1.
Prologo tra terra e cielo
1. La notte muta dello spazio infinito
PER RACCONTARE QUESTA STORIA o forse per raccontare qualsiasi storia bisogna partire dall’inizio. All’origine di tutto non c’è l’acqua né l’aria né il fuoco, né ci sono, globalmente e con l’aggiunta della terra, le quattro radici elementari della tradizione empedoclea. All’origine del mondo c’è una nube e prima ancora della nube un Intelletto divino, causa non causata che ha creato la materia. Dispersa al principio in un caos informe, la materia basta da sola, insieme con le forze universali dell’attrazione e della repulsione, a comprendere lo sviluppo del «grande ordinamento della natura»: «Datemi della materia e io vi costruirò un mondo! Ossia, datemi della materia ed io vi dimostrerò come deve sorgere un mondo» (Kant 1755: 41).
Aveva appena trentun anni Immanuel Kant quando, nella Storia universale della natura e teoria del cielo, era giunto a formulare per la prima volta la cosiddetta ipotesi nebulare, un’ardita speculazione cosmologica che nei secoli a venire si sarebbe diffusa, integrata da alcune varianti, con la denominazione di ipotesi di Kant-Laplace. Dunque, la nebulosa iniziale. La materia, che riempiva la «notte muta» dello spazio infinito della presenza divina, si raccolse «con maggiore densità» in un dato punto, tanto da formare una massa, un centro, una nebulosa che servì a tutto l’universo come «punto di sostegno». Da questo centro cominciò la formazione della natura, che si estese poi, con progressione costante, «[…] alle regioni più lontane, così da riempire, nel corso dell’eternità, lo spazio infinito con mondi e ordini di mondi». Questo corpo nebulare, dotato di «un’attrazione straordinaria», diventò «[…] ben presto capace di costringere tutti i sistemi compresi nella sua sfera di formazione a cadere su di lui come centro, e di costituire intorno a sé un sistema uguale a quello che la stessa materia elementare, che ha formato i pianeti, ha costituito in piccolo intorno al Sole». Grazie al «filo conduttore dell’analogia» diventava possibile supporre che tutti i mondi e sistemi di mondi, tutti i soli con i loro pianeti, fossero parti di un sistema più grande, esattamente come accade a Giove, a Saturno e alla Terra nei confronti del loro Sole. La creazione costituisce un «unico sistema» e quel centro è l’unico centro, un centro universale che impedisce ai corpi celesti di scivolare «[…] lungo la china della rovina e della distruzione». Centro d’attrazione dell’Universo, «pilastro» dell’intera natura, quel centro è ciò verso cui tutto tende, dal quale ogni cosa ha cominciato il suo processo di formazione e che accompagna la creazione nel suo continuo compiersi. Infatti, se essa ha avuto certamente un inizio, altrettanto sicuramente non avrà alcun termine, perché ha bisogno «[…] niente di meno che d’un’eternità per popolare di infiniti e innumerevoli mondi l’intera estensione sconfinata di spazi senza fine» (Ivi: 118-124).
Già nelle intenzioni del suo autore l’ipotesi conciliava, se così si può dire, la cosmologia con la teologia: supporre la formazione dell’universo a partire da cause meccaniche e dalle leggi della fisica newtoniana non significava aprire «[…] ai maligni nemici della religione una breccia da cui penetrare nei suoi bastioni», secondo una efficace espressione kantiana tratta da uno scritto precritico successivo (Kant 1763: 193). La «Settima considerazione» dello straordinario saggio del 1763 L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio reca come titolo, non a caso, «Cosmogonia» e ripropone la nebulosa originaria come centro di quel moto da cui si formò il complesso sistema di mondi che è solo un momento dell’infinita sequenza della creazione, rispetto alla quale una Via Lattea è «come un fiore o un insetto rispetto alla Terra» (Kant 1755: 127). Eppure, ancora una volta, per Kant, la spiegazione mediante il ricorso alla fìlosofìa naturale non esclude la presenza di un «Dio sapiente», spinge a ipotizzare la relazione delle leggi di natura con la perfezione primigenia del principio divino.
