Il signor M
M come metalmeccanico, come amava spesso dire, facendo però arrabbiare quei metalmeccanici che in fabbrica ci andavano davvero per poco più di mille euro al mese. Lui che di stipendio arrivava a sei milioni di euro l’anno e con premi e bonus sfiorava i dieci. Milioni, ovviamente. Per non parlare poi delle stock option, quel tesoretto in azioni Fca che lo rendeva ancora più ricco. Il quotidiano «Il Sole 24 Ore» ha fatto un paio di conti in tasca al manager, arrivando a stabilire che in quattordici anni ha incassato la bella cifra di 630 milioni di euro. Di questi una parte sono azioni Fca, 260 milioni circa, Cnh, 11,8 milioni e Ferrari, 1,46 milioni. Ma a guadagnarci sono stati anche gli azionisti perché, fa notare sempre il quotidiano economico di Confindustria, chi ha investito un euro il giorno del suo arrivo a Torino in titoli Fiat oggi se ne ritrova in tasca sei. Un giorno – quando le assemblee degli azionisti si tenevano ancora al Lingotto di Torino – venne criticato per i suoi guadagni. Lui circondato dal solito capannello di giornalisti, fuori gli operai a protestare per il contratto, a un certo punto la domanda provocatoria sullo stipendio e Marchionne che gela l’interlocutore: «Provi lei ad avere le responsabilità che ho io, verso migliaia di famiglie. A lavorare come lavoro io».
Vacanze poche, pochissime, anzi praticamente nulla. Per rilassarsi faceva un salto al mercato torinese della Crocetta, uno dei più chic della città. Si fermava al banco del pesce, la scorta a debita distanza. Ogni tanto qualcuno lo riconosceva e chiedeva di farsi un selfie, era un raro momento di relax lontano dagli assilli quotidiani. Un’estate si presentò abbronzato. Era stato finalmente in vacanza. Un week end a Boston per vedere l’università di Harvard e la Kennedy Library. Si era scottato mentre leggeva un libro su una panchina al sole.
M come marziano, perché quando arrivò a Torino il manager era un illustre sconosciuto per il grande pubblico. Quando venne cooptato nel cda della Fiat, nel maggio 2003, la sua biografia era decisamente stringata: amministratore delegato del gruppo Sgs di Ginevra e presidente del Lonza group di Basilea, azienda produttrice di prodotti chimici fini. A scovarlo fu Gianluigi Gabetti, uomo di fiducia della famiglia Agnelli che lo segnalò a Umberto, convincendolo a cooptarlo nel consiglio di amministrazione. Se la Fiat oggi è ancora degli eredi della famiglia Agnelli molto lo si deve a questo anziano signore, rimasto fedele sempre, anche nei momenti più bui. Quando Umberto morì la situazione stava precipitando: prima il decesso dell’erede designato, Giovannino, scomparso a soli 33 anni per un tumore rarissimo, poi la morte dell’Avvocato nel 2003 e infine quella di Umberto un anno e mezzo dopo. John era troppo giovane per prendere le redini e nessuno, all’interno della numerosa famiglia, aveva l’autorevolezza tale per guidare un’azienda in difficoltà. Giuseppe Morchio, manager capace e in quel momento numero uno del gruppo, appresa la notizia della morte di Umberto convocò il consiglio di amministrazione per il giorno dopo. Ai funerali disse agli eredi che era pronto a diventare anche azionista. I top manager lo sanno bene, la rapidità delle decisioni è fondamentale nei momenti critici. E Morchio, pienamente consapevole che tutti gli eredi messi insieme non erano in grado di gestire un’azienda complessa come la Fiat, intravide la possibilità di diventare lui il nuovo padrone. Peccato che sulla sua strada trovò Gianluigi Gabetti, che in quegli anni era presidente dell’Ifil, la cassaforte degli Agnelli. Il manager, oggi novantaquattrenne, che in passato aveva risanato l’Olivetti, era qualcosa in più di un dirigente d’azienda, aveva un rapporto diretto e soprattutto di fiducia con l’Avvocato, fin dal primo incontro a New York, avvenuto trent’anni prima. Era un consigliere affidabile e ascoltato. Lui stesso ha raccontato quei giorni drammatici, come riuscì a sventare il blitz di Morchio per tentare di conquistare la Fiat:
Quando Gabetti e John Elkann gli spiegarono la scelta, che di fatto sventava il blitz e sbarrava la strada di Morchio verso la conquista dell’azienda, il manager tentò qualche resistenza. L’idea di essere lui il numero uno di Fiat, senza nessuno a disturbarlo, la stava accarezzando da un po’ di tempo. L’intervento di Gabetti con il pugno di ferro dentro il guanto di velluto scombinava però tutti i piani, anche se Morchio credeva di avere un asso nella manica, per poter continuare a occupare il posto di numero uno in Fiat: considerava difficile o quasi impossibile la sua sostituzione, in un’azienda in difficoltà – confessava agli amici più cari – era praticamente impensabile trovare un manager di esperienza, che garantisse alla famiglia affidabilità. Fu proprio in quel momento che Gabetti dimostrò di che pasta era fatto, mettendo in campo il nome di Marchionne e garantendo lui stesso una guida sicura all’azienda e una continuità con il passato, in attesa che l’erede designato – John Elkann – facesse sufficiente esperienza per poter guidare una grande società. Gli azionisti, la famiglia soprattutto, si trovarono d’accordo con il piano di Gabetti e scommisero sulla coppia formata da Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne. Il primo molto conosciuto, uomo di relazioni, battezzato dall’Avvocato, che amava soprannomi e vezzeggiativi, con l’appellativo “Libera e bella”, preso in prestito da uno slogan pubblicitario utilizzato negli anni Settanta per promuovere un noto shampoo e assai indicato al suo perenne ciuffo al vento. Montezemolo aveva un passato di manager in Ferrari, Rcs, Juventus e soprattutto aveva gestito l’organizzazione dei Mondiali italiani di calcio del ’90, ricevendo in cambio elogi e grande visibilità. Marchionne invece era ancora il marziano, almeno per il grande pubblico. Neanche Google all’epoca poteva essere d’aiuto. Poche e scarne notizie che lo riguardavano: d’altra parte la riservatezza era la cifra che lo contraddistingueva. In una bella lettera al «Corriere della Sera», l’avvocato Franzo Grande Stevens, che insieme a Gabetti è stato una delle persone più vicine all’Avvocato, ricorda quei momenti:
Ma chi era davvero il signor M? All’inizio la sua storia è simile a quella dei tanti immigrati obbligati a seguire la famiglia all’estero. Pochi, al suo rientro in Italia, potevano dire di conoscerlo davvero. Per la fiducia della famiglia Agnelli bastò la parola di Gabetti, tutti gli altri avrebbero ben presto iniziato a capire quanto dura fosse la sua scorza. Figlio di un maresciallo maggiore dei carabinieri, Concezio, nacque a Chieti in Abruzzo il 17 giugno 1952, segno zodiacale Gemelli, e lasciò l’Italia, direzione Canada, a 14 anni, quando il padre decise di trasferirsi, raggiungendo la cognata Anna Zuccon e il marito Zopito Sablone, che avevano aperto a St. Claire, vicino alla Little Italy di Toronto, un negozio di merceria. Il padre di Marchionne non aveva bisogno di attraversare l’oceano per cercare fortuna, in fondo lui a cinquant’anni era già in pensione dall’Arma, ma voleva garantire un futuro migliore al figlio e il Canada sembrava il paese ideale. La sua non era stata una vita facile, almeno all’inizio: il giovane Concezio, appena entrato nell’Arma, venne mandato in Istria dove conobbe la futura moglie, Maria Zuccon, il cui padre fu ucciso e gettato in una foiba dai partigiani titini. Un lutto che colpì profondamente la famiglia, erano anni difficili, anni di odi mai sopiti. Alcune settimane dopo anche lo zio Giuseppe si imbatté in un rastrellamento dell’esercito tedesco e, scambiato per un partigiano, venne fucilato. I futuri