pólemos
1.
Nell’ultima settimana di novembre cominciò a fare freddo, freddo davvero. Non che Carlo ne fosse stupito; sapeva che prima o poi il vento gelido avrebbe cominciato a entrargli nelle ossa, preavvisando l’inverno. E anzi, quell’anno ci aveva messo più del solito. Ma considerò la circostanza come un segno, pur ineluttabile. Il freddo portava con sé tutti i giorni che avrebbe dovuto vivere, ancora, in attesa del giorno prefissato.
In attesa, dalla fine dell’estate, da quando cioè sapeva come le cose – tutte le cose – sarebbero dovute andare, da quando Tito era riuscito a convincere Carlo che si sarebbe dovuto compiere un gesto dimostrativo, un gesto concreto di lotta armata: piazzare una bomba a basso potenziale e farla esplodere in un palazzo del potere borghese; ma a uffici chiusi, senza provocare vittime o feriti. Avevano pensato al primo dicembre, il primo giorno dell’ultimo mese, con davanti un intero autunno preparatorio per evitare ingenuità e frettolosi sbagli.
Era infatti dalla fine dell’estate che conviveva con quell’idea: l’idea di passare dalle armi della critica alla critica delle armi, come aveva detto una volta proprio Giangiacomo Feltrinelli parlando in un’assemblea autogestita della Statale di Milano. L’idea di passare dall’altra parte, di diventare un terrorista anche se di basso, bassissimo profilo per un pomeriggio soltanto; un’idea astratta che però si era man mano rappresa, fino a diventare materiale e tangibile. Già in un paio di notti si era svegliato di soprassalto per aver sentito, in lontananza, l’esplosione della bomba. Della loro bomba, anche se era ancora tutta da costruire; Tito aveva reperito i pezzi da assemblare, con l’aiuto dei compagni di Potere Operaio che lavoravano nelle fabbriche metallurgiche dell’Oltrepò. Ma non era angoscia, la sua: aveva soltanto voglia, una voglia irrefrenabile, di scoprire cosa sarebbe accaduto in quel momento.
Si rendeva conto, adesso, di aver concepito, generato e cresciuto dentro di sé l’immagine di quanto sarebbe dovuto accadere. Era diventato un tutt’uno con essa, e proprio come quando si passa troppo tempo con qualcosa o qualcuno l’idea stessa che a un certo punto se ne potesse sbarazzare non veniva presa più in considerazione: tutto è proiettato nel futuro, e il presente è il solo punto di imbarco verso il più irraggiungibile dei continenti.
Trascorse così buona parte di quell’autunno datato 1969, e l’attesa si declinava in mille modi. L’attesa era l’estremità delle dita fredde come ghiaccio, era la fronte bollente e la gola secca; era il formicolio a una gamba, e sempre la stessa, che non voleva fermarsi; era irrigidirsi d’improvviso nel letto, erano i colpi del cuore sulla grancassa del petto, durante tutta la notte. Era il sonno divenuto leggero, quasi fosse una inconsistente patina sottile appena poggiata sugli occhi chiusi. E poi c’erano gli improvvisi sbalzi d’umore, ora pensando che alla fine tutto sarebbe andato per il giusto verso, ora riflettendo su ogni possibile conseguenza. Ma non era paura, era attesa.
Ogni tanto irrompeva il pensiero – quasi un desiderio – che tutto fosse finzione, che la lotta armata, il conflitto di classe, il proletariato, la borghesia da annientare, tutto fosse stipato nella sua testa e, soprattutto, in quella di Tito, senza alcuna connessione con il mondo esterno. Ma si scontrava con il più irrisolvibile dei problemi: qual è il mondo reale, qual è quello possibile per ciascuno e quali sono le alternative. Da sempre, come in tutte le cose, individuare l’alternativa è il vero problema.
Spesso pensava a come si era fatto convincere da Tito, due mesi prima: «La lotta armata è necessaria, te ne sei accorto anche tu. Ma facciamo una cosa soltanto, solo un po’ di casino, un po’ di rumore», gli aveva detto. Carlo avrebbe poi compreso che la cosa a cui si stava riferendo era in realtà un gesto dimostrativo, un atto dinamitardo senza morti né feriti, in un palazzo del potere borghese, possibilmente un tribunale. Per Tito si trattava di un compromesso al ribasso, per Carlo della garanzia che la sua vita normale, dopo quel gesto, si sarebbe avviata di nuovo: tutto, infatti, era come sospeso, dopo la visita a Massimiliano.