Possiamo guardare la questione a partire da un altro punto di vista. Se per Kant la nebulosa originaria è un effetto dell’intervento creatore di Dio, nelle Sacre Scritture la nube è sede di continue teofanie, strumento di rivelazione del divino che accompagna la discesa di Jahvé tra gli uomini. All’uscita dall’Egitto Dio guida, di giorno, gli Israeliti attraverso il deserto marciando alla loro testa «con una colonna di nube», che non si ritira mai dalla vista del popolo (Es. 13,21-22) e, in preparazione dell’alleanza, dice a Mosé: «Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano sempre anche a te» (Es. 14,9). Il libro dell’Esodo è costellato di continue associazioni tra il Signore e la nube e quando Dio, al terzo giorno, si manifesta sopra il Sinai la sua presenza è preannunciata da tuoni e lampi, da un suono fortissimo di tromba e da una densa nube che ricopre il monte. Anche nel libro dei Salmi la teofania di Jahvé si produce in mezzo alle nubi: «Abbassò i cieli e discese, / fosca caligine sotto i suoi piedi. / Cavalcava un cherubino e volava, / si librava sulle ali del vento. /Si avvolgeva di tenebre come di velo, / acque oscure e dense nubi lo coprivano» (Sal. 18,10-11), così come nell’Apocalisse di Giovanni, nella quale, subito dopo l’Indirizzo, si dice di Dio che «viene sulle nubi» in maniera tale che ognuno possa vederlo e che tutte le nazioni della terra si battano per lui il petto. Nell’Apocalisse la rivelazione sulla nube è l’inizio del preannuncio del giudizio divino: «Io guardai ancora ed ecco una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d’uomo; aveva sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: “Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura”. Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta» (Ap. 14,14-16).
Avremo modo di tornare più avanti sul rapporto tra la nube, la rivelazione divina e la conoscenza che l’uomo può avere di Dio, ma occorre qui sottolineare come nel libro dei Numeri alla nube sia dedicato un intero paragrafo (9,15-23) nel quale essa è posta come segno della volontà divina, che induce gli Israeliti ad accamparsi o a mettersi in cammino, a seconda della sua permanenza o del suo alzarsi sopra la Dimora:
Nel giorno in cui la Dimora fu eretta, la nube coprì la Dimora, ossia la tenda della testimonianza; alla sera essa aveva sulla Dimora l’aspetto di un fuoco che durava fino alla mattina. Così avveniva sempre: la nube copriva la Dimora e di notte aveva l’aspetto del fuoco. Tutte le volte che la nube si alzava sopra la tenda, gli Israeliti si mettevano in cammino; dove la nuvola si fermava in quel luogo gli Israeliti si accampavano. Gli Israeliti si mettevano in cammino per ordine del Signore e per ordine del Signore si accampavano; rimanevano accampati finché la nube restava sulla Dimora. […] Se la nube si fermava dalla sera alla mattina e si alzava la mattina, subito riprendevano il cammino; o se dopo un giorno e una notte la nube si alzava, allora riprendevano il cammino. Se la nube rimaneva ferma sulla Dimora due giorni o un mese o un anno, gli Israeliti rimanevano accampati e non partivano: ma quando si alzava, levavano il campo. Per ordine del Signore si accampavano e per ordine del Signore levavano il campo […].
Matrice dei corpi celesti sperduti nello spazio infinito o mezzo per la rivelazione del divino, la nube è indissolubilmente legata al discorso delle origini e si può immaginare che sia questo il motivo per il quale le nuvole, siano esse invisibili metafore della vita o presenze atmosferiche incombenti, non cessano di stare in mezzo a noi.
2. Le nuvole di Marx
Al contrario di quel che potrebbe sembrare, di là da ogni ingannevole apparenza, le nuvole sono un elemento, insieme, celeste e terrestre. Non solo, ma anche materiale e simbolico, metaforico e reale. Trascurando, per ora, ciò che sta in alto, si può ricordare come esistano in basso, poco al di sopra della terra che calpestiamo, nuvole di polvere, di fumo e di fiato, le nuvole dei crolli e delle macerie, nuvole di mosche e di zanzare, impercettibili nuvole di acari. Per loro stessa natura le nuvole sono ambivalenti, tendono a comprendere i presunti opposti. Infatti, esse nascondono e rivelano, sembrano rinviare a un modo di essere distratto, stralunato, avulso dalla realtà quotidiana e, nel medesimo tempo, pongono l’uomo proprio di fronte a quella realtà dalla quale sembrerebbero allontanarlo. Nel nostro linguaggio ordinario sono numerose le espressioni che pongono le nuvole come segno di un atteggiamento di lontananza dal mondo, di estraneità rispetto a ciò che accade. «Avere la testa tra le nuvole» o «cadere dalle nuvole» indicano comportamenti di distacco dalla base mondana della vita, considerati, di solito, riprovevoli o giudicati con sarcasmo. «Scendi dalla nuvole» costituisce un invito, spesso perentorio, a riprendere i contatti con il mondo reale, a riportarsi con i piedi per terra, là dove si svolge la vita quotidiana degli uomini. «Acchiappanuvole» è un epiteto, vicino all’ingiuria, che contrassegna persone dotate di un temperamento sognante, portate a speculazioni idealistiche o prigioniere di tenaci illusioni. Basti pensare a quanto accade agli abitanti di Laputa, l’isola volante tra le nubi raccontata da Swift nei Viaggi di Gulliver, talmente immersi nelle loro astruse speculazioni «da non essere in grado né di parlare, né di seguire le parole altrui» e, per di più, goffi, inetti, impacciati «nelle comuni azioni di tutti i giorni» (Swift 1982: 146-150).
