Il ritorno alla ragione
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Il ritorno alla ragione

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Il Ritorno alla ragione di Guido de Ruggiero del 1946 racchiude buona parte degli articoli che il grande storico del liberalismo europeo pubblicò nel settimanale «La Nuova Europa», diretto da Luigi Salvatorelli. È suddiviso in tre parti: nella prima, de Ruggiero analizza le premesse speculative dello storicismo crociano; nella seconda, denuncia in particolar modo, e con toni illuministi, le derive irrazionalistiche del pensiero tedesco; nella terza parte sono presenti alcuni studi sul liberalismo, sulla democrazia, sul nazionalismo, sul pensiero socialista e sul rapporto dialettico fra destra e sinistra: in breve, verte sugli orientamenti politici maturati dalla Rivoluzione francese fino al secondo immediato dopoguerra.

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III.

Orientamenti politici

1. Il pensiero politico europeo dalla Rivoluzione francese a oggi

Vi sono molti, specialmente oggi, che dubitano dell’efficacia delle idee politiche e delle loro specificazioni, e che ingenuamente credono che se ne possa fare a meno nel condurre i pubblici affari, o ridurle ad un minimo come un male inevitabile, ritenendo sufficiente la perizia tecnica e amministrativa al buon andamento delle cose.
A costoro si potrebbero opporre molti e solidi argomenti di ordine diverso; ma in sede di storia delle dottrine politiche, basta citarne uno solo che ha la forza persuasiva dell’esperienza. Se noi percorriamo questa storia per un ampio periodo di tempo, non tardiamo ad accorgerci che essa aderisce perfettamente, fino a identificarsi, alla storia della concreta realtà politica, cioè alla storia tout court. Il che vuol dire che quelle idee, nella loro apparente astrattezza dottrinale, germinano dalla humus dell’esperienza empirica e a loro volta la fecondano coi loro semi, in una circolarità vitale di cause ed effetti, che testimonia la loro efficacia storica.
Muovendo da questa premessa, io mi accingo a tracciare una rapida sintesi delle dottrine politiche dell’Occidente europeo, dalla Rivoluzione francese ai nostri tempi, col proposito di dimostrare come in esse si compendia idealmente quel che realmente «si squaderna» nell’universo storico.
Nella Rivoluzione francese noi vediamo scaturire, come in una distesa d’acqua, da un’unica potente folata, tre ondate successive, via via più ampie, ma più smorzate: una rivoluzione liberale, una rivoluzione democratica, una rivoluzione sociale. L’impulso è unico alla fonte, ma si moltiplica nell’effetto. È un prorompente slancio di libertà che nel 1789 rompe gli argini del vecchio Stato assolutistico-feudale, che nella Costituzione del 1791 promulga i diritti dell’uomo e del cittadino e formula le garanzie politiche del loro riconoscimento; che porta al primo piano sulla scena pubblica la borghesia liberale, già mentalmente temprata ed economicamente agguerrita negli ultimi secoli della monarchia assoluta. Siamo alla prima ondata rivoluzionaria, che ha per suo antesignano spirituale Montesquieu e per sua guida politica Mirabeau.
Ma questa libertà, pur essendo nata con un sentimento di insofferenza verso ogni privilegio e pur ripudiando i vecchi privilegi della corona, dell’aristocrazia e del clero, consacra ancor essa temporaneamente il privilegio della borghesia proprietaria a danno dei più larghi strati della popolazione. Di qui la seconda ondata rivoluzionaria che, muovendo dallo stesso impulso liberale, pareggia i diritti di tutti i cittadini e fa del governo, invece che un potere estraneo, dal quale essi debbono salvaguardarsi, la loro diretta espressione rappresentativa. Siamo alla costituzione del 1793 che, per il suo carattere egalitario e per il potere di autogoverno che attribuisce al popolo, prende un’insegna democratica, dove la democrazia non è che lo sviluppo dell’originario liberalismo. Il dottrinario di questa seconda fase è Rousseau; corifei sono Danton e Robespierre.