Non aveva più la concentrazione necessaria per seguire i corsi, e aveva di fatto abbandonato l’università, sebbene si fosse appena iscritto alla facoltà di scienze politiche dello storico ateneo pavese. Il tempo stesso era stato tramutato in una finzione: spezzettava le sue giornate in numerosi momenti distinti, dotati d’autonomia, nei quali dover fare qualcosa, necessariamente; come i secondi sono autonomi l’uno rispetto all’altro, e così anche per i minuti e le ore. Il tempo, che fino a quel momento aveva seguito un andamento interlineo, senza rugosità, fratture, senza imprevisti ed emozione alcuna, in quel momento – senza alcun infingimento, e anzi con notevole preavviso – si sarebbe improvvisamente biforcato verso i possibili futuri; che lui, ovviamente, non poteva conoscere. Come poteva, quest’idea così densa e carica di destino, non assediarlo, non essergli compagna per buona parte di ogni giornata che quell’autunno mandava sulla terra?
Ecco, il freddo, così naturale e inconsapevole, così insidioso, pareva fosse giunto per ricordargli l’appuntamento che aveva fissato con Tito e con se stesso. Che sembrava essersi approssimato, improvvisamente.
In riva al Ticino infestato dalle zanzare, Carlo e Tito si erano trovati allo stesso tavolino di un bar di Pavia, una sera del luglio che era appena trascorso. Tito fin da subito aveva avuto la sensazione di aver già incontrato il suo vicino, di averlo già visto da qualche parte: ma non a Pavia.
«... Se anche noi entrassimo a far parte della onorata società mafiosa che governa e regge il nostro Paese...». In lontananza si udiva la voce di Giorgio Almirante, che quella sera teneva un comizio in una Piazza della Vittoria gremita. Non c’erano stati scontri, nessuna contestazione da parte dei comunisti, che a Pavia – città di padroni: dal grosso industriale all’imprenditore agricolo, tutti padroni erano o si sentivano – risultavano poco attivi, inconsistenti. Sicché, i simpatizzanti del Movimento sociale italiano erano potuti accorrere indisturbati da tutta la provincia.
La conversazione tra i due scorse lenta e disinteressata, per cortesia e noia; d’un tratto, poi, Tito si ricordò. «C’eri anche tu in Versilia, a capodanno», disse assertivamente, anzi, con una venatura d’amarezza. Fumava una Gauloises senza filtro. Il viso di Carlo si ammantò di sorpresa, quindi si contrasse in una smorfia, come se non fosse affatto contento che qualcuno gli avesse ricordato il capodanno di qualche mese prima, come se un tempo lontanissimo fosse tornato a prenderselo, e lui avesse provato fin lì a sfuggirgli.
«...popolo al quale si cerca di far perdere l’identità... Ma questa è la nostra Patria!» e giù uno scroscio d’applausi, che arrivò all’orecchio dei due in forma di un sordo muggito.
Sì, entrambi erano stati lì, in Versilia, a manifestare contro il capodanno borghesissimo che era in programma nel rinomato locale del lungomare di Pietrasanta, “La Bussola”.
Tito abitava con i suoi genitori a Locate Triulzi, tra Milano e Pavia. Aveva 22 anni, quattro più di Carlo. Era diplomato in ragioneria e sembrava non avere un’occupazione stabile. Animato da istinti troppo intrisi di ideologia per poter avere un’occupazione: quel posto in banca della maggior parte dei suoi compagni di scuola, e alcuni, con moglie e figli, già godevano degli scatti di carriera.
Difatti. Tito era parte attiva e militante del nucleo milanese di Potere Operaio, e da Milano erano partiti in una trentina per quel raduno di fine anno, organizzato in Versilia proprio da P.O. – questa la sigla che ricorreva sempre più spesso dipinta sui muri delle città, che ricordava il più importante fiume d’Italia e le sue correnti tumultuose.
