Viaggio in Lucania
Girai attraverso i paesi della Lucania con i treni che ci sono e gli autobus delle linee, per una quindicina di giorni, nel mese di dicembre del 1952. Nessuno mi accompagnava, io ero solo coi miei tristi pensieri. Partivo la mattina con lo scuro, e con lo scuro arrivavo nei paesi; a volte pioveva come quando andai a Valsinni a visitare il triste castello, dove la poetessa Isabella Morra, oppressa dai fratelli prepotenti, cantò il suo amore alla vita, prima di morire assassinata da loro; e c’è ora un brav’uomo, che fa il geometra, che vive in quel castello, riattato da lui, con la sua gentile signora, appassionati delle memorie della loro terra, come molti in Lucania. Pioveva a dirotto quel giorno, io entrai in qualche povera casa a vedere gli aspetti desolati della loro vita, fui pure ricevuto in casa di un vecchio medico che religiosamente conservava il ricordo della visita fatta da Benedetto Croce a Valsinni, in onore dell’infelice poetessa, illustrata da lui con memorabili pagine, e in quella casa di medico era stato ospitato. Nella notte non veniva mai l’autobus che mi avrebbe dovuto portare a S. Arcangelo, dove avrei alloggiato, e varie persone ospitali di Valsinni si prendevano l’acqua con me, in attesa; stavano con me davanti alle porte chiuse di quel tristissimo paese, che solo l’acqua piovana puliva, e non sapevano nemmeno se l’autobus di passaggio facesse servizio regolare o no. Alfine venne, e io arrivai a S. Arcangelo, dove chiesi informazioni per un alloggio in una farmacia aperta sulla strada principale, e quel signore me le diede con leggero sorriso d’ironia, perché orribile era l’albergo di quel paese e solo l’albergatrice era graziosa, con le pantofoline ai piedi, ma poca confidenza ai viaggiatori. Mi voleva spogliare con il prezzo alto della camera, ricca di tre letti, da scegliere a mia volontà; e io non sapevo dove era più probabile che avessero dormito meno viaggiatori, prima di me. Una finestra, senza chiusura, che non fosse quella della sedia appoggiata dietro, conduceva al minuscolo terrazzino oscuro, con il più oscuro gabinetto; la porta di mezzo, ugualmente priva di chiave o lucchetto, conduceva a una camera, che per me era passaggio obbligato, dove cinque contadini trascorsero insonni la notte, fumando e sputando.
Prima dell’alba partii senza avere chiuso un occhio, presi un caffè d’orzo al bar che si apriva per i primi viaggiatori nella notte, e partii per Montemurro. Ma quell’autobus non arrivava a Montemurro, e nemmeno l’altro che presi alla coincidenza, ma si fermava a Spinoso, dove attesi l’occasione di qualche macchina di fortuna per proseguire; altrimenti avrei dovuto aspettare fino alla sera l’arrivo di un nuovo autobus. Un camion vuoto mi portò, con qualche difficoltà da parte del padrone, e io arrivai a Montemurro, paese natale di Leonardo e Vincenzo Sinisgalli, nel pomeriggio. Alloggiai in un buon albergo, ch’era una casa ospitale di paese, dove la padrona mi offrì quello che aveva riservato per la sua famiglia; il padrone era un buon uomo svelto, ch’era stato in America, dove aveva fatto i denari che erano serviti per la costruzione di quella casa. Respirai di sollievo in mezzo a loro, seduto nella cucina, davanti al camino acceso, mentre venivano donne popolane a chiedere qualcosa o a tenere compagnia alla famiglia. Una bella ragazza robusta, che non sapevo prima se fosse cameriera o figlia della padrona mi serviva, e poi appresi ch’era figlia della padrona, lavoratrice come la madre. Andai quella sera stessa in casa del padre dei Sinisgalli, che allora viveva ed era un uomo triste per la sordità in cui era caduto, già malato; e c’era la loro sorella, tanto gentile e intelligente, e il marito, un anziano e garbato signore, che mi onorarono con la loro attenzione. Non mi pareva di essere più solo in quella Lucania povera, fredda e desolata, io mi commuovevo al pensiero della buona accoglienza che la gente del luogo mi faceva. Al mattino ripartii nuovamente per Potenza e sull’autobus avevo una graziosa ragazza paesana, umile e semplice, ch’era seduta al mio fianco e io ne sentivo il dolce tepore, mentre l’autobus correva nella notte e la neve cadeva e nessuna macchina per chilometri e chilometri si incontrava.
