Big Data e società calcolabile
La rete digitale è in grado di mettere potenzialmente tutti gli abitanti del globo terrestre in comunicazione, eppure spesso diventa una rete egotica, non è usata per costruire un reale dialogo con l’altro, ma per seguire il culto di sé e amplificare il compiacimento narcisistico della propria persona. Come si è detto, la potenzialità dialogica sembra perdersi nelle interazioni senza comporre un Noi capace di incidere nella realtà sociale. Anzi, a volte lo sfogo digitale continuo e veloce sembra assorbire la critica politica e il conflitto sociale e così attenua la protesta che un tempo si esprimeva in forme classiche e più incisive.
Internet, il più grande spazio di aggregazione di oggi, mentre riesce a diffondere ogni informazione globalmente e istantaneamente, mostra alcuni limiti nella sua capacità di agire come fabbrica planetaria di critica sociale. In gran parte esprime un continuo lamento e scontento, ma al contrario delle fabbriche, delle piazze e dei luoghi di aggregazione e di espressione dei secoli scorsi, pur essendo molto più potente e globale, non trasforma la critica in azione efficace e continua. Nel mezzo digitale il dissenso e il conflitto sociale si esprimono come un’onda che sale e scende secondo le fasi e i momenti, senza mantenere la forza necessaria per essere agente di trasformazioni sociali e storiche.
Pur non riuscendo a divenire soggetto strutturato, le interazioni nella rete sono divenute ormai oggetti calcolabili. Ogni evento, ogni comunicazione, ogni click, ogni dato inserito, vengono valutati, aggregati, stimati e classificati dai grandi provider di servizi e di contenuti, dai data broker, da chi vende prodotti sulla rete e usa ogni possibile soluzione tecnologica che possa tracciare quello che facciamo, quello che pensiamo, quello che desideriamo. Tutto viene calcolato tramite algoritmi di analisi e di previsione che considerano ogni quanto informativo disponibile per generare indagini quantitative su singoli individui, utenti e gruppi che rappresentano obiettivi da indagare e prevedere.
In un passaggio del suo saggio1 Byung-Chul Han scrive:
I procedimenti di calcolo presentano un’andatura completamente diversa rispetto al pensiero: sono assicurati contro ogni sorpresa, interruzione o avvenimento.
Han qui si riferisce al modo di elaborare i dati (calcolare) delle macchine informatiche (digitali) i cui algoritmi, almeno nella loro parte preponderante, sono espressi tramite linguaggi (di programmazione) imperativi che contengono sequenze di operazioni codificate che non ammettono ulteriori riflessioni o analisi di eventi e condizioni non previste a priori.
L’algoritmo è un pensiero cristallizzato, un procedimento capace di risolvere efficacemente un problema, di calcolare un risultato, attraverso un insieme di passi elementari. Una strategia efficiente già definita che non è capace di gestire ulteriori ragionamenti e ponderazioni che chi l’ha composta non abbia già previsto. Questo è vero per la quasi totalità degli algoritmi e dei programmi software che oggi sono usati nei computer, negli smartphone e in ogni oggetto digitale che costituisce il singolo elemento operativo della macchina informatica planetaria interconnessa dalla rete.
Tuttavia, nuovi paradigmi si stanno studiando e sperimentando per permettere agli algoritmi di apprendere dall’ambiente circostante, dagli eventi imprevisti, dai dati che di volta in volta vengono raccolti. Tecnologie software come i sistemi autonomici (autonomic computing systems), le tecniche di machine learning, gli agenti adattivi, gli algoritmi di data mining e più in generale di intelligenza artificiale non supervisionata, hanno l’obiettivo di introdurre capacità di riflessione negli algoritmi per avanzare il pensiero a priori verso una possibilità di “gestione della sorpresa”, del non previsto prima. Questo sforzo, se avrà successo, sposterà ulteriormente l’orizzonte elaborativo dei dispositivi di calcolo digitali che sono nati per computare e, sempre più, utilizzati per “pensare automaticamente”. Questa forma di pensiero cristallizzato che oggi è il software condiziona profondamente il pensare e l’agire degli umani che a quelle macchine guidate dai software si rivolgono, e che da quelle macchine ormai dipendono per compiere infinite funzioni quotidiane molto utili. Le tecnologie informatiche, mentre silenziosamente risolvono i problemi degli utenti, portano in sé i valori culturali di chi le progetta e di chi le realizza. Ignorare quest’aspetto non permetterebbe di cogliere interamente l’impatto delle nuove tecnologie digitali che popolano il nostro mondo.
Il pensiero automatico delle macchine, quando ci assiste e ci aiuta nel lavoro, nei viaggi, nel gioco, nei rapporti con gli altri, condiziona il nostro quotidiano e influenza non soltanto le nostre azioni, ma anche il nostro modo di pensare. Ci spinge a essere elementi di un macromeccanismo globale che definisce ritmi e procedure. Quasi come in un’involuzione di Tempi moderni, rischiamo tutti di diventare dei nuovi Chaplin, stritolati tra i cicli delle istruzioni, nel flusso operativo degli algoritmi. Cicli e flussi che non sono di metallo come le ruote dentate degli ingranaggi della fabbrica di Charlot, ma, che in maniera altrettanto sincrona e inarrestabile, ci trasportano senza consentire pause, tregue, ripensamenti.