genitori del manager decisero così che era meglio cambiare aria e andarono in Abruzzo, dove si sposarono e subito dopo la guerra nacque Luciana – docente universitaria molto apprezzata, che morì ad appena 32 anni di tumore – e nel 1952 venne alla luce Sergio. Quando il ragazzino compì 14 anni venne presa la decisione di volare in Canada, un salto nel vuoto. Per Sergio un’adolescenza segnata dalla scarsa conoscenza della lingua inglese e dalla timidezza. Negli anni successivi preferì non parlare mai delle difficoltà a integrarsi nel gruppo dei suoi coetanei e liquidava la faccenda con una battuta: «La scarsa padronanza dell’inglese mi ha fatto perdere anni di occasioni con le ragazze». Ben presto il salto in Canada divenne una grande opportunità. I Marchionne si fecero ben volere, a Toronto ancora oggi la sezione dei carabinieri è intitolata al maresciallo maggiore Concezio Marchionne e uno dei suoi più grandi amici, Tonino Giallonardo, si prodiga ogni anno in decine di attività. In passato lo stesso manager partecipò a momenti conviviali, mostrando un velo di emozione e un pizzico di orgoglio, soprattutto durante la Virgo fidelis, la tradizionale manifestazione sulla patrona dell’Arma. Sergio era socio della sezione dei carabinieri intitolata al padre fin dal lontano 1973 e ricoprì anche alcuni incarichi operativi prima di trasferirsi in Svizzera.
La decisione dei genitori di emigrare in Canada fu per il giovane Sergio un colpo di fortuna: egli riuscì in questo modo a imparare l’inglese benissimo, anche se impiegò un po’ di tempo per liberarsi dall’accento italiano e fin dal rientro nella Penisola la considerò la sua lingua madre. Infatti nelle conferenze stampa – anche in quelle che avvenivano nel nostro Paese – preferiva i giornalisti che gli rivolgevano domande in inglese, dando in cambio risposte molto articolate. Con i suoi manager era la lingua utilizzata nelle riunioni e all’inizio molti si stupirono, alcuni furono addirittura atterriti al solo pensiero di dover esprimersi in una lingua diversa dall’italiano. Con John Elkann il dialogo era quasi sempre in inglese, molto più diretto – spiegava –; l’italiano, infatti, conteneva troppi termini per esprimere un concetto. Il giovane Sergio, superato lo scoglio della lingua e della timidezza, riuscì a integrarsi piuttosto facilmente, andò a scuola con ottimi risultati, prese la laurea in filosofia, poi quella in legge e infine un master in economia. Qualche lavoretto d’estate in una banca locale, poi l’impiego serio, il primo in una società di revisione contabile piuttosto nota, la Deloitte & Touche. Successivamente arrivò in un’azienda di componentistica, la Acklands e poi entrò nel Gruppo Sgs di Ginevra. Su di lui niente gossip, d’altra parte all’epoca non apparteneva ancora a quella categoria di manager abituati a finire sui giornali. Alle spalle aveva una vita famigliare piuttosto normale: una moglie, Orlandina, due figli maschi diventati ormai grandi, Alessio Giacomo e Jonathan Tyler. E stop. Neanche della fine piuttosto burrascosa del matrimonio con Orlandina si è saputo nulla. Quando era ricoverato in ospedale a Zurigo accanto a lui c’erano i due figli, ma non l’ex consorte. Anche allora le sue giornate erano scandite da molte ore di lavoro. Per trovare un minimo accenno di pettegolezzo bisogna attendere gli anni più recenti, quando nel suo cuore fece breccia una nuova donna, una giovane e brillante torinese che lavorava all’ufficio stampa della Fiat e rispondeva al nome di Manuela Battezzato. Ma anche questo fu un amore tenuto ben al riparo dal gossip, lo sapevano in pochissimi all’inizio, rarissime le foto insieme, anche se qualcuno ci ha ricamato sopra dicendo che era stata lei – venti anni più giovane – a convincerlo a farsi crescere la barba, che per alcuni anni sfoggiò con un pizzico di vanità.
Segni particolari di lui: la passione per la musica, per le sigarette e per il lavoro, anche se non necessariamente in quest’ordine. «Queste saranno la mia morte», diceva spesso con il pacchetto in mano, quasi per esorcizzare il pericolo. E appena finita la frase ne accendeva un’altra. A fine giornata sarebbe arrivato a tre pacchetti. Pasti frugali, all’inizio addirittura in mensa, anche nelle occasioni ufficiali non resisteva a lungo seduto a tavola e fremeva, fin quando non riusciva ad allontanarsi per fumare una sigaretta. Un vizio, ma anche un modo per scaricare la tensione. Con l’arrivo sul mercato delle sigarette elettroniche evitava di lasciare i commensali, ma il suo bisogno di nicotina restava ai primi posti. Al salone dell’auto di Ginevra si nascondeva dietro i pilastri di cemento, ben protetto dagli uomini della sicurezza, apriva una delle porte che davano verso l’esterno e si concedeva una piccola pausa, lui e le immancabili sigarette. Solo pochi eletti erano ammessi in quel cerchio magico, per scambiare due parole sul salone o sul futuro dell’auto. La prima volta che rientrò a Torino da Detroit, dopo l’operazione Chrysler, noi giornalisti ci precipitammo all’aeroporto di Caselle: in mano aveva solo una busta di plastica, con dentro le immancabili stecche di sigarette. Con il passare del tempo qualche volta ci infilava anche i tre cellulari, uno americano, uno svizzero, l’altro italiano.
Pasti frugali, dicevamo, qualche volta anche consumati in ufficio. Quando arrivò a Torino uno dei primi posti dove si recò fu la pizzeria Cristina, nel popolare e multietnico quartiere di Barriera di Milano: pizza buonissima, ma tovaglie di carta e ambiente tutt’altro che chic. Con lui c’era l’allora sindaco di Torino Sergio Chiamparino che doveva discutere il futuro del Palavela, una delle strutture olimpiche, destinata poi a ospitare un grande evento Fiat. La scelta della pizzeria venne fatta da Marchionne: «Nessuno mai avrebbe pensato di incontrare lì l’amministratore delegato della Fiat» ha raccontato più volte Chiamparino. «Di lui mi colpì la sua curiosità, anche l’interesse che più volte mostrava per una Torino non patinata. Quella sera saremmo potuti andare al “Cambio” e invece siamo finiti a mangiarci una pizza sulla tovaglia di carta alle undici di sera. Il problema però lo abbiamo risolto». Con il passare del tempo aveva preso l’abitudine a frequentare un ristorante della collina, sempre con gli uomini della scorta al seguito. Un giorno arrivò, scese dall’auto e chiese al titolare: «Di chi è quella Mini là fuori?». Lui per lungo tempo negò, poi si comprò una Fiat.
Il saggio Gabetti era rimasto colpito dalle capacità e dalla grande mole di lavoro che era in grado di produrre. Tutta una questione di testa, aveva raccontato più volte il grande vecchio della Fiat a un John Elkann stupito pure lui. E ben presto i manager del gruppo se ne accorsero, soprattutto quelli che ebbero l’avventatezza di rispondere «in Fiat si è sempre fatto così», oppure «non è di mia competenza», due frasi che avevano l’immediata capacità di mandarlo su tutte le furie. Marchionne dava il massimo e pretendeva lo stesso da chi gli stava accanto. Gabetti un giorno ne tracciò un profilo netto: «Mai vista una testa così organizzata. Per l’affare Gm abbiamo passato giorni e notti insieme. Lui elabora un piano, e intanto la mano corre al mouse, sposta cifre sul computer, passa dal magazzino alle vendite, e il piano prende forma quasi fisica. Ha l’azienda in testa, non ha bisogno di carta e di cifre: e non ha sbagliato una previsione».
