consecutive il mancato rilascio di scontrini fiscali o fatture, deve scattare automaticamente la chiusura dell’esercizio commerciale o dello studio professionale. Questo tipo di sanzione è molto più efficace e dissuasiva di quelle di natura economica (o perfino penale) attualmente utilizzate: perché mettere a rischio l’esistenza stessa della fonte di guadagno implica un costo potenziale per l’evasore molto più grave sul piano qualitativo, rispetto alla possibilità di perdere una parte del guadagno stesso.
La terza «norma sociale», invece, punta a favorire il massimo livello di pubblicità possibile dei comportamenti fiscali dei commercianti. Sarebbe importante l’istituzione di un «bollino blu» – in qualche modo annunciata (ma non ancora realizzata) dall’Agenzia delle Entrate – che segnali al pubblico quali esercizi commerciali sono gestiti in modo fiscalmente fedele. Ma non basta. È necessario aumentare il livello di «pubblicità fiscale»: la correttezza o la fraudolenza del comportamento dei commercianti deve diventare un elemento fondamentale della competizione di mercato, aiutando tutti noi nella scelta del negozio, del bar o del ristorante da frequentare. E per raggiungere questo obiettivo è necessario creare altri due momenti di visibilità. Anzitutto le black list (ovvero le liste degli evasori «scoperti» dall’Agenzia delle Entrate) di commercianti, professionisti e soggetti che esercitano attività a contatto con il pubblico devono essere pubblicate su Internet – perché siano consultabili da parte di tutti, rafforzando il potere di scelta da parte del consumatore – e costituire al tempo stesso elemento decisivo di selezione degli esercizi da controllare da parte dell’amministrazione finanziaria. È altrettanto importante, inoltre, la pubblicazione on line – non solo per commercianti e professionisti, ma per tutti i contribuenti – delle sanzioni applicate ai casi di comportamento illegale, secondo il modello americano del naming and shaming.Dare visibilità alle sanzioni consente a tutti di misurare il «costo» potenziale di comportamenti di evasione fiscale.
Infine, la quarta «norma sociale» – innovativa e radicale sul piano politico – per rafforzare la guerra all’evasione consiste nella sospensione dell’erogazione dei servizi pubblici a danno del contribuente protagonista di comportamenti reiterati, acclarati in modo definitivo, che determinino una rilevante evasione fiscale. All’evasore recidivo dovrebbe essere impedito l’accesso alle prestazioni sociali e di welfare, a esclusione naturalmente di quelle sanitarie. La misura avrebbe effetti importanti sul piano pratico, ma anche un altissimo valore simbolico: rappresenterebbe infatti quella «esclusione» dalla comunità civile, che di fatto l’evasore autodetermina con il suo rifiuto di contribuire al sostentamento della stessa.
La stessa filosofia può essere applicata nel rapporto specifico tra l’erario e il mondo delle imprese e del lavoro autonomo. Rapporto terribilmente complesso, in cui l’orientamento del legislatore ha oscillato negli ultimi vent’anni tra la «caccia alle streghe» e il permissivismo complice, creando addirittura ideologie tributarie contrapposte. Nel cambio da un governo all’altro, siamo passati allegramente da un dichiarato (e sostanzialmente applicato) «diritto naturale» di evadere tasse troppo alte e di eludere un fisco troppo invasivo rispetto alle libere attività d’impresa, a una presunzione di colpevolezza tributaria dell’intero mondo dell’iniziativa privata, per la serie «sono tutti evasori». Ma un Paese che detiene al tempo stesso un debito pubblico e un’evasione fiscale da record non può permettersi il lusso di un’incertezza normativa così elevata e, men che meno, quello di trasformare il pagamento delle tasse in una guerra tra categorie nel più becero cliché delle tifoserie contrapposte.
Non possiamo correre il rischio (assai concreto) di una «lotta di tasse» che contrapponga ferocemente categorie di lavoratori, trasformando automaticamente una differente appartenenza socioeconomica in un diverso livello di fedeltà fiscale. La via d’uscita richiede un impegno straordinario della politica: la volontà di affrontare la grande «questione irrisolta» della convivenza civile nel nostro Paese. Sapendo che chi avrà il coraggio di farlo rischierà (forse) di perdere le elezioni, ma sicuramente farà vincere l’Italia e gli italiani. Rendendo più maturo, più serio, più sostenibile il loro rapporto con lo Stato e con il suo apparato fiscale.
Abbiamo bisogno, dunque, di un salto di qualità normativo per distinguere molto più nettamente onesti ed evasori. Trasversalmente, all’interno di tutte le categorie di contribuenti. È necessario scavare un fossato di sanzioni e incentivi per dividere nettamente chi opera nel rispetto delle regole fiscali e chi invece ricorre sistematicamente all’evasione e all’elusione. Sul fronte delle attività d’impresa, ciò deve tradursi in norme rigorose che consentano di distinguere i player sani e «vitali» per il sistema Italia – che contribuiscono ogni giorno a creare ricchezza, sviluppo, occupazione e innovazione – da quelli fraudolenti, che prosperano non in virtù dei propri talenti ma dell’inefficienza del sistema fiscale.
Ogni anno circa 250 mila imprese individuali e 400 mila società dichiarano IRPEF o ires negative. Logica e buon senso vorrebbero che un’attività imprenditoriale sia portata avanti quando produce utili e che, invece, la distruzione di ricchezza sia una parentesi e non la regola. Se così non fosse, sarebbe legittimo il sospetto che il bilancio sia volutamente «tarato» per evitare di pagare le tasse sugli utili d’impresa. Da questa riflessione deriva un’altra proposta-shock, innovativa e draconiana: le società e gli imprenditori che dichiarano reddito negativo per cinque anni consecutivi devono essere obbligati al fallimento.