Eccomi di nuovo a Potenza, dove già c’ero stato e avevo litigato con la padrona dell’orribile albergo, di cui non ricordo più il nome; e avevo litigato perché quando ero arrivato mi aveva detto che mi avrebbe fatto la riduzione sul prezzo della camera, ch’era matrimoniale; poi nei giorni seguenti avevo chiesto la camera a un letto, per spendere di meno, ed ella mi aveva detto che non c’era bisogno, perché sarebbe stato lo stesso per me. Al pagamento la strega pretese che pagassi il prezzo completo della camera e dovetti cedere, non senza averla obbligata a darmi la ricevuta, cosa che non voleva fare per nascondere il prezzo reale dell’affitto ai curatori del fallimento che vigilavano sulle entrate dell’albergo. Ella dovette darmi la ricevuta con suo dispetto, e io la pretesi perché il cameriere astuto, ch’era suo nemico per ragioni di paga, così mi suggerì di fare, quel cameriere che appena arrivato mi aveva domandato: «Che cosa siete venuto a fare?» con un sorriso, perché pensava che fossi stato mandato per punizione a Potenza. Ma Potenza, a parte gli alberghi, è una città più bella di quello che si crede, con grandi palazzi costruiti controvento, quartieri nuovi in posizione pittoresca, e solo i poveri negozi fanno intendere che siamo appunto in una città di regione trascurata. «Qui due cose buone abbiamo, l’aria e l’acqua. L’acqua è la seconda d’Europa, la prima è quella di Vienna», mi disse il solito cameriere, paffutello e astuto, con una moglie piacente e un bambino, che vivevano in quel grande albergo invecchiato e trascurato, dove il gabinetto era di fortuna, nella sua inutile ampiezza, e l’acqua nella camera mancava per gran parte del giorno.
Sulle meraviglie dell’acqua e dell’aria mi informò pure l’usciere del direttore della Banca d’Italia che m’accompagnò in casa di Sergio De Pilato, l’avvocato umanista, appassionato dei ricordi della sua terra, vecchio sì, ma equilibrato e saggio nei suoi giudizi, benché poi avessi saputo che si era presentato a non so quali elezioni con la lista del M.S.I. Aveva bei quadri di pittori locali, che nessuno conosce, ma che meriterebbero di essere meglio conosciuti dagli studiosi, perché dotati di un loro senso poetico nel naturalismo della visione pittorica. Uno di quelli mi pare avesse rappresentato una scena di Natale, in una casa lucana, ed era un pittore della seconda metà dell’Ottocento. Il folclore si animava di poesia e non c’è più bella poesia di quella che sorge sui sentimenti semplici del popolo. Mi pareva di trovarmi nella Russia dell’Ottocento, quali i suoi grandi scrittori ci hanno rivelata, con quella semplicità e profondità di visione nella rappresentazione della vita, e quel mondo mi pareva un mondo sorpassato sì, ma ricco ancora di echi profondi di una civiltà che non si era compresa e che perfino era stata oppressa.
Da De Pilato passai alla casa di un altro dotto, Concetto Valente, direttore del Museo archeologico di Potenza, che aveva difeso coraggiosamente di fronte ai soldati canadesi che volevano predarlo; e vi riuscì, senza lasciarsi intimidire, così che poco di quelle antiche raccolte sono state rubate. Ed egli era un uomo che per timore dei ladri aveva dormito in quelle sale nei freddi inverni della guerra, finché una bomba colpì proprio l’edificio del museo, scoprendo alle intemperie quello che tanto gelosamente era custodito. Qualche statuetta greca, delle più preziose, era già a casa sua, e fu salva. Ma egli cadde ammalato, la sofferenza della sua permanenza notturna nell’umido museo, nei mesi invernali, fiaccò la sua fibra, che venne colpita dal morbo di Parkinson. Io lo vidi a casa, tutto tremante, e pur appassionato nell’occhio lucidissimo, come mi mostrava la famosa statuetta salvata. Il museo lo visitai in fretta, mentre la moglie che mi aveva aperto le sale, attendeva; la polvere si era depositata dovunque e un riordinamento si rendeva necessario. Ma Concetto Valente, che per soverchio amore alla sua terra natale, aveva mortificato il suo talento di studioso, sognava per sé il lavoro da compiere nel futuro; e parlando delle antiche glorie della Lucania, stranamente dava credito alle fantasie, come se fossero vere. Mi diceva il Valente che la Gioconda di Leonardo da Vinci era sepolta a Lagonegro e credeva di averne la prova nella testimonianza fantastica di Merežkovskij nel suo romanzo su «Leonardo da Vinci». Fui a Lagonegro e cercai di quella tomba immaginaria; ma era notte; io fui accompagnato da uno studente del locale collegio, il cui direttore gli concedeva straordinarie uscite per la sua serietà; ed era un giovinetto svelto e precocemente maturo. Con lui andai a bussare alla porta di un convento, ma i monaci erano in chiesa, e solo un frate portinaio mi aprì, che non vidi nell’oscurità in cui viveva, per risparmio di luce. Non fu possibile vedere il luogo della presunta sepoltura della Gioconda che secondo il Merežkovskij si ammalò nel viaggio che fece col marito attraverso la Lucania, e fu sepolta lì.
Io poi da Lagonegro proseguii il viaggio con la Calabro-lucana per la Calabria e avevo accanto a me sul sedile una contadina che non so per che motivo era stata a Potenza e non era andata in albergo per risparmiare; nella mattinata era partita e ora viaggiava con me, donna di lavoro, affabile e gentile, che mi parlò della sua famiglia e del suo paese, Rotondella, dove era diretta. Aveva una piccola proprietà, bastante a far vivere la sua famiglia. Io le offrii una brioscia calda, acquistata a una stazione, ella si meravigliò, ma poi la prese; e mi diede la mano quando si licenziò di me. Seppi il suo nome, si chiamava Bruna, ma il cognome non lo ricordo più.
Ma io non dissi altro di Potenza e c’è da dire qualcosa ancora, come per esempio il passeggio che si ...