Tuttavia, basterebbe guardare meglio le nuvole per ritrovare il loro rapporto con la realtà: le nuvole di polvere sono spesso il segno dei disastri naturali o di quelli prodotti dagli uomini; le nuvole di fumo o di gas rimandano alla storia delle ciminiere della società industriale, ma anche alle catastrofi tossiche di Chernobyl, Seveso o Bhopal. Tali nuvole presentificano pure realtà più arcaiche e remote, quelle delle carbonaie che ancora punteggiano, con le loro cupole legnose, i boschi dell’Italia meridionale, sbuffi di fumo maleodorante che si innalzano verso cieli tersi o per andare a incontrare altre nuvole. Esistono persino dei casi in cui le nuvole di fumo – per quanto possa sembrare strano dirlo in tempi di iper-salutismo e super-igienismo consumistico – sono quasi da considerare un patrimonio di civiltà, un bene culturale molto più impalpabile di altri che, tuttavia, bisognerebbe conservare al pari dei monumenti insigni, delle mura di epoca romana o delle reliquie medievali. Per esempio, ora che le «avvolgenti nuvole di fumo» dei bistrot parigini – richiamate in un articolo di Anais Ginori su «Repubblica» – e le dense volute dei pub londinesi stanno diventando un ricordo; adesso che il Café de Flore davanti a Saint-Germaine-des-Prés, la Closerie des Lilas di Montparnasse, il Fumoir si vedono costretti a esporre il divieto di fumo all’interno del locale, non appare sorprendente che vi sia chi ne rimpiange la perdita, avvertendo il senso della scomparsa di uno stile di vita e di una civiltà.
Nelle nuvole l’uomo può facilmente ritrovarsi, contemplare le proprie proiezioni e i propri fantasmi, scorgere un deposito archetipo di miti e credenze che egli stesso ha lasciato. A questo proposito, si potrebbe applicare all’uomo in generale ciò che Marx dice della filosofia di Feuerbach nella celebre quarta Tesi: «Feuerbach prende le mosse dal fatto dell’auto-estraniazione religiosa, della duplicazione del mondo in un mondo religioso e in uno mondano. […] Ma il fatto che il fondamento mondano si distacchi da se stesso e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso ed indipendente, è da spiegarsi soltanto con l’auto-dissociazione e con l’auto-contraddittorietà di questo fondamento mondano». Le nuvole di Marx rivelano un segreto, quello per il quale è la «famiglia terrena» a dover essere dissolta «teoricamente e praticamente», perché è questa famiglia a essersi costruita un regno nelle nuvole. Nelle nuvole ritroviamo noi stessi e delle nuvole abbiamo bisogno anche come figure di parola, tropi, metafore per esprimere similitudini che altrimenti non saremmo capaci di modulare. Il linguaggio della politica, in particolare, senza le nuvole risulterebbe irreparabilmente monco, persino afono, nel descrivere le negatività del mondo che ci circonda. Si librano in alto, nell’empireo poco stellato della polis, le «nubi scure» della situazione internazionale, quelle «torbide» della situazione politica italiana, le «nuvole nere» del rapporto Censis del 2007, mentre, complessivamente, si presenta «un panorama di nuvole e nembi che minacciano tempesta».
Le nuvole, come si vede, sono duttili, modellabili, plasmabili come tenera creta. Sono un ossimoro, una «forma-informe» che può assumere qualsiasi forma e, contemporaneamente, non essere nessuna. La loro caratteristica più essenziale consiste, forse, in questo darsi come provvisorie, precarie, evanescenti, emblema stesso della caducità, della volatilità, dell’incessante divenire, molto più delle acque dei fiumi che, al dire di Eraclito, cambiano ogni qualvolta proviamo a entrarci. In un certo senso, le nuvole sono «pura potenza» o atto che può durare anche un solo istante, un infinitesimo temporale, che tempo di essere già non è più.