Gli algoritmi, oltre a risolvere problemi, a calcolare velocemente risultati, assumono sempre di più il ruolo di regolatori del tempo, delle comunicazioni, dei rapporti commerciali e personali. La società e le sue componenti sono in evidente difficoltà nel mostrare la necessaria consapevolezza e soprattutto non riescono ad attivare le regole e le forme (politiche e di governo) opportune per evitare che i cittadini e le organizzazioni sociali che loro hanno costruito siano guidate da procedure algoritmiche che qualcuno ha definito senza aver l’obbligo di rendere conto alla società.
Un’altra questione che assume notevole rilevanza è quella dell’accumulo informativo che le macchine e le reti digitali determinano. Nel suo saggio2 Han segnala un aspetto che altri studi in questi ultimi anni hanno evidenziato: «Un aumento d’informazioni non porta necessariamente a decisioni migliori. […] Da un certo punto in poi, l’informazione non è più informativa, ma deformativa».
I problemi della raccolta dei dati e delle informazioni sono oggi centrali per la nostra società e coinvolgono aspetti relativi al controllo sociale, alla manipolazione informativa, alla concentrazione in mani improprie dei dati dei cittadini, al loro uso da parte di privati, delle agenzie governative e dei grandi network commerciali. La ricerca informatica ha semplificato tutto questo con il termine Big Data che, forse non del tutto casualmente somiglia al ben noto big brother. Le macchine informatiche che sono state pensate e realizzate nella metà del secolo scorso per calcolare automaticamente, oggi sono lo strumento più formidabile di generazione di dati e informazioni nelle forme più varie.
Il grande oceano di dati digitali è difficile da navigare e ormai è praticamente impossibile trovare manualmente in esso le perle di conoscenza che ci servono per comprendere le cose realmente utili ed importanti e per prendere le giuste decisioni. Non a caso chi, come Google, è stato capace, prima e meglio di altri, di cercare informazioni nei Big Data della rete, ha assunto un ruolo e un potere molto più ampio e discrezionale di tanti governi. L’enorme macchina informatica permette di accedere facilmente a patrimoni informativi ricchi e preziosi, ma allo stesso tempo permette di immettere con facilità e velocità qualsiasi informazione manipolata, contraffatta e quindi non informativa ma deformativa. Lo possono fare i singoli e meglio di loro lo possono fare le organizzazioni, le lobby, i poteri politici e finanziari. Tutto questo costituisce un rischio enorme e una difficoltà sempre maggiore per chi usa l’informazione digitale globale per conoscere e capire, per formarsi un’opinione e per fare delle scelte.
Il settore del data mining è nato come risposta tecnologica al problema della bulimia informativa, con lo scopo di disporre di strumenti automatici capaci di selezionare e identificare le parti utili e significative nel mare magnum dei dati digitali. Chi sarà capace di padroneggiare questa tecnologia avrà vantaggi enormi sugli altri che nuotano tra i dati senza trovare la giusta direzione, avrà un potere conoscitivo che gli permetterà di spostare l’asse dei rapporti sociali ed economici usando la leggerezza di una tecnologia di analisi molto sofisticata che permette di vedere in maniera chiara dove gli altri scorgono opacità. È capace di trovare elementi di conoscenza, tendenze e associazioni nei Big Data che per molti sono soltanto un gigantesco cumulo di rumore e di confusione informativa. Siamo in presenza di una tecnologia che “calcola” i fatti di ordine superiore, le vite dei singoli e prevede i trend sociali e politici, una modalità molto raffinata di “calcolare” la società presente e quella futura.
In questo contesto assume un ruolo sempre più importante la sentiment analysis che, anche se si occupa di conoscere opinioni, impressioni e sensazioni delle persone, non è una sorta di posta del cuore digitale e non riguarda la psicoanalisi delle passioni umane. Il termine indica quel settore del data mining che scopre i comportamenti, le preferenze e le percezioni che le persone hanno di fatti, argomenti, persone, temi, prodotti e altro ancora. L’analisi viene svolta tramite algoritmi di analisi che scavano nel web, nei blog, nelle email, nei social media, per individuare parole, frasi, espressioni rilevanti che le persone pubblicano e da questi scoprire i loro pensieri, le loro preferenze, i loro sentimenti. In breve, per sapere cosa pensano di un dato fatto o argomento e quindi cosa preferiscono e come si comportano. In tutto questo c’è poco di romantico e molto di business, perché spesso la sentiment analysis è legata a interessi economici, alla pubblicità, allo studio dei comportamenti dei dipendenti, piuttosto che dei candidati a un posto di lavoro. Per queste ragioni, è necessario rimuovere gli aspetti romantici che il termine potrebbe richiamare e saper valutare come l’analisi di quello che pubblichiamo su internet possa influire sull’opinione che qualcuno che non conosciamo e forse non conosceremo mai, si possa fare di noi e così possa influenzare la nostra vita.