Quando era concentrato sul lavoro – quasi sempre – il signor M. diventava un panzer: aveva sviluppato un metodo personale, mai perdersi in chiacchere, concentrarsi su un problema alla volta e risolverlo, non farsi distrarre dai telefonini. Non c’erano sabati, domeniche, festività. Non importa se era Natale o Capodanno, i suoi manager dovevano essere in servizio permanente effettivo. Impossibile staccare il telefono. E questo valeva anche per molte altre situazioni. Il lancio dello Stralis, il camion di punta dell’Iveco, avvenne proprio in occasione della finale degli Europei di calcio del 2012, con l’Italia che tentava di arginare con poca fortuna una Spagna arrembante. E di fronte alle perplessità di molti per la data scelta tirò dritto, organizzò la conferenza stampa a un paio d’ore dall’ingresso in campo degli Azzurri e cedette a una sola concessione, permettendo che nella sala dove era prevista la cena con i giornalisti fossero installati alcuni maxi schermi per seguire la partita. Il signor M. non seguiva copioni, lo sapevano i suoi collaboratori e in quell’occasione non si smentì. Invece di tessere le lodi dello Stralis, lanciò un’autentica perla ai giornalisti: «Iveco chiuderà in Europa cinque stabilimenti», disse tra lo stupore degli addetti stampa del gruppo che in quel momento videro mesi di lavoro andare in fumo. Provate a immaginare quale fu il titolo dei quotidiani il giorno dopo: ovviamente la decisione di ridurre le fabbriche, lo Stralis finì nelle note a margine, sacrificato alla notizia ben più ghiotta. Non vi basta per convincervi che il personaggio ama stupire? Ecco cosa fu in grado di combinare qualche anno prima. Era il 2012, un luglio afoso, quando nelle torinesi Ogr, le storiche officine dove un tempo venivano riparati i motori delle locomotive, era previsto il lancio della 500L. Tutto organizzato nei minimi dettagli, era un modello sul quale la Fiat puntava molto, perché destinato a sostituire ben due vetture, l’Idea e la Lancia Musa. Le Ogr erano già di per sé un luogo affascinante. In quel momento la ristrutturazione non era ancora avvenuta, gli ampi spazi infatti erano abbandonati da decenni, un curioso esempio di archeologia industriale, dove gli esperti di comunicazione della Fiat seppero integrare passato e futuro, con le pedane sulle quali erano seduti i giornalisti che scivolavano via per lasciare entrare l’auto, in un gioco di antico e moderno, con le alte colonne, dove erano appesi gli argani per sollevare i motori, a fare da sfondo e il profumo dell’olio di creosoto che riportavano alla memoria un’epoca in cui Torino era capitale dell’industria, come raccontava anche un filmato con la storia della 500 di ieri, di oggi e di domani e che venne proiettato all’inizio dell’evento.
La vettura si portava dietro un carico di polemiche, perché il modello doveva essere prodotto a Mirafiori, prima che venisse destinato in Serbia. Alla vigilia del lancio alcuni sindacalisti avevano rintuzzato gli attacchi, tanto che nel comunicato ufficiale l’azienda, con qualche acrobazia, aveva pensato bene di sopire le polemiche scrivendo che «con questa location di grande fascino e valore storico, Fiat consolida il forte legame con il capoluogo piemontese che l’ha vista nascere nel 1899. Da qui partiva la sua storia secolare che nel 1957 dava alla luce la Fiat 500, la vettura che ha unito l’Italia con la prima grande fase di “motorizzazione di massa” nel nostro Paese». Una precisazione che era piaciuta poco a coloro che da un po’ di tempo criticavano le scelte industriali dell’azienda, proiettata a delocalizzare le proprie produzioni. A chiudere la polemica ci aveva pensato però a modo suo Marchionne. Appena finito il coreografico lancio, si ripeté lo stesso copione: noi giornalisti scattammo in piedi, un assalto in piena regola, per bombardarlo di domande, con gli uomini della scorta a faticare per tenerci a debita distanza. Lui di solito non lesinava le risposte e appena gli venne chiesto di commentare le polemiche sulla scelta del sito produttivo disse tranchant: «La Fiat ha uno stabilimento di troppo in Italia». Apriti cielo. Il giorno dopo polemiche come se piovesse, dichiarazioni di sindacalisti, di politici, tutti contro il manager. Eppure lui sapeva benissimo l’effetto dirompente che avrebbero avuto le sue parole e soprattutto aveva ben chiaro che annunciare di avere una fabbrica di troppo sarebbe stato il modo migliore per oscurare il lancio della nuova vettura. Ma nonostante tutto andò avanti con la sua strategia. In questo modo Marchionne voleva dimostrare di essere diverso anche nella comunicazione: non era l’evento che faceva notizia, ma era il signor M a essere la notizia. Lui lo sapeva bene, per questo non disdegnava il bagno di folla con i giornalisti, ai saloni di Ginevra, Francoforte, Parigi, Detroit, ma anche durante le conferenze stampa per il lancio dei nuovi modelli, decine di microfoni sotto il naso, una raffica di domande, quasi mai solo sull’argomento del giorno, si spaziava a largo raggio e lui non si scomponeva, rispondeva a tutti. C’era solo un accenno di fastidio di fronte alle domande banali o palesemente non documentate, perché anche dai suoi interlocutori pretendeva il massimo. Sapeva perfettamente che i giornalisti avevano bisogno di un titolo, sapeva calcolare i tempi e prevedere cosa sarebbe uscito il giorno dopo sui giornali. E – come nel caso della 500L e dello stabilimento di troppo – sapeva perfettamente chi era il destinatario della comunicazione. Inutile continuare a sottolineare che la vettura andava costruita in Italia, semmai andava ripensata la produzione stessa di auto nel Belpaese. Questo era il messaggio manco troppo sottinteso che voleva dare.
Il signor M amava stupire e sovvertire gli schemi classici della comunicazione, perciò per annunciare che la Fiat aveva assunto il controllo completo della Chrysler scelse una data non casuale, il 31 dicembre, quando tutti erano impegnati nel cenone di Capodanno e nelle redazioni i pochi rimasti in servizio guardavano l’orologio per andare a casa, tanto il giorno dopo i quotidiani non sarebbero usciti. A poche ore dallo scadere del 2013 il manager fece planare sulle redazioni un comunicato in cui annunciava di aver centrato l’obiettivo e di aver siglato l’intesa per acquisire il restante 41,5% della casa automobilistica di Detroit. Un inizio del 2014 davvero con il botto, perché segnava la nascita del settimo gruppo automobilistico mondiale, un progetto che fino a qualche tempo prima sembrava da visionari. Molti vennero colti impreparati e restarono increduli di fronte a un annuncio di tale importanza, addirittura il vicecaporedattore di una testata televisiva leader non si accorse che le agenzie stavano battendo la notizia evidenziata in rosso – e quindi considerata di massima urgenza – e la bucò clamorosamente. Altri furono obbligati a correre ai ripari, recuperare nel giorno festivo le notizie, i dati, i commenti per realizzare i servizi su un fatto che comunque era destinato a segnare la storia dell’economia. Il 2 gennaio, primo giorno dell’anno nuovo con i quotidiani in edic...