Un viaggio in Calabria
Agli amici
Altra volta pubblicai una relazione Gli Italiani al Brasile che piacque e mi procurò l’incoraggiamento di molti.
Un viaggio in Calabria è il titolo con cui presento a voi un nuovo lavoro, modesto come quello, ma di soggetto non meno importante.
V’è tra l’uno e l’altro quasi un legame, che appare nel corso istesso del libro. Ed è triste che vi siano Italiani che vadano in America mentre qui, in Italia, vaste contrade, oggidì deserte, improduttive e malariche, furono un tempo popolate, ricche e temute.
La Calabria è forse la più bella parte d’Italia, ma poco conosciuta e spesso calunniata. Celebrata pe’ continui sconvolgimenti della terra, e per gli orrori del brigantaggio, si attribuisce tuttora agli abitanti un carattere cupo e vendicativo, ed alla stessa contrada, qualche cosa d’inospite e selvaggio, per la quale fu detta un giorno Calabria ferox.
Ne’ principii del secolo passato i Francesi la conquistarono palmo a palmo; ma, come essi stessi dicevano, non la sottomisero giammai.
Assaliti, trucidati in mille modi ed in tutte le ore, circondati da ogni maniera di contrarietà e di pericoli, spaventati da’ miserandi avanzi delle città seppellite, dalle terre sconquassate, e da’ racconti de’ pochi sopravvissuti al fatale terremoto del 1783, credevano addirittura che l’Inferno si nascondesse nelle viscere di quella terra, e che a quando a quando ne vomitasse i demoni!
Certamente, nel breve tempo che dimorai in Calabria, molta parte di essa non vidi, e quell’istessa che visitai di sfuggita, mi parve talmente meravigliosa che sarebbe per me difficile descriverla con esattezza.
Nondimeno, ho abbozzata la tela, cui potrà far difetto la vivacità del colore, non mai la verità del quadro, che riprodussi con l’entusiasmo di chi ammira i tesori della patria terra!
Roma, 1885.
Vostro
Nicola Marcone
Capitolo primo
Chi parte da Roma alle otto del mattino giunge la sera istessa alla stazione di Metaponto in riva alle onde azzurre del Jonio, che ispirò alla poetica immaginazione de’ greci la favola delle ammaliatrici sirene.
Favola che adombra un vero sublime; tanto l’armonia di quella creazione è stupendamente bella!
Pochi anni or sono, a percorrere la distanza di seicento chilometri, o poco meno, che tale è quella che separa Metaponto da Roma, occorrevano un mese di tempo ed animo di leone per affrontare i disagi, le spese e fors’anco i pericoli di tanto cammino.
I nostri vecchi, in fondo alle estreme provincie meridionali, ancora ricordano con ribrezzo e spavento que’ beati tempi, quando, per attraversare un breve tratto di strada, si facevano con anticipazione i preparativi necessari, rimpinzando di provviste le bisaccie, e somministrando doppia razione di avena alla mula, unico animale, che, con la forza straordinaria dei suoi muscoli, avrebbe sfangato in mezzo alle lande impaludate.
Per andare alla capitale del regno poi, si faceva testamento.
Formula, che tuttora vive nella tradizione del popolo, per attestare che non si era affatto sicuri di tornare al proprio tetto.
Miracolo di civiltà! Oggi si vola addirittura, e se Dedalo potesse per poco affacciarsi di nuovo sulla scena del mondo, arrossirebbe dell’aver sacrificato l’infelice Icaro, suo figliuolo, coll’intrigato congegno delle ali di cera.
Metaponto, la cui origine risale a tempi remotissimi, e forse si perde nelle tenebre, giaceva tra i due fiumi – Bradano e Basento. Essa fu una delle otto repubbliche fondate da’ greci in quelle contrade, e s’innalzò al più alto grado di prosperità unicamente per la ricchezza del suo territorio, limitato ma feracissimo: tanto vero, che lo stemma della città era la spiga di grano, ed il Senato mandava in dono al tempio di Delfo un enorme covone di oro massiccio.