In Versilia, ci era andato anche Carlo, trascinato da un compagno di liceo. «Facciamo un capodanno alternativo», gli era stato detto. Aveva accettato, ma Carlo non c’entrava nulla con Potere Operaio: conosceva a malapena i pochi fondamenti del marxismo (uguaglianza sociale, emancipazione della classe operaia e altri principi di questo genere), più per sentito dire che per averli praticati o professati. In quel momento frequentava ancora l’ultimo anno di liceo classico, e non aveva intenzione di essere distratto dagli studi per questioni che lui reputava assolutamente astratte. Era stato comunque rassicurato, quell’atto di protesta di fine anno voleva essere solo una innocente goliardata, si andava lì per tirare uova e petardi ai ricchi avventori impellicciati del locale. Tutto si sarebbe risolto, alla fine, in un capodanno “alternativo”. Non doveva finire male; o almeno, non quella volta.
E, invece, era finita male. Ci si era fatti prendere la mano, era volato qualche sasso provocando, consequenzialmente, le cariche di alleggerimento di polizia e carabinieri mandati a presidiare il locale. Sbucate da qualche zaino le prime molotov, da Firenze e La Spezia erano arrivati rinforzi, compagni e forze dell’ordine in egual misura, e alla fine il questore aveva deciso di sciogliere la manifestazione. Inevitabile lo scontro con la polizia: le manganellate, poi uno sparo. Massimiliano, un ragazzo di Livorno, si era accasciato a terra, quasi immediatamente.
Carlo era rimasto in disparte, sconvolto da tanta violenza, da tanto livore, da una parte e dall’altra. Aveva però sentito montare dentro il senso profondo di ingiustizia: una goliardata non poteva finire così, con un ragazzo riverso in un pozza di sangue.
Ecco perché quella sera, quantunque si conoscessero da pochi minuti, Tito chiese a Carlo: «Hai saputo poi di Massimiliano?»
«Sì».
Su molti giornali, soprattutto sull’«Unità», ci si era sperticati in quotidiani resoconti degli sviluppi di quel fatto: e per almeno due settimane, dopo quel maledetto capodanno. Ma quando la diagnosi medica sembrò essere spietatamente irreversibile, dichiarando tetraplegico un ragazzo di appena 18 anni, e dopo che i vari esponenti della sinistra (parlamentare e non) avevano fatto visita allo sfortunato ragazzo degente in ospedale, l’eco si era spenta, i trafiletti si erano fatti via via più brevi e sintetici, fino a non esservene più traccia. Le processioni al suo capezzale si erano esaurite. Forse Massimiliano sarebbe potuto diventare un simbolo, ma la sua tragedia aveva mancato di qualche mese, quasi un anno, l’inaugurazione della stagione dei simboli.
Carlo aveva seguito l’evolversi di tutta la vicenda, pedissequamente. Così anche Tito; del resto, in casa sua l’«Unità» arrivava sempre nel tardo pomeriggio – alle 18, per l’esattezza con il rientro dal lavoro di suo padre, operaio alla Necchi, una nota fabbrica di macchine da cucire. Tito non mancava mai di prodursi in esternazioni d’orgoglio per suo padre, “operaio specializzato”: «Lui si fa il culo, non come questi porci borghesi».
Non si seppe più, né mai, chi fu a sparare sui manifestanti. Il proiettile estratto dalle carni di Massimiliano venne ritenuto “incompatibile” con l’armamentario in dotazione a poliziotti e carabinieri. A sparare, doveva essere stato, e lo si pensò subito, qualche “porco borghese” impellicciato da dentro il locale, che non poteva tollerare che gli si fosse rovinato il capodanno da poche centinaia di giovani marxisti, pateticamente idealisti.
«La pagheranno», digrignò Tito tra i denti quella sera in riva al Ticino, sulle cui acque la luna baluginava inquieta, permettendo all’eco delle parole missine di riflettersi e propagarsi più lontano. Poi proseguì: «Con i compagni di Milano stiamo andando a Livorno, per fare visita a Massimiliano, questa settimana. Ti vuoi unire?»
Carlo rimase per alcuni attimi sospeso nella propria indecisione, in fondo, non lo conosceva e ricordava appena quel corpo esanime, nella bolgia di capodanno. Alla fine aveva accettato, non ci aveva trovato nulla di male, nulla di pericoloso, nulla che andasse contro la sua decisione di rimanere fuori da quei giochi pericolosi di lotta di classe; ché già una volta, a capodanno, ci era finito dentro, ed era finita male.
