Un prete
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Un prete

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Un prete novantenne, per nulla stanco, anzi contento di barcamenarsi tra i vivi, ricapitola il suo inglorioso passato: l'ordinazione sacerdotale imposta da ascendenze familiari; il ministero esercitato da burocrate senza entusiasmo e senza depressioni; l'attaccamento ai principi tradizionali; il sesso consumato con donna d'altri. E, sullo sfondo, i mutamenti sociali, le emigrazioni, le alluvioni e i loro riflessi sulla vita di una piccola comunità tra le due guerre. Intimo come una confessione, involontariamente comico, minuzioso come un registro parrocchiale, Un prete riporta l'ordinaria avventura di una coscienza che nella vita ha cercato, senza affanni, di assecondare il proprio destino.

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Information

Parte prima

1.

C’è chi dice che a una certa età ci si stanchi di vivere. Sarà vero ma non è il mio caso. Sono vicino ai novanta e ogni giorno mi sveglio contento di essere vivo. Fino a qualche anno fa, appoggiandomi a un bastone, riuscivo ad andare a dir Messa, seppure a fatica. Un giorno, però, mi sono svegliato incapace di mettere un piede giù dal letto e non sono più uscito di casa. Non che questo mi abbia tolto la voglia di vivere. Vivo come la mia età mi consente. Riesco a muovermi da una stanza all’altra, mi siedo quando mi sento stanco, aspetto che mi portino il giornale e leggo con interesse le notizie di un mondo che sono vicino a lasciare ma cui sento ancora di appartenere. Il giornale è il cannocchiale che mi rende vicine le vicende lontane. Le apprendo e le interpreto secondo la mia lunga esperienza di vita, maturata qui, in questo paese che è tutto il mio universo e che ogni giorno guardo dalla terrazza di questa casa. I miei zii, parroci prima di me, vollero di proposito costruirla su un poggio in modo che la vista potesse dominare tutto l’abitato, a rivalsa verso la superbia della famiglia del ricco medico massone che aveva acquistato il palazzo del feudatario, costruito in basso, attiguo alla vecchia chiesa. Mezzo secolo dopo un terremoto rase al suolo palazzo e chiesa ma, mentre questa risorse più alta, il palazzo non fu ricostruito: a testimonianza della boria punita dal volere divino – ripeteva lo zio Antonio – erano rimasti in piedi solo il portale e un’ala insignificante, a perpetuo monito per chi avesse avuto ancora l’ardire di sfidare Santa Madre Chiesa.
Il letto del fiume segna il confine a valle del paese. D’estate è un largo, asciutto nastro di ciottoli bianchi che sbuca in mezzo a due contrafforti montuosi che sembrano volerne segnare l’ampiezza e contenerlo. In autunno e in inverno non sempre ci riescono. Quando piove per giorni e dalle montagne scolano nel suo letto innumerevoli i ruscelli che ne solcano i fianchi si gonfia, livido e minaccioso. Ha eroso, nei secoli andati, il fianco di una delle alture al cui sommo si ergeva il castello feudale con le case sparse attorno. Una notte venne giù tutto. Qualche muro del castello è ancora lì ma le case dai muri di pietra e dalle pareti di malta e canne si afflosciarono e il fiume portò al mare detriti, carcasse di bestie e corpi di uomini e donne. I superstiti ripararono qui, dove il fiume non potrà mai giungere e, a ridosso delle alture che offrono sostegno e riparo, ricostruirono le case di pietra e la chiesa, ora sconsacrata, che era di quattro grosse mura e di un pavimento in terra battuta, in modo da potervi scavare ogni volta che c’era da seppellire un morto: un cimitero con un’unica tomba comune. Portarono appese a robuste assi di legno due campane coi rilievi in bronzo raffiguranti la Passione di Nostro Signore e una statua dell’Addolorata col petto trafitto dalla spada profetizzata dal vecchio Simeone e sulle ginocchia il volto del Figlio, dolente e stupito come se non sapesse darsi motivo di una sofferenza che leggevano simile alla loro.
Secoli dopo, i muri esterni delle case erano ancora di pietra e le pareti di mattoni e, per i più miseri, ancora di canne e malta. Accanto, quelle a due piani sembravano svettare tanto queste erano basse, tuguri dall’arredo misero, un vano solo con un letto grande per marito, moglie e i figli piccoli e per i grandicelli un materasso di foglie secche di granturco per terra o su una cassapanca grigia di fumo. Un tavolo e alcune sedie di paglia intrecciata quasi sfondate attendevano a mezzogiorno la pentola di legumi tolta dal focolare e portata sul desco come un piatto di portata in cui immergere tutti il cucchiaio e portarlo alla bocca per rimettercelo ancora. Sono ancora lì, disabitate, la porta e l’unica finestra aperte e nessuno vi entra perché non c’è nulla da portar via. Andavo a benedirle la settimana dopo la Pasqua e ne leggevo la vita che le animava, misera e rassegnata al volere di Dio. Era consuetudine dare al sacerdote danaro o prodotti dei campi. Loro non potevano offrire che qualche uovo e io lo accettavo perché l’amor proprio dei poveri è più suscettibile dell’orgoglio dei potenti.
Poi si sono svuotate ma io non riuscivo a passarci davanti senza fermarmi. Rivedevo i volti dal raro sorriso, il vestire misero, il vapore del sobbollire della pentola sul focolare, i piedi scalzi, il vociare dei bambini in eterno litigio e porte e finestre erano bocche che raccontavano grame vite vissute. Sono lontani, ora, in Argentina, in Canada, negli Stati Uniti d’America. Alcuni mi scrivevano come se volessero scrivere a tutto il paese, non dicevano nulla di sé ma chiedevano di tutti, era un modo di vivere ancora qui. Poi le lettere si facevano più rare e alla fine non ne arrivavano più: era il segno che la nuova patria li aveva assorbiti. Tento di immaginarli lì ma non ci riesco: vivono dentro di me come erano allora, parte della mia vita che, come quella di ogni altro, è fatta di ricordi, di incontri, di parole proferite e ricevute.
Nessuna delle case che guardo e distinguo da quassù mi è ignota e di almeno due generazioni dei suoi occupanti potrei narrare la vita. Funzionario di battesimi, matrimoni e morti, scrivano, lettore e all’occorrenza redattore di contratti per i tanti analfabeti, ero però un distratto pastore del mio gregge cui non ho saputo essere vicino nemmeno quando le necessità dei più miseri avrebbero dovuto spingermi a gesti di generosa pietà. Il fatto è che avevo una famiglia numerosa e dare agli altri era sottrarre ai miei.