Pitagora fuggendo da Crotone, ricoverò e morì a Metaponto: venne accolto con onore grandissimo, ed ebbe immenso numero di discepoli.
Metaponto seguì le sorti di Annibale, e scadde molto quando Fabio Massimo riconquistò Taranto. Spartaco poi la distrusse quasi interamente. Riedificata da’ romani, visse ancora parecchi secoli, ma di vita soggetta. Finalmente i saraceni la agguagliarono al suolo poco prima del mille.
Oggi dell’antica città non rimangono che pochi cocci, e le quindici colonne, dette mensole dal volgo, forse da mensae imperatoris, come si legge nelle cronache del monastero di Montescaglioso, perché vi s’incontrarono Ottaviano ed Antonio per raffermare quella lega, che fu rovina estrema delle libertà in Roma, e base del nuovo impero.
E nel sito istesso, sulle sponde del Bradano incirca dieci secoli dopo, si accampò contro Ruggiero l’esercito dei Baroni del regno, capitanato nientemeno che dal Pontefice in persona, Onorio II; e più tardi, dopo la presa di Venosa vi si attendò Ferdinando d’Aragona.
Come in tutta la costa dell’Ionio, anche sulle rovine di Metaponto, venne edificato uno dei tanti castelli, messi a guardia delle continue incursioni de’ barbari; ed intorno ad esso, coll’andare del tempo, si agglomerò un certo numero di case, abitate da pochi coloni, e prese la denominazione di – Torre-mare. – Quel nucleo di povera gente, dal mille e cinquecento, che se ne ha notizia, venne via via assottigliandosi, finché, verso la fine del secolo scorso, sparve del tutto, annientato dalle febbri. La feconda pianura, che altra volta fu unica fonte della ricchezza di Metaponto, era diventata focolare di mortifera influenza.
Pochi armenti, quasi sempre abbandonati a sé stessi, vi pascolavano sprofondati nella melma, allampanati per magrezza ed incrostati di fango: l’erba cresciuta nel pantano, acquitrinosa e poco alimentare, comprometteva la robustezza e la salute di quelle bestie infelici. L’uomo non osava penetrare che in pieno meriggio in que’ campi, quando i raggi del sole vi disperdevano completamente le palustri esalazioni: se avesse fatto diversamente, se vi si fosse lasciato cogliere dal sonno nel corso della notte, la febbre lo avrebbe miseramente ucciso.
Così, per la enorme distanza, che separava quella landa da’ grossi centri, per la mancanza di strade, e sopratutto pel terrore che la circondava, pochi sapevano che ivi stessero sepolti gli avanzi d’un gran popolo.
La fede nell’alto e non lontano avvenire d’Italia disseppellì dalle antiche rovine il glorioso nome di Metaponto ed il soffio del vapore, squarciando quella ingombra atmosfera, vi riporterà ben presto la vita d’un tempo.
Già parecchi edifizii s’innalzano intorno alla stazione ferroviaria, ed alquante centinaia di persone vi soggiornano: meno impaurito il colono comincia ad estendervi la coltivazione del grano. E benché raccolga a metà, ancora fuggendo e guardando indietro, come se lo spettro della malaria lo inseguisse, pure egli vedesi largamente compensato dalla straordinaria abbondanza del prodotto.
Quando io giunsi alla stazione di Metaponto, era notte inoltrata: uno stormo di monelli, molesti più delle zanzare, mi assalì per impossessarsi del mio piccolo bagaglio, e condurmi all’albergo. Mi arresi al meno importuno, e poco dopo fui condotto in una vera stamberga, dove, di sei letti in fila, se veramente tali potevano chiamarsi, uno solo era vuoto, e rinunciai a coricarmivi, perché negli altri grugnivano rumorosamente alquanti viaggiatori. Armonia poco grata al mio udito e per soprappiù, con l’aggiunta di certo tanfo, che maggior disgusto avrebbe prodotto ad un senso non meno delicato.