Per questo non può certo destare meraviglia che esse abbiano trovato nella realtà immateriale del web, nella pura virtualità, la loro «incarnazione» più recente. Si chiama cloud computing – alla lettera «calcolo a nuvola» – ed è la nuovissima «invenzione» che consente di «trasferire» il software del proprio PC o del laptop nel cyberspazio, al quale occorrerà connettersi per scrivere un articolo, un saggio, una lettera o per elaborare un foglio elettronico. Il «calcolo a nuvola» – come ha sottolineato Raffaele Mastrolonardo – è anche ciò che permette ad Amazon di «[…] lanciare il suo Elastic Compute Cloud, un programma che consente a piccole società produttrici di software di prendere in affitto un po’ della potenza di calcolo del gigante del web. Mentre Ibm […] ha appena annunciato Blue Cloud: 200 ricercatori al servizio di quei clienti […] che vogliano fare un po’ come i colossi della rete e offrire applicazioni complesse agli utenti o ai propri dipendenti senza che questi abbiano bisogno di scaricare programmi sulle proprie macchine. Nuvole e ancora nuvole dunque».
Le nuvole virtuali, come si vede, affollano sempre più il cielo della nostra vita quotidiana e non poteva certamente disertare questa nuova scena la politica che, da alcuni segnali che si colgono, comincia frettolosamente ad avviarsi sui sentieri digitali. L’Assemblea Regionale Siciliana, a partire dal giugno del 2006, ha aperto una propria sede su «Second life», adottando come simbolo il Palazzo su una nuvola, remoto e distante dagli elettori, mentre in una delle ultime campagne elettorali sopra la nuvola virtuale è andata a finire la comunicazione: «[…] L’attuale campagna elettorale – ha scritto Alessandro Gilioli su «L’espresso» del 20 marzo 2008 – ci dice che anche la fase degli onorevoli blogger è superata e stiamo entrando in una nuova realtà: quella in cui il dibattito politico on line è in qualche modo “diretto” dai comunicatori dal basso […]. È un gigantesco e reticolare scambio di notizie e opinioni che genera una nuvola di comunicazione politica da cui gli uomini di Palazzo sono di fatto estromessi: restano come sfondo, spesso sono oggetto del dialogo, ma il loro parere non ha più alcuna leadership nella conversazione. […] La nuvola si nutre di blog, naturalmente, ma ci sono anche i video degli utenti su YouTube e anche espressioni più stringate come i tumblelog e Twitter. […] Il combinato disposto tra i blog normali, i tumblelog e Twitter è appunto la nuvola».
Le nuvole virtuali non sono, peraltro, il solo indizio del ruolo che queste eteree formazioni si sono ritagliate nello spazio della nostra contemporaneità. Basta scorrere, su un qualsiasi motore di ricerca librario, la lista dei titoli che riportano il termine, o i suoi sinonimi, nelle loro diverse declinazioni per accorgersi di quante nuvole di carta attraversino il mondo dell’editoria, persino tralasciando «le nuvole parlanti» dei fumetti e le nuvole celesti dei volumi di meteorologia. Così si scopre che ci sono nuvole «screziate», «scalze», «rapide», «consapevoli» e «nostalgiche», che si fanno «party tra le nuvole» e che le nuvole sono, addirittura, commestibili (Il bambino che mangiava le nuvole di Agnès de Lestrade e Aurélia Fronty, ma anche le Nuvole a colazione di Franco Cosimo Panini). C’è la «voce» delle nuvole, il loro «canto», il «gioco», «l’albero delle nuvole», mentre in mezzo alle nuvole stanno persone (Angelina tra le nuvole) e animali (La Mucca Moka fra le nuvole). Le nuvole sono associate al viaggio e al nomadismo, visto che si possono fare «quattro passi» in esse, vi si scorgono «orme», si individuano «sentieri» oppure ci si chiede «dove vanno» e le si classifica come «passeggere». Evocano una pesante solidità (Nuvole di pietre) o alludono a inquietanti risvolti nichilistici (Nuvole di nulla), sono «nuvole-neve», «nuvoledrago», «desideri», eppure e sempre c’è qualcosa «al di là», «sopra» e «dietro» le nubi, come se le nuvole segnassero una sorta di confine tra la terra e il cielo. Le nuvole vengono, talvolta, richiamate nel titolo dei libri persino quando sembra che le si vo...