L’uso di tecniche di sentiment analysis oggi è molto sofisticato e può penetrare nella nostra privacy molto più di quel che si possa credere. Lo scandalo Datagate ha preoccupato giustamente il mondo e ha scoperchiato una pentola gigantesca di spionaggi mondiali che coinvolgono tutti gli Stati. L’analisi che può fare e starà già compiendo la NSA americana nelle enormi montagne di dati di cui si è impossessata potrebbe avere effetti inimmaginabili. Come uno dei tanti esempi possibili, si può facilmente comprendere come l’analisi delle telefonate di Angela Merkel possa permettere loro non soltanto di conoscere con chi e di cosa la Cancelliera ha parlato in passato, ma anche di prevedere come lei si comporterà su determinate questioni in futuro.
Il monitoraggio costante che viene fatto delle fonti della rete e di tutto quello che viene immesso online, permette di acquisire conoscenze formidabili sulle abitudini e le preferenze politiche, commerciali, sportive e di altro tipo delle persone. Sicuramente molti degli algoritmi di analisi disponibili possono essere e sono usati per usi sociali e pubblici, ma allo stesso tempo altri usi possono mettere a rischio la privacy e la libertà delle persone.
Anche il consenso nella società del nuovo millennio è sempre più condizionato dai media digitali. Dal punto di vista della partecipazione politica, in questo tempo in cui i partiti si sono rinchiusi in un recinto di casta e hanno ridotto la loro capacità di rappresentanza democratica, la rete contribuisce a indebolirli sottraendo loro monopoli informativi e aggregativi, e, allo stesso tempo, la democrazia digitale non riesce a definire strutture ben formate di discussione, confronto e sintesi.
Le forme di comunicazione digitale sembrano facilitare la personalizzazione della politica, fornendo canali all’affermazione dei partiti personali, nei quali il leader “parla” direttamente al popolo (digitale) scavalcando ogni intermediario3. Addirittura si può giungere alla situazione in cui nella rete «ogni singolo è esso stesso un partito», le opinioni e i commenti si rincorrono senza una qualsiasi forma di coordinamento o di sbocco fattuale. Tutti gli avvenimenti, in un flusso ininterrotto, passano per gli strumenti digitali e i commenti, le approvazioni e le critiche tanto sono immediate nell’apparire, quanto fatue nello svanire all’interno dell’infinito streaming di email, post, blog e tweet. Siamo nella democrazia del like (“Mi piace”) la cui efficacia temporale è quasi prossima al nulla. Sono espressioni digitalmente contingenti che non riescono a costruire una reale dialettica politica che possa giungere a sintesi effettiva e soprattutto a un vero processo dialettico di costruzione del consenso (o del dissenso); a una prassi che determini scelte reali.
La polis digitale è popolata da utenti e contributi, ma quasi mai riesce a superare l’enorme entropia che essa stessa genera per divenire un luogo in cui le idee riescono a strutturarsi e a consolidarsi per uscire dal mondo digitale e affondare il coltello nella realtà per incidere e modificarla. Le democrazie occidentali sembrano non essere influenzate significativamente dalla dialettica dei social media, mentre alcuni regimi, dove l’informazione è un bene di cui i cittadini non dispongono facilmente, li temono, li bloccano per creare il silenzio dei bit, o li infiltrano nella speranza di aggiungere altro rumore e così confondere i potenziali contenuti informativi utili ai cittadini. In questi casi, i mezzi digitali non sono fondamentali per il libero dibattito politico, che non esiste neanche al di fuori di essi, ma per portare quanti di informazione verso il popolo che non può accedervi diversamente.
Tutte le azioni che compiamo nella rete sono memorizzate dai computer, dagli altri, dai singoli dispositivi, dalla rete stessa. Scrive Han:
Ogni click che faccio viene registrato; ogni passo che compio diventa ricostruibile.
Siamo in una prossimità digitale che ci appare simile alla prossimità fisica e in parte lo è, ma non completamente. Nel sistema sociale digitale siamo tutti più vicini, sappiamo degli altri e ognuno di noi è potenzialmente in diretto contatto con tutti gli altri. Riceviamo direttamente le informazioni, le posizioni, le azioni che gli altri compiono in tempo reale, come se vivessimo vicini a tutti quelli di cui veniamo a sapere o di quelli a cui siamo interessati. La macchina digitale diventa un piccolo mondo dove tutti ci possiamo sentire limitrofi. Come in un piccolo paese, in una piccola comunità, possiamo controllare quello che gli altri dicono, dove vanno, cosa fanno. Le altre persone possono fare lo stesso nei nostri confronti in una specie di universo trasparente dove tutti possono controllare tutti. Nasce così un controllo sociale digitale che ci dà un senso di vicinanza senza che mai i nostri corpi si incrocino, senz...