Ed uscii all’aria aperta, senza tener conto delle reiterate insistenti proteste del mio piccolo conduttore, che giurava sarei andato a morire di sicura e vicinissima morte, affrontando a quell’ora la terribile influenza dell’aria esterna.
Veramente era in sul finire l’agosto, e quando d’ordinario tocca il massimo sviluppo quello che chiamasi – veleno palustre – ma io fui rispettato; ed invece, l’esser rimasto la notte sotto la volta di quel cielo, su quelle zone morte ed esalanti putredine, vicino a quel mare, le cui onde placide battevano con mesto e monotono tuono le arene del lido, valse ad immergermi in una specie di sogno fantastico, a quando a quando interrotto dal grido de’ gufi, e dal pungente ronzio di mille animaletti notturni.
Fra le tenebre, nella calma solenne della natura, l’immaginazione ricostruisce spesso più felicemente il passato, come da una nota musicale, lontana lontana, s’intuisce alle volte la frase più armoniosa della vera. E mi si spiegavano dinanzi i grandi ricordi storici, e perfino le ombre de’ morti: mi pareva proprio di vederle quelle immense, colossali figure di Pitagora, Annibale, Spartaco, Onorio II, questo guerriero in – tiara – che va per combattere: quaranta giorni di fronte al nemico non lo decidono all’assalto, e poi chiede pace in ginocchio!
Era già alto il sole sull’orizzonte, quando fui desto dal fischio della vaporiera. Corsi in fretta e furia alla stazione, e per cacciarmi in mezzo al popolo, quasi potessi meglio ammirare lo stampo greggio di quella razza forte, preferii la terza classe per andare a Reggio la sera.
E partendo dissi addio a Metaponto co’ più fervidi voti, perché presto risorta dalle proprie ceneri, tornasse a splendere di nuovo anch’essa tra le città sorelle, ora che l’unità della patria compie il grido che primo eruppe dall’ardente petto di Pitagora, tra le mura della Metaponto antica: essere figli d’una madre comune i popoli tutti dell’Esperia!
Capitolo secondo
Nei lunghi viaggi attraverso le provincie meridionali, dove tra regione e regione, e spesso tra una borgata e l’altra, havvi differenza di costumi e di dialetti, la terza classe è una vera fantasmagoria, una lanterna magica in cui le impressioni si succedono e s’incalzano con rapidità sempre crescente.
In quello stanzone volante, che è la vettura di terza classe, la spensieratezza, le miserie, le gioie confuse insieme, offrono quadri vivi al pennello dell’artista, e materia di gravi considerazioni alla mente dello scienziato. Ivi non pretensioni né fasto: non alterigia di ciondoli o dita ingemmate; ma volti sereni e mani incallite; operai tutti, che avendo comuni i sacri vincoli del lavoro, l’uno entra presto in relazione con l’altro, ed usano tra loro come se mille volte si fossero incontrati.
Il vagone in cui io mi trovavo, era zeppo di viaggiatori, nella maggior parte calabresi, che parlavano un dialetto per me poco o nulla intelligibile; ma dai gesti animatissimi, dal continuo ridere, e dalla caratteristica espansione di quei bravi figli del popolo, mi affezionai siffattamente ad essi che già mi pareva di stare in famiglia.
Come sempre avviene, quando si viaggia in compagnia di molti, per quella forza ignota, ma innegabile che determina le correnti di attrazione e di repulsione, vi sentite inclinato a preferenza per l’uno che per l’altro, e di ciascuno vi fate il tipo di virtù o di vizi, di cortesia o di sgarbatezza. Ed io mi avvicinai ad un ometto dagli occhi limpidi e vivaci, da’ quali, anche sotto due grosse lenti, trasparivano la bontà e la intelligenza.
Ancora mi sovviene del mio primo istitutore, che soleva prognosticare l’avvenire de’ suoi allievi, dall’occhio, che egli chiamava il balcone da cui si affaccia l’animo; ed è vero: la natura ha velato lo sguardo del malvagio.
Il mio ometto adunque, mi attrasse a sé con l’effluvio che esala dall’animo onesto, ed avvicinandolo, mi accorsi di non essermi malamente apposto.
