Donne indifese in Calabria
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Donne indifese in Calabria

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Donne indifese in Calabria

About this book

Nel 1859 a Londra, una lady vittoriana, Emily Lowe, pubblica Unprotected females in Sicily, Calabria and on the top of mount aetna, resoconto di un viaggio in Calabria e in Sicilia intrapreso in compagnia della madre, senza scorta e con un leggero bagaglio per non subire la presenza di scomodi gentlemen. Prima donna in Inghilterra a ottenere la patente di capitano navale e ad attraversare il mediterraneo al comando di uno yacht da 350 tonnellate, Emily Lowe rompe gli stereotipi delle viaggiatrici quali intrepide zitelle con parasole, pellegrini in gonnella e pioniere del picnic. Pienamente consapevole dell'unicità del viaggio intrapreso, la scrittrice fa spesso intendere al lettore di essere un'autentica traveller e non una semplice turista e, appena sbarcata sulla spiaggia di Reggio esclama: "evviva Calabria! terra che pericoli romanzeschi proteggono dall'invasione dei viaggiatori". pur cadendo nei tranelli degli stereotipi e dei pregiudizi che spesso caratterizzano i diari di viaggio, Emily Lowe ci regala un delizioso ritratto al femminile della regione e dei calabresi dell'epoca non mancando di volgere lo sguardo verso la società ospitante per sottolinearne anche i tratti positivi.

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Information

1

Scilla e Cariddi

Capodanno! Che giorno felice, anche se trascorso fra Scilla e Cariddi. Gentile lettore, se ci hai seguite fino a queste rive infide, e ti sei coraggiosamente imbarcato sulla nostra Speronara* dalle ampie vele, diretta a Reggio, possano i tuoi prossimi dodici mesi di vita essere agitati non più della sua prua appuntita, che vira agevolmente fra i gorghi tumultuosi per vivacizzare la rotta senza disturbare la nostra fantasia, sì che ogni gorgo non sia tanto vorticoso da preoccuparci e sia solo un preludio a una calma che verrà subito dopo. Cariddi ha una natura che non dà alcun fastidio paragonabile a quelli che può provocare in vita sua una persona maleducata. Scilla, scoglio incantevole,sorge di fronte come una tentazione allettante, tutta bella a distanza, ma che da vicino non dà tregua poiché punte invisibili sotto la superficie delle onde pungono come rimorsi quelli che se ne allontanano fra i lamenti. Marinaio, tieniti ben lontano da Scilla! A questa terra promessa si accede attraverso quella linea blu, foriera di speranza che segna le spiagge dorate.
Per la verità, in mezzo c’è una fascia di mare mosso, ma ci sono persone che ci aiutano ad attraversarla e, mentre ci portano sulle spalle, gli spruzzi ci raggiungono, ci toccano, ci rinfrescano, ci fanno grazia di sé: così gridiamo «evviva Calabria!»*, terra che pericoli romanzeschi proteggono dall’invasione dei viaggiatori1.
A guardia della spiaggia c’è un custode, ma anche una piccola offerta basta a farlo passare dal servizio del governo al nostro. Egli ci mostra con gentilezza la strada che conduce alla sua tana, un porticato rinforzato con pilastri che arrivano fino all’acqua, dove si rilascia un certificato di buona salute a tutti coloro che dai passaporti risultino incontaminati2 da contatti con Paesi dell’Est. Dopodiché, o piccoli bagagli, davanti alla dogana l’onore di portare alla locanda le vostre piccolissime presenze suscitò un tale litigio da indurci a portarli noi stesse. Questa nostra intenzione allarmò tanto i litiganti da spingerli a far pace, promettendosi di dividere la ricompensa3. Arrivati alla Locanda di Sicilia*, una semplice occhiata alle stanze ci fece tornare rapidamente al piano di sotto per cercare un altro alloggio; cambiammo rotta finché vedemmo la scritta «Trattoria della Villa Nuova»* su di una graziosa casa color rosa posta sul molo, sperando che il proprietario avesse qualche stanza libera. Ce ne mostrò due con finestre e balconi affacciati verso il vicino Monte Etna, di cui in seguito adottò il nome come insegna del locale.
Sul molo c’è un altro di questi posti semplici, che potrebbero così ospitare anche una grande comitiva di persone, che si separano di notte per ritrovarsi insieme di giorno all’ora dei pasti, che venivano serviti in maniera egregia – per lo standard calabrese4 –, con deliziose varietà di pesce.
Nel piattino di ogni tazza da caffè c’era un bel sonetto su carta color rosa con l’augurio di buon anno nuovo.