«...le vostre, onorevole De Mita, sono battaglie di poltrone, le nostre sono battaglie di popolo...».
«D’accordo, ci vediamo domani», aveva detto Carlo, sovrastando le accuse che Almirante rivolgeva a esponenti del Governo come se li avesse lì accanto, fisicamente.
Scendendo verso la Toscana, Pavia è quasi di strada. Carlo era montato su un’Alfetta grigio metallizzato, guidata da un omone che affondava il volto in una barba foltissima, stretto in un giubbotto di pelle nera. Con lui, Tito dietro e, accanto al conducente, una ragazza biondissima, occhi azzurri che vagavano maliziosi nell’abitacolo e uno spinello fumante in mano. Ampi pantaloni a zampa d’elefante nascondevano ingenerosamente gambe lunghe e perfette, da nordica. Al ritorno, quella ragazza non c’era più, ma Carlo non aveva chiesto spiegazioni.
Dopo la visita a Massimiliano non si erano più sentiti, come se avessero voluto perdersi. Si rividero, invece, al cinema Araldo di Certosa di Pavia, a metà settembre, ma fu per caso. Tra i due volò soltanto un saluto in grado di attraversare la sala stantia di fumo da un angolo all’altro, e Carlo più di Tito non voleva rievocare i precedenti incontri. Proiettavano Emmanuelle, un film accompagnato da grandi promesse di pornografia esplicita fin dalla locandina e da qualche polemica giornalistica, che aveva attratto un pubblico numeroso e concupiscente.
Un film quasi incomprensibile fin dall’inizio, eccessivamente sperimentale, che di pornografico aveva ben poco. Dopo una ventina di minuti già serpeggiava un brusìo insoddisfatto, e molti uscirono. Si ritrovarono così, senza averlo davvero voluto, entrambi fuori nello stesso momento: Carlo e Tito, si accesero una sigaretta l’uno con i fiammiferi dell’altro. Tornarono con i discorsi a quella visita, che sembrava aver destato in ciascuno effetti diversi. Carlo, alla vista di quel ragazzo inerme su un letto, sfibrato dal dolore e dall’idea che il suo male si sarebbe accompagnato alla sua vita, e che la sua vita sarebbe andata comunque oltre la protesta, la guerra e la rivoluzione proletaria, ne era rimasto umanamente segnato, percependo e afferrando il concetto astratto – sempre lo stesso – di profonda ingiustizia; Tito, invece, fu avvolto da una vera e propria ossessione, la necessità della lotta operaia, di una lotta armata, per scalzare dai posti di potere i “porci borghesi”.
Erano linee di pensiero inconciliabili, che non potevano coesistere. Eppure, quella stessa sera, tra le pieghe di una discussione accesa sull’essere e sul dover essere, i due trovarono una sintesi, una bomba in un tribunale di provincia, inoffensiva, per quanto una bomba artigianale riesca a esserlo. Quella sera Carlo, tornando a casa, sentì che il destino gli aveva estorto un pezzo di lucido raziocinio, reso oggetto di trattative solo perché il ragazzo, dopo aver fatto visita a Massimiliano, era preda di una latente e ingestibile emotività.
2.
Gli ultimi giorni, quindi, si erano avvicendati rapidamente. Carlo e Tito avevano composto l’ordigno, impiegandoci quasi una settimana. Non uno soltanto; ne avevano costruito anche un secondo, identico al primo, per provarlo lontano dai centri abitati. E così avevano fatto: una mattina si erano spinti fin quasi alle porte di Bressana Bottarone, un luogo in mezzo a un nulla fatto di nebbia e platani, appena riconoscibile da qualche cascina, ad una decina di chilometri a sud da Pavia. Avevano individuato una risaia abbandonata attorniata e resa invisibile da una fitta schiera di faggi ai lati, era il luogo ideale per sperimentare la portata deflagrante dell’ordigno. Scavarono quindi una buca nella terra secca e sterile del campo – ché la coltura del riso, una coltura parassita, prosciuga la vita della terra, inaridendola – e lì collocarono quella che loro chiamavano “la bomba”, anche se si trattava di qualcosa di molto più rudimentale, una scatola di latta riempita di polvere pirica e chiodi, legata a una bottiglia di vetro piena di benzina. Molta ferraglia Carlo l’aveva...