E vi è infine una terza ondata più torbida, ma per il momento meno impetuosa, che emerge dalla seconda. L’eguaglianza riconosciuta dalla democrazia è giuridica e formale; lasciando intatto l’assetto economico, anzi confermandolo, essa consacra delle grandi disuguaglianze di fatto, che infirmano l’effettivo potere di autogoverno del popolo, dando ai ricchi una persistente prevalenza sui poveri. La rivoluzione liberal-democratica, per corrispondere adeguatamente alle sue iniziali esigenze di vera e reale libertà, deve essere integrata da una rivoluzione sociale, che pareggiando le condizioni economiche di tutti, sani l’ingiusto squilibrio e dia a ciascuno la possibilità di far valere efficacemente la sua pretesa al governo della comunità. Questa terza ondata è, come ho detto, più torbida, perché porta con sé un profondo sommovimento dell’assetto sociale e una manomissione del tradizionale principio della proprietà privata, ma è anche per il momento più tenue, date le condizioni arretrate di una società prevalentemente agricola a base individualistica, non ancora fecondata, in bene e in male, dall’industrialismo. Teorico della rivoluzione sociale comunista è Mably; effimero corifeo è Babeuf.
Questi tre moti si succedono rapidamente, durante la grande rivoluzione, in un giro di anni troppo breve perché possano avere uno sviluppo adeguato all’imponenza delle trasformazioni che ciascuno porta in sé latenti. Essi sono come il preludio o il programma di tutto il lavoro di tutta l’età seguente, fino ai nostri giorni, che con un giro più ampio e misurato ripercorre le successive tappe e ne sviluppa i singoli momenti.
Il periodo postrivoluzionario che si suole designare col nome di Restaurazione, rappresenta il tentativo delle forze conservatrici e reazionarie per chiudere con una solida barriera gli sbocchi della rivoluzione; ma in realtà l’argine ha avuto, anche contro la volontà dei costruttori, l’effetto di incanalare la corrente, piuttosto che di arrestarla. Nella prima fase, quella napoleonica, la Restaurazione ha cercato di dissociare la libertà civile dalla libertà politica, conservando la prima, come una conquista positiva e utile dell’età precedente e ripudiando la seconda, perché troppo turbolenta e capace di compromettere l’ordine ricostituito. Il tentativo, che ha le sue nobili espressioni dottrinarie in alcuni grandi italiani, come Foscolo e Cuoco, è travolto insieme con l’impero napoleonico, lasciando ai contemporanei ricca materia di considerazioni sulla impossibilità che la libertà civile sia salvaguardata senza le garanzie della libertà politica. Saranno i grandi dottrinari francesi, dal Constant al Guizot, che trarranno da quelle esperienze i più utili ammaestramenti.
Carattere più apertamente reazionario assume la seconda fase della Restaurazione, che ha i suoi simboli nella Santa Alleanza e nel legittimismo. Questa ci presenta una contraddizione, che a prima vista può apparire strana. Ritornando alle loro sedi, i sovrani spodestati s’illudevano di far tabula rasa della rivoluzione e di rimettere le cose in pristino, come se nulla fosse accaduto. In realtà, la pretesa di annullare le conquiste rivoluzionarie poneva in essere uno sforzo di reazione, di cui non vi era traccia nel tempo del loro pacifico possesso; e questa reazione, prendeva, per forza di cose, il tono di una rivoluzione alla rovescia, e si inseriva suo malgrado nel moto precedente. De Maistre che reclamava una costituente papale, de Bonald che, di fronte alla sovranità del popolo, proclamava la sovranità di Dio, Haller che, vagheggiando la reintegrazione del vecchio Stato patrimoniale, poneva come limiti del potere i limiti della proprietà, gli ultra del tempo di Luigi XVIII che invocavano la Carta per tenere in scacco gli avversari liberali, non erano le sparute ombre di un remoto passato, ma erano uomini vivi, che la corrente dei tempi nuovi trascinava con sé, malgrado il loro tentativo di risalirla. Essi contribuirono a modo loro a quell’alleanza tra il passato e il presente, o meglio, tra il passato remoto della tradizione storica e il passato prossimo della rivoluzione, che nel medesimo tempo, e con assai maggiore spontaneità e consapevolezza, era patrocinata dagli spiriti più liberali della Restaurazione. Tale alleanza prendeva la sua insegna dal nascente storicismo romantico che aveva per antesignano l’inglese Burke e per fautori Chateaubriand e Thierry in Francia, Savigny, Müller ed Hegel in Germania. Nella storia infatti si conciliavano, al di sopra della mischia, i reazionari, con la loro idolatria per la storia remota e con la loro nostalgia del Medioevo, e i liberali col loro riconoscimento delle esigenze della recente storia rivoluzionaria.
La dottrina liberale europea della prima metà del secolo XIX sorge da questa alleanza, che fonde insieme, non solo due età storiche, ma anche due mentalità contemporanee, che avevano proiettato nello spazio la stessa antitesi che si era svolta nel tempo. Alludo al contrasto tra la mentalità inglese e la mentalità continentale, l’una gelosa custode di una secolare tradizione, l’altra dei diritti rivoluzionari della ragione. Fino a tutto il secolo XVIII questo loro contrasto era tale che, anche quando si esprimevano nel linguaggio della libertà, non s’intendevano e polemizzavano violentemente tra loro. Così Burke, in nome delle tradizionali libertà anglosassoni, sconfessava la rivoluzione francese, come vuota e astratta nelle sue formule, tirannica e oppressiva nelle sue realizzazioni, cioè egualmente lontana, nella teoria e nella pratica, dall’equilibrata medietà dell’esperienza inglese. E a loro volta i rivoluzionari francesi e i loro adepti d’oltre Manica irridevano le presunte libertà britanniche, le quali dissimulavano, a loro avviso, gli odiosi privilegi di una spietata aristocrazia.
Nella prima metà del secolo XIX, invece, si dà un caratteristico scambio di parti, che ha per effetto un fecondo integramento di ognuna delle due mentalità per mezzo dell’altra. Il tradizionalistico liberalismo inglese si fa radicale e razionalistico alla scuola di Bentham e degli economisti classici. Certo, il suo razionalismo non è quello dei rivoluzionari di Francia, ma ha un carattere più appropriato al genio del popolo inglese. Suo principio informatore è l’utilità del maggior numero, cioè l’interesse economico, che però agisce come un dissolvente razionalistico efficace nei confronti dei privilegi aristocratici terrieri e delle frastagliate consuetudini politiche del wigghismo. Esso tesaurizza a suo modo le esperienze rivoluzionarie del continente europeo e ne prolunga a distanza l’azione, vincendo il tradizionale isolazionismo della mentalità insulare. Concorre a questo risultato non solo la più diretta e assidua conoscenza che gli inglesi hanno fatto dell’Europa attraverso una lotta ventennale, ma anche l’apparizione sulla scena politica di un largo ceto industriale, con la mente sgombra dai pregiudizi dei vecchi ceti terrieri e ben disposta ad ascoltar la voce degli interessi che i radicali fanno risonare. Da questo ambiente nasce il liberalismo di Cobden e di Peel, che in pochi anni spezza il protezionismo agricolo, instaura il liberismo economico, modernizza la vecchia divisione dei Whigs e dei Tories.
D’altra parte la Francia si ricrede di molte illusioni rivoluzionarie che non hanno resistito alla prova dei fatti. Aveva immaginato di poter ricostruire la storia daccapo, secondo i dettami del puro razionalismo, e si è accorta invece che c’è una forza tenace nelle tradizioni e nei costumi, la quale resiste alle innovazioni troppo brusche e impreparate. Il liberalismo francese sente perciò il bisogno di ristudiare il modello insulare che prima aveva mostrato di tenere a vile. I dottrinari dell’età della Restaurazione imparano dai loro maestri anglosassoni che la libertà al singolare, nella sua essenza razionalistica, non può allignare nella vita storica senza il sussidio delle libertà al plurale che sono frutti di lunghe e faticose conquiste; Beniamino Constant scopre che la libertà non è un dono di natura, ma una progressiva realizzazione della storia, il cui concetto si è profondamente trasformato dagli antichi ai moderni; Guizot rivela l’intimo intreccio tra le costituzioni e le istituzioni, da cui ricava una lezione di prudenza ai suoi conterranei, troppo facilmente propensi a credere alle virtù taumaturgiche delle carte costituzionali.
A questa fusione delle due principali forme del liberalismo europeo ha contribuito anche il pensiero tedesco, ma più efficacemente con le visioni speculative del Criticismo kantiano e dello storicismo postkantiano, che con formulazioni politiche concrete. Il movimento liberale, che pur si preannunziava rigoglioso in Germania al primo contatto con le idee rivoluzionarie francesi, è stato presto soverchiato da interessi nazionalistici, che hanno finito per deviarlo lungo una direttiva diversa. Qualcosa di simile è avvenuto, ma in misura molto più limitata, in Italia, dove lo sviluppo dottrinale appare in ritardo di una generazione, ma dove il liberalismo, per merito principalmente di Cavour, riesce a trovare un più armonico equilibrio con le esigenze dell’emancipazione nazionale.
Nel trentennio che va dall’inizio della Restaurazione alla rivoluzione del 1848, si è andata così sviluppando organicamente nelle sue parti e ha permeato di sé le istituzioni dei principali Stati dell’Occidente europeo, la dottrina del liberalismo. Essa ha la sua premessa filosofica nell’autonomia della personalità umana, e da questo centro irradia una serie di rivendicazioni, che ben presto divengono riconoscimenti, di singole libertà – di religione, di stampa, di associazione, di attività economica – che rappresentano i momenti di una progressiva espansione della personalità stessa nel mondo. Queste libertà fanno in primo tempo argine alla potenza dello Stato, finché lo Stato ancora impersona in sé l’antico potere assolutistico, ostile agli individui. Ma già esse cominciano a insinuarsi nella compagine statale e a trasformarla profondamente, con una progressiva estensione del principio dell’autogoverno. Il momento in cui, mediante l’applicazione di un complesso sistema rappresentativo, lo Stato diviene l’espressione libera e consensuale della volontà dei suoi cittadini, segna il trapasso dal liberalismo, nel senso stretto del termine, alla democrazia.
Questa seconda ondata si inizia con la rivoluzione del 1848, almeno in quei paesi dove le complicazioni dei problemi nazionali non ritardano e non deviano il corso principale dello sviluppo politico. A diffondere la democrazia nel trentennio precedente molto aveva contribuito l’estendersi del benessere e del sentimento egalitario, per effetto del crescente frazionamento della proprietà terriera in seguito alla eversione della feudalità e alla vendita dei beni di manomorta. Vi aveva anche contribuito il rapido progresso delle industrie, che implicava un grande accentramento del lavoro e del capitale, e col suo esempio esigeva un’analoga mobilitazione anche delle altre attività e una direzione più unitaria di tutta la vita pubblica.
La resistenza dei liberali a estendere i diritti elettorali a larghi strati sociali, la loro opposizione a ogni ingerenza livellatrice da parte dello Stato, dovevano per necessità scontrarsi con quel sentimento egalitario dovunque dilagante e reclamante contro l’ingiustizia del privilegio di una ristretta classe dominante. La rivoluzione del 1848 segna il punto saliente di questo urto, che travolge gli argini del «paese legale» e instaura governi popolari più largamente rappresentativi.
Ma già alcuni anni prima, un acuto scrittore politico francese, il Tocqueville, studiando la democrazia americana con lo sguardo rivolto alla nascente democrazia del suo paese, aveva segnalato i pericoli latenti del nuovo corso storico. Eguaglianza, giustizia, partecipazione di tutti al governo comune, sono grandi e generosi propositi, ma di fatto l’eguagliamento di tutti polverizza la società in una miriade di atomi indifferenziati e inerti, che una forza estrema può facilmente comprimere; e l’autogoverno del popolo nasconde nel suo seno l’insidia di una demagogia, che nel nome del popolo si trasforma in una tirannide. In breve, il pericolo insito alla democrazia è la dittatura, che tanto più facilmente può trionfare, quanto più spianata trova la strada innanzi a sé dallo sforzo livellatore della società democratica.