2

Reggio

Una visita di tre oneste persone – Stato della città dopo il terremoto – Due tipi di gelosia popolare – Aranceti – Il bergamotto – Bachi da seta – Un pomeriggio romantico – Alcuni tratti nazionali.
«Eccellenza! Signora! Ecco tre galant’uomini che la domandano»*.
«Faccia salire le loro signorie, Padrone*; sul terrazzo c’è posto per tutti».
Due di loro venivano da parte del Cavaliere Monsolini, un grand’uomo, da queste parti, al quale avevano scritto i nostri amici di Messina; egli, avendo un attacco di gotta, aveva mandato due messaggeri per annunciare la sua venuta. Il terzo era un giovane commerciante venuto per proprio conto, che ci propose una passeggiata lungo la «Coda di Volpe»*, come si chiama quella parte della costa che si stende verso Sud.
Gli dicemmo di no perché gli inviati del Cavaliere avevano programmato per l’indomani (gotta permettendo) una visita agli stabilimenti del bergamotto e dei bachi da seta.
La città di Reggio, che per uno straordinario fenomeno di allucinazione una volta si autodefiniva «la piccola Parigi»1, barcolla sulle gambe come un bambino. Due terzi degli edifici furono abbattuti improvvisamente da un grande terremoto e piccole scosse continuano ad aumentare i mucchi di macerie. Le case imbiancate, alterando la propria identità, sembrano delle file di dolci con glassa di zucchero smangiucchiati2 qua e là. La povera cattedrale danneggiata mostra coraggiosamente una facciata sulla quale è incisa un’iscrizione che si appella all’autorità della Bibbia, «San Paolo è passato per Reggio». Era in costruzione un magnifico palazzo in pietra arenaria, decorato con cupidi e altri elementi architettonici. Alla richiesta fatta al mercante sul perché siano stati creati tutti quei piccoli innocenti, destinati alla rovina insieme con tutto quel magnifico edificio, egli disse «L’edificio è stato costruito per ostentazione, per dimostrare che il proprietario era l’uomo più ricco della provincia, divisa fra l’invidia del potere e quella dell’amore».
Di sera, all’opera, benché non ci fossero bellezze smaglianti, capaci di folgorare qualcuno, c’erano molte facce davvero interessanti e occhi adatti a giustificare un buon numero di omicidi. Fortunatamente per la pace sociale, le signore non indossavano abiti da cerimonia, che di solito danno agli italiani un colorito olivastro, mentre in abbigliamento semplice il loro colorito è normale.
L’opera era Il Trovatore*, cantata con una completezza e un sentimento tali da far pensare alla Calabria come alla terra natia delle passioni cupe che quella musica rivela in modo pauroso3. A un certo punto il coro si ribellò, il teatro rumoreggiò di indignazione, e il dramma proseguì con rinnovata energia.
Seguì l’ultima scena dell’Ernani*, cantata benissimo; e poiché nella «Piccola Parigi» il gas è sconosciuto, mentre gli altari dei santi mantengono parecchie fabbriche di cera, il palcoscenico era delicatamente illuminato da centinaia di candele collocate fra rami di mirto, come piccola sorpresa da parte dell’impresario al suo pubblico.
Il mattino seguente venne il Cavaliere inpersona con un dottore, un segretario, un avvocato e i due inviati del giorno prima, che facevano parte della sua famiglia. Considerata la sua infermità, avremmo preferito scendere per riceverlo alla sua carrozza, ma egli insistette nel voler salire le scale con l’aiuto di un grosso bastone, dicendo: «Signore, io fo il mio dovere»*, che era la risposta che veniva data sempre ai nostri ringraziamenti per le innumerevoli cortesie, e regali, palchi d’opera, servigi offertici durante il viaggio nel regno.
Viaggiando su una grande carrozza di famiglia (i dipendenti anziani dentro e i giovani fuori), lungo la strada eravamo stupite di vedere arance e limoni galleggiare nelle cunette di scolo e nemmeno un ragazzetto cencioso darsi da fare per succhiarne qualcuno4. Ma entrando nelle piantagioni, dove quegli alberi delicati crescevano fitti come pini del nord5, carichi di frutti come viti cariche di grappoli d’uva – e andammo avanti per miglia e miglia lungo i filari con le stesse cime rotonde a perdita d’occhio su tutto il territorio –, i veri aranceti d’Italia ci apparirono in tutta la loro ricchezza e vitalità.
I bergamotti hanno l’apparenza dei limoni e in quel momento erano pronti per il raccolto. Contadini in costume tipico della regione (berretti pendenti, giacche di velluto e pantaloni a tre bottoni, che si aprivano all’altezza del ginocchio, coperto da merletti bianchi) stayano i frutti dentro canestri retti da graziose ragazze in abiti multicolori, che li portavano in casette di campagna dove una notevole quantità veniva versata in una macchina munita di celle in ottone, che provvedeva alla spremitura; questa macchina girava quaranta volte, dopodiché, al suono di una campana, i frutti venivano scaricati ancora interi, mentre la loro essenza si raccoglieva in un recipiente sottostante. Otto o diecimila bergamotti producono fino a venti libbre (9 kg. circa) di profumo di ottima qualità, che viene esportato in Inghilterra per la raffinazione.