Egli era diretto a Brancaleone, ed avremmo viaggiato insieme tutta la giornata. Di là, si sarebbe poi recato l’indomani nel luogo della sua residenza, attraversando gran tratto delle sovrastanti montagne, un po’ in vettura, molto a piedi, il rimanente, mani e piedi, com’egli diceva, per mancanza di mezzi e di acconcia viabilità.
Era medico d’un piccolo villaggio, con la meschinissima retribuzione di mille lire all’anno, e col peso di sostentare la vecchia madre e due sorelle nubili.
Il comune – egli disse – paga solamente pei poveri, ed io potrei farmi pagare dai ricchi: ma questo diritto è uno scherno, una vera ironia. Essi sono in pochi, e costituiscono da soli e sempre il monopolio della rappresentanza municipale; guai a me, alla mia povera famiglia, se io osassi disturbarli con la insolente pretensione di voler essere pagato per averli guariti. È mio obbligo strettissimo, anzi di ringraziarli dell’onore che mi fanno, quando mi accordano la loro fiducia. Io non arrossisco della mia origine, o signore – soggiunse il medico – mio padre era un piccolo proprietario-coltivatore di carattere antico, e di costumi veramente patriarcali. Nell’impeto del suo affetto per me, si avvisò di lanciarmi nella carriera professionale, e quante privazioni, quali sacrifici costarono al povero vecchio l’aver fatto di me un più povero medico. Egli si spogliò a poco a poco del piccolo patrimonio ereditato dagli avi, ed ancora ricordo commosso, che all’alba di ciascun giorno saltava dal letto, e correva difilato in campagna, a sorvegliare i diversi lavori. Quando la sera rientrava stanco e grondante onorato sudore dalla fronte serena, noi gli correvamo incontro, ed egli avea per ciascuno de’ suoi tre figli, secondo le diverse stagioni, un fiore, un frutto, qualche foglia odorosa, a volta a volta degli uccelletti, e sempre poi, baci e benedizioni per tutti. Allora il vecchio infelice spirava pace e speranza dal volto, ritenendo per fermo che i suoi stenti avrebbero assicurato l’avvenire della propria famiglia: ma visse e morì in questa illusione, e fu ventura per lui. Oggi, all’infuori della soddisfazione della mia coscienza, e della commovente gratitudine, con cui generosamente mi compensa la gente povera, io non guadagno nell’esercizio della professione, neanche gl’interessi de’ capitali spesi per me nella sola università.
Qui tacque il medico, ed ebbi poche parole di conforto per lui, convinto anch’io, che tra le maggiori calamità nazionali debba annoverarsi oggigiorno questa soverchia affluenza di giovani nelle professioni; ed avvedendomi che, continuando in siffatti discorsi, avrei contribuito ad amareggiarlo, mi adoprai, invece, a richiamare altrove la sua attenzione, e gli chiesi se, per avventura, potesse indicarmi il luogo dove un tempo sorgeva la città di Eraclea.
Ecco, o signore – mi disse – siamo già sul fiume Acri, che gli antichi chiamarono Aciris; ed Eraclea giaceva tra questo fiume e l’altro che ben presto incontreremo, detto presentemente Sinno, allora Siris, alla cui foce s’innalzava la superba città dello stesso nome1. Si osservano tuttora sulla sponda destra dell’Acri le macerie di Eraclea, ed in mezzo ad esse furono, in diverse epoche, scoverte medaglie preziosissime per merito d’arte e valore cronologico; e nel 1732 le famose tavole eracleensi, uno dei più interessanti monumenti di antichità che oggidì si possegga. Tra Eraclea e il Sinno, i Romani, condotti dal Console Livino, furono completamente sconfitti da Pirro, re di Epiro. Disfatta cagionata dall’improvvisa apparizione degli elefanti più che dal coraggio dei vincitori; che anzi è fama Pirro esclamasse, con altra vittoria simile sarebbe tornato solo ne’ suoi Stati. Eraclea fu anch’essa u...