Parallelamente a questa misura, andrebbe ripristinato in tutta la sua portata – per tutelare i «beni fondamentali» dell’economia e sanzionare i comportamenti distorsivi della competizione di mercato – il reato di falso in bilancio. Va ricordato, a questo proposito, che la frode fiscale direttamente collegata a questo tipo di reato è stata di fatto depenalizzata tramite esclusioni, eccezioni e introduzione di franchigie, attraverso una serie di provvedimenti dell’ultimo governo Berlusconi1. La ricostituzione dell’originaria fattispecie del falso in bilancio, dunque, è oggi un’esigenza sentita da molti esperti e operatori del diritto per fornire all’amministrazione della giustizia un’arma decisiva nella lotta all’intreccio tra corruzione ed evasione che caratterizza il rapporto pubblicoprivato, come autorevolmente suggerito dal presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino2. Sullo stesso terreno, inoltre, andrebbe ripristinata la responsabilità degli amministratori delle società di capitali.
Ancora più importante è innovare il rapporto tra il fisco e la categoria di contribuenti più complessa e «a rischio» sul piano fiscale, i 6 milioni di lavoratori autonomi italiani. È il «popolo delle partite IVA»: nell’ultimo ventennio ha visto un’autentica esplosione nei numeri, molto meno eclatante a guardare però i redditi dichiarati. I cosiddetti «capitalisti molecolari» – l’80% di loro è in possesso di un titolo d’istruzione superiore come la laurea – superano i 15 mila euro di reddito annuo soltanto nel 56% dei casi.
La prima mossa necessaria per ottenere una maggiore fedeltà fiscale da parte dei lavoratori autonomi è il ripristino dell’obbligo di trasmissione telematica degli elenchi «clienti e fornitori» da parte dei soggetti passivi IVA. Si tratta di una misura molto importante ai fini della lotta all’evasione, soprattutto rispetto alle attività economiche di piccola e piccolissima dimensione. In un contesto imprenditoriale polverizzato come quello italiano – caratterizzato da milioni di attività economiche che dell’impresa hanno solo la forma giuridica e non la struttura aziendale – va infatti valorizzato al massimo il flusso di informazioni proveniente dalle imprese strutturate che, a causa della propria rigidità organizzativa, hanno necessità di tenere una contabilità affidabile dei rapporti con i fornitori. L’elenco «clienti e fornitori» consente l’incrocio sistematico dei dati presenti nell’elenco fornitori dell’acquirente con quelli dell’elenco clienti del venditore: ovvero, permette di intercettare in modo automatico l’eventuale evasione (in caso di mancata registrazione dell’acquisto o della vendita). L’inclusione nell’elenco clienti di tutti i codici fiscali dei consumatori finali nei confronti dei quali sono state emesse fatture, inoltre, consentirebbe all’amministrazione fiscale una più ampia ed efficace valutazione del tenore di vita del contribuente ai fini del «redditometro».
In sostanza, l’elenco «clienti e fornitori» non è solo un efficace strumento di controllo. È soprattutto un potente disincentivo alle piccole imprese per evitare che omettano la dichiarazione dei ricavi o dei compensi, sapendo di essere segnalati al fisco dai propri clienti o fornitori. In fondo un «elenco fornitori» che esiste da molti anni e che nessuno penserebbe oggi di mettere in discussione è la dichiarazione del sostituto d’imposta, con la quale vengono comunicati annualmente al fisco i redditi di decine di milioni di lavoratori e pensionati. Con livelli di tax compliance di gran lunga superiori a quelli delle attività indipendenti3.
Ma la vera grande sfida sul fronte del lavoro autonomo è l’abolizione degli studi di settore. Oggi sono nella maggior parte dei casi una forma di evasione legalizzata. O meglio, un meccanismo di «evasione contrattata»: entrati in vigore nel 1998, oggi vengono unanimemente considerati un fallimento sia da parte dell’erario – che incassa molto meno di quanto dovrebbe – che da parte degli interessati, artificialmente livellati pur in presenza di situazioni radicalmente diverse.
Complessivamente gli studi di settore interessano oggi oltre 3 milioni e 500 mila contribuenti: per il 64,6% sono persone fisiche, per il 19,9% società di persone e per il 15,5% società di capitali ed enti. Per tutti questi soggetti, gli studi di settore abrogano di fatto l’articolo 53 della Costituzione – che prevede che tutti contribuiscano alle spese pubbliche sulla base della loro capacità contributiva – sostituendolo con il principio dell’autodeterminazione del quantum di imposte dovute da parte dei lavoratori autonomi. In particolare ciò che rende intollerabili gli studi di settore è che obbligano chi guadagna poco a dichiarare di più, mentre consentono a chi guadagna tanto di dichiarare di meno: quest’ultima categoria di soggetti – se dichiara un reddito congruo con le stime dello studio di settore – viene «assolta» automaticamente e si vede d’incanto escludere dalle liste dei contribuenti sottoposti a controllo. Se gli studi di settore hanno generato un aumento del gettito fiscale, dunque, ciò è dovuto a un sistema ferocemente regressivo: i poveri pagano più dei ricchi, gli onesti più dei disonesti, le nuove imprese più degli insider. Inoltre, gli studi di settore sono fondati su relazioni stimate tra costi e ricavi e sull’ipotesi che fra un periodo di stima e l’altro non vi siano cambiamenti tali da modificare i coefficienti stimati. Si assume, in sintesi, un’attività economica «normale». Ma nella lunga fase di turbolenza economica in cui viviamo la normalità non esi...