I frutti svuotati servivano soltanto ad alimentare il bestiame, che li masticava lentamente fuori dalle vasche, conferendo un delicato profumo alle bistecche.
Per i limoni si applica lo stesso procedimento, dando luogo alla produzione di acido citrico, che alcuni produttori avevano cercato di ottenere dai bergamotti, ma con una resa di qualità molto inferiore.
In una parte diversa dell’edificio era collocata una pressa per olive di tipo idraulico, mentre in Francia, un Paese che dovrebbe essere più civile, si usano ancora asini con gli occhi bendati6.
I bachi da seta, che d’inverno vengono racchiusi in piccoli sacchi, vivono la loro stagione d’estate e i contadini li tengono in casa propria, dove in tutte le stanze si trovano file di canne sospese a circa un piede dal soffitto; su di esse vengono stese stuoie dove le piccole larve passano tutta la vita, dalla foglia di gelso all’età del bozzolo. C’erano case molto piccole dove restava a malapena lo spazio per infilarsi nei letti sotto le stuoie, mentre in altre c’era appena lo spazio per appendere una piccola amaca per i bambini. Matasse di lucente seta dorata, come i capelli di Elena7, erano piegate e legate in grosse balle e immagazzinate in un edificio vuoto vicino al mare, pronte per l’imbarco verso Paesi dotati delle apparecchiature per tesserle e trasformarle in stoffe fruscianti8.
Tutti i contadini delle proprietà del Cavaliere Monsolini lo accoglievano come un padre e lo trattavano con altrettanto rispetto ma con maggiore affetto di quanto un gentiluomo inglese si possa aspettare dai suoi dipendenti. «La bacio la mano»* era il loro saluto9.
Trascorsalamattinatafra queste piacevoli considerazioni statistiche, la comitiva propose di fare una visita di piacere a qualcuna delle ville circostanti, dove passammo, da un punto di vista poeticamente romantico, il pomeriggio più completamente italiano che avessimo vissuto fino allora10. Ogni giardino aveva deliziosi pergolati, con le flessuose viti che ci guidavano attraverso migliaia di archi di tenero verde, verso luoghi dove il massiccio albero di tipo tropicale si affiancava alla delicata camelia e alla dolce cassia. Il sole risplendeva caldo attraverso il fogliame; fra quelle bellezze si trovavano sedili rustici; ai nostri piedi erano posate ceste piene di succulenti mandarini raccolti dai contadini, che rimasero fra noi per suonare le zampogne, di cui portavano alla bocca anche due o tre canne alla volta. Uno di loro, il più agile, poggiò una scala sul lungo tronco di una palma africana e ne portò giù un ramo dorato come i datteri di cui era carico.
Il balsamo del sud era dolce come mai lo si sarebbe potuto percepire con la sola immaginazione. La luce e la vita danzavano sulla terra. I giovani accompagnatori, romantici come la loro terra, avevano preparato ciascuno un’ode, che recitarono con un fervore ispirato alla novità del tema, «Signore in visita alla loro Calabria». Vedendo che il loro talento veniva apprezzato, essi si lanciarono in vivaci improvvisazioni, ciascuno ripartendo da dove un altro aveva lasciato e continuando con tale animazione da offrire sempre nuove variazioni e idee fresche ai versi originari.
Rientrando nella locanda, il loro brio trovò ulteriore sfogo nei graziosi passi della «Tarantella»*; arpa e violino furono richiamati al piano di sopra; la bella locandiera e la sua graziosa nipote entrarono con entusiasmo nel vortice della danza – e tutto ciò che è stato detto e scritto dell’Italia felice di altri tempi sembrava rivivere in questa gioiosa chiusura di una giornata calabrese!11
Il grande evento della domenica fu il passaggio di un reggimento di truppe, comandate dal Generale in persona.
«Dove stanno andando?»
«A cercare di stanare i briganti dal principato, signora».
I nostri posti sulla corriera12 del giorno dopo erano stati già prenotati. Il povero Cavaliere, il quale temeva che noi stessimo andando verso lo sterminio, ci supplicò di passare un’altra piacevole serata della nostra vita andando a vedere il Ventaglio* di Goldoni dal suo palco a teatro; ma non frequentando simili posti mai di domenica, fummo costrette a rifiutargli la consolazione di allietare i nostri ultimi momenti.
Nella nostra precedente visita al teatro si era rivelato un piccolo tratto dei modi nazionali. Un uomo di mezza età dall’apparenza rispettabile, che aveva preso il traghetto da Messina assieme a noi, ci aveva proposto di cenare alla stessa ora nella locanda, come si fa in altri Paesi quando si viaggia. Egli era molto ben educato, per cui fummo alquanto sorprese, mentre andavamo all’opera, di vederlo piut...

Table of contents

  1. Emily Lowe Donne Indifese In Calabria
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione di Maria Rosaria Costantino
  5. 1. Scilla e Cariddi
  6. 2. Reggio
  7. 3. Viaggio attraverso le Calabrie
  8. 4. Cosenza
  9. 5. Paola
  10. Note