2.

Sono cresciuto nella grande casa dei miei zii che ora è mia. A piano terra ombreggiati magazzini custodiscono olio, vino, salumi, formaggi e cereali, al primo piano tra i tanti vani spiccano un salone di rappresentanza che dà sulla terrazza e lo studio, grande, con una biblioteca su tre pareti. Lo zio amava leggere e scrivere, non poteva definirsi colto perché le sue letture non andavano oltre i classici latini, la teologia, la storia e gli scritti di più o meno illustri uomini di chiesa, con esclusione rigorosa di tutti gli autori all’indice; ma era certamente erudito.
In quello studio e sotto la sua guida svolgevo i compiti che il maestro mi dava per casa, integrati da storie edificanti di uomini di chiesa, di santi, di miracoli. Alle funzioni mi voleva presente perché imparassi a fare il chierichetto. Finite le elementari, mi ritrovai in seminario. Nessuno mi aveva detto che avrei fatto il prete: sarebbe stato superfluo, era nella tradizione di famiglia e poi, perché si va in seminario se non per questo? Ci entrai, dunque, consapevole che ci sarei rimasto fino all’ordinazione sacerdotale. Era la consapevolezza del predestinato, il cui futuro era stato deciso prima che nascesse, tutto sarebbe dipeso dal sesso. Non delusi le aspettative familiari: nacqui maschio assicurando il sostentamento dei miei familiari presenti e futuri.
Consapevole che le ascendenze levitiche esigevano che ne uscissi prete, avevo studiato con lo stesso animo dell’apprendista, avviato a bottega per scelta altrui, cui non resti che impratichirsi nel mestiere. L’ordinazione fu come la licenza di operare finalmente rilasciata a chi abbia da tempo un posto di lavoro riservato, al quale mi dedicai con l’automatismo mentale dell’impiegato. Quando l’età dello zio prevalse sulla volontà di continuare a curarsi delle anime il vescovo non ebbe cuore di infliggergli il dolore di un successore diverso. Ereditai il beneficio e fui un lavoratore della vigna del Signore puntuale come un burocrate e come questi senza entusiasmo e senza depressioni.
Non era un genere di lavoro in cui affannarmi per garantire la bontà del prodotto. Battezzare era niente più che recitare le parole consuete e versare dell’acqua sul capo di un bimbo piangente; unire in matrimonio era stare a mezzo tra il prete e l’ufficiale dello stato civile, salmodiando e recitando gli articoli del codice. Non mancavo di ricordare che si stava celebrando un sacramento ma lo comunicavo con la voce atona di chi lo faccia per dovere di ufficio, come avviene quando si annunci cosa notoria e scontata. Nemmeno la confessione mi impegnava più di tanto: all’indispensabile manifestazione del proposito di non più peccare seguiva il monito di fuggire le occasioni e, alla fine, l’assoluzione, impartita come automatica, obbligatoria incombenza, senza intima disapprovazione delle vicende peccaminose dei fedeli che, salve rare eccezioni, erano sempre le stesse e comuni a tutti, tanto che a volte mi veniva da pensare che, se non fosse stato per il segreto, avrei potuto confessarli e assolverli collettivamente.
La religione in paese era prevalentemente un fatto di donne. Il rapporto dei maschi con la Divinità si limitava alle bestemmie, ai giuramenti, ai battesimi, alle cresime e ai matrimoni. A messa non li vedevi mai e ai matrimoni e ai funerali aspettavano in piazza che il rito finisse per fare corteo dietro gli sposi o la bara. Solo la notte del giovedì Santo i massari, i pastori e i loro figli scendevano dalla parte alta del paese, dove erano arroccate le loro case, portando in piazza fascine di rami e tronchi d’alberi. Accendevano un gran fuoco e vi si sedevano attorno come i servi di Caifa nel cortile del Sinedrio quando Pietro rinnegò il Maestro. In chiesa la Madre, ancor prima che il Figlio fosse inchiodato sulla Croce, si copriva fino al volto di un gran manto nero lasciando scoperti solo gli occhi e sostava vicino al pulpito dal quale il predicatore rievocava i momenti della Passione. I portatori, il capo cinto da una corona di spine, la portavano fuori, la porta della chiesa le si chiudeva alle spalle, dentro le luci si spegnevano a simboleggiare l’ora delle tenebre e restavano solo le fiammelle dei ceri a illuminare flebili l’altare spoglio.
