1. Tornerai a Bunker Hill
Sfogliando il L.A. Times Sunday Book Review / stamattina / ho trovato / tre / pagine intere / su John Fante / il mio / vecchio /…e / invece di essere felice per papà / mi sono infuriato (…) / e ho pensato che si fotta il maledetto L.A. Times… / arrivano con cinquant’anni di ritardo / ormai non possono aiutarlo / ha perso e rinunciato / (…) e i Dodgers hanno fatto la loro peggiore stagione / (…) che morte schifosa / per un uomo che un tempo aveva un tale potere.
Dan Fante, 4-16-00
Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo.
John Fante, Chiedi alla polvere
Ho nostalgia dei giorni del disordine. Li rivoglio, i giorni in cui ero giovane sulla terra, guizzante nel vivo della pelle, impudente. (…) Ecco di cosa ho nostalgia, dell’interruzione della pace, dei giorni del disordine, quando camminavo per strade vere e facevo gesti violenti ed ero pieno di rabbia e sempre ponto, un pericolo per gli altri e un mistero per me stesso.
Don Delillo, Underworld
È certo, il viaggiatore che uscendo da Región pretende di arrivare alla sua sierra seguendo l’antico cammino reale – il cammino moderno ha smesso di essere tale – si vede obbligato ad attraversare un piccolo ed elevato deserto che sembra interminabile.
Juan Benet, Ritornerai a Región
Dicono che l’inverno del 1979 a Los Angeles fu particolarmente freddo. Le strade, al contrario, erano infuocate, e la città guardava con preoccupazione alla forte impennata degli indici di criminalità. Lo schiaffo del Vietnam bruciava ancora sulle guance americane, Nixon cercava di schiarirsi la profonda gola e il gruppo punk rock Dead Kennedys mandava in frantumi quel fate l’amore e non fate la guerra dei vecchi hippies californiani. Eppure sulle spiagge i biondi cuccioli del neocapitalismo continuavano a fare surf, in bermuda, attori e attrici volteggiavano di festa in festa alla ricerca di un piccolo ruolo e i giovani sedotti dal mito dell’American Way of Life lasciavano le loro case per trasferirsi sulla Costa Ovest. I Los Angeles Dodgers finirono al terzo posto della Divisione Ovest della Lega Nazionale di baseball. E Kramer contro Kramer, che vinse l’Oscar come miglior film, fu forse il più grande successo prodotto quell’anno a Hollywood, dove ancora si aggirava un attore di scarsa reputazione che stava già preparando il suo assalto alla Casa Bianca.
A pochi chilometri dalla città, seguendo la strada che costeggia le scogliere del Pacifico in direzione di Malibu (che è oggi un agglomerato di case lussuose per la gente di Hollywood ormai stanca di vivere permanentemente tra produttori, registi o attori) si arriva a Point Dume, un promontorio dove sorge, come una