Tocqueville è stato buon profeta: la rivoluzione del 1848 ha avuto infatti per epilogo la dittatura del terzo Napoleone, l’élu des sept millions. Ma, per spiegabile reazione, l’oppressione del secondo Impero risuscita tutte le istanze liberali che sembravano superate, e che invece, come già erano state necessarie contro il vecchio assolutismo dell’antico regime, altrettanto indispensabili appaiono contro l’assolutismo nuovo, ma nel tempo stesso sono di più difficile attuazione, perché è meno agevole difendersi da un nemico interno che da un nemico esterno. Ciò non ha per conseguenza una contrapposizione del liberalismo alla democrazia; ma solo una limitazione della democrazia per mezzo della libertà, cioè l’esigenza che la democrazia si rituffi nella sua fonte originaria, riconoscendo un complesso di garanzie liberali, che costituiscano una efficace remora all’invadenza del potere centrale. È questo il programma della democrazia liberale che, già in parte anticipato dal Tocqueville, trova nuovi e più aggiornati esegeti in alcuni scrittori politici del tempo del secondo Impero, come Jules Simon, Prévost Paradol, e altri.
Giova anche aggiungere che la tendenziale illiberalità già notata della democrazia, trova conferma e sviluppo nell’ambiente culturale della seconda metà dell’800, in cui la dottrina democratica si è formata. È stato quello il periodo del trionfo del materialismo e del positivismo, quando le facili analogie tra le società umane e gli organismi naturali erano prese alla lettera. Come le membra del corpo organico sono strettamente dipendenti dal tutto a cui appartengono, così gli individui umani erano concepiti in una rigida subordinazione di fronte alla società. Auguste Comte è stato il più conseguente teorico di quest’indirizzo, e ha formulato il più oppressivo sistema di democrazia positivistica che la storia ricordi, e che il suo stesso scolaro Littré è stato costretto a sconfessare. Quest’alleanza di democrazia e positivismo è stata di grave danno per l’evoluzione politica del continente europeo, sia per le immediate conseguenze testé accennate, lesive della autonomia individuale, sia perché la posteriore rivolta del pensiero filosofico contro il positivismo ha coinvolto anche la democrazia, che è stata oggetto dello stesso scredito.
Nella rivoluzione del 1848, all’ondata democratica si è ben presto accavallata una più gonfia e impetuosa ondata socialistica. Pur procedendo insieme, esse si differenziano l’una dall’altra, per la meta, se non per l’impulso. Le rivendicazioni della democrazia hanno infatti un carattere giuridico-politico, quelle del socialismo un carattere economico-sociale: da una parte, si tende all’uguaglianza di fronte alla legge e alla partecipazione di tutti al potere; dall’altra, al pareggiamento delle condizioni economiche come premessa di una radicale trasformazione del potere politico. Già nel trentennio della Restaurazione si erano avute delle anticipazioni dottrinali di socialismo per opera del Saint-Simon e del Fourier. Esse rivestivano, a causa dell’immaturità dei tempi, un certo carattere utopistico; ma già si muovevano lungo le due direttive fondamentali che il più maturo socialismo doveva in seguito assumere: il sansimonismo tendeva al socialismo di Stato, il fourierismo al sindacalismo libertario. Col Manifesto dei Comunisti, redatto da Marx e da Engels nel corso della rivoluzione del 1848, il socialismo esce dalla fase del vagheggiamento astratto di una società futura, ed entra in quella della realizzazione pratica per mezzo dell’organizzazione operaia, che scende in campo contro il capitalismo.
Questo progresso è reso possibile dal grande sviluppo delle industrie nella fase liberale, per effetto della più estesa introduzione delle macchine nella produzione dei beni economici, dell’attiva concorrenza che ha migliorato i processi produttivi, dell’accentramento delle fabbriche, che ha creato vasti agglomerati operai, insofferenti di un regime economico che li pone indifesi alla mercé dei loro padroni. Il Manifesto dei Comunisti muove dalla piena coscienza di questa trasformazione profonda che polarizza le forze produttive in due classi antagonistiche: la borghesia detentrice del capitale e dei mezzi di produzione e ...

Table of contents

  1. Il ritorno alla ragione
  2. Colophon
  3. Guido de Ruggiero: dall’essere al dover essere di Francesco Postorino
  4. Libertà, giustizia, democrazia. Un’altra visione del liberalismo Con una lettera inedita di Guido de Ruggiero di Francesco Mancuso
  5. Nota dei curatori
  6. Avvertenza
  7. I. Premesse filosofiche: lo storicismo
  8. II. Politica e cultura
  9. III. Orientamenti politici
  10. Appendice L’antinomia della personalità moderna
  11. Bibliografia essenziale
  12. Indice