La predica ricostruiva la notte del Getsemani, il processo, la tortura, la crocifissione. Due volte la Vergine entrava in chiesa a cercare il Figlio perduto e le facevano luce le fiaccole di ciocco colanti pece calda sulle mani di coloro che le reggevano, anch’essi il capo cinto di una corona di spine come a condividere la sofferenza per la quale il Suo unico Figlio l’aveva resa Madre di tutti gli uomini. Tornava indietro delusa fino a che, la terza volta, riceveva il corpo del Figlio schiodato dalla Croce e avvolto in un panno bianco e si fermava poi a confondere il proprio dolore con quello recente delle tante madri a cui i figli, partiti per la guerra, erano stati restituiti in una bara.
La mattina dopo la Madre, ammantata di nero, precedeva per le vie del paese il simulacro del Figlio, deposto su un gran lenzuolo di lino, sostenuto agli angoli da bambini vestiti di bianco raffiguranti gli angeli che ne avrebbero poi accompagnato l’ascesa al Cielo. Gli uomini seguivano silenziosi a capo scoperto. Le donne, vestite di nero come per un lutto proprio, riversavano sul Figlio il dolore della Madre con gli inni dialettali appresi dalle labbra delle loro madri: «quandu la Matri santa caminava» traduceva in dialetto il lamento di Jacopone da Todi e dello Stabat Mater. Era il momento più doloroso del secolare rapporto confidenziale tra le donne e la Vergine, tanto confidenziale che l’inno «bona sira vi dicu a vui, Madonna» esprimeva il saluto tra persone che si conoscono; e il «Salve Regina» in versione dialettale affidava alla Sua protezione gli sposi al termine della cerimonia nuziale.
Gli uomini non venivano alle funzioni, non si confessavano, non si comunicavano se non alla cresima e al matrimonio. Convinto che fosse inutile tentare di avvicinarli alla Chiesa mi limitavo a prendere atto della situazione senza far nulla per modificarla. Quando stavano per rendere l’anima a Dio venivo chiamato a somministrare loro l’Estrema Unzione e, se erano in condizione di capire e di parlare, si confessavano e si comunicavano. Avevano vissuto facendo atto di non tenerne conto perché Lo intuivano scomodo e vivevano meglio ignorandoLo ma in cuor loro sapevano che prima o poi Lo avrebbero incontrato.

3.

Erano tempi straordinari di un secolo straordinario. Le pensioni dei reduci, dei mutilati, degli invalidi e delle vedove dei caduti nella Grande Guerra avevano portato in paese danaro in quantità mai vista prima, si costruivano case per le figlie da sposare e si aprivano botteghe di barbieri, sarti, falegnami e calzolai. La vita riprendeva tranquilla e di quanto in quegli anni agitati avveniva in Italia arrivavano solo echi lontani. Dopo qualche anno cominciarono a tenersi ogni sabato celebrazioni più frequentate della Messa della domenica e spesso lo zio era chiamato a benedire un labaro, una bandiera, una casa del Fascio, l’inizio o l’inaugurazione di un’opera pubblica e io, quando ero a casa per le ferie, lo accompagnavo. Mi spiegò che la Chiesa e lo Stato, nemici da tanto temp...

Table of contents

  1. Un prete
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Parte prima
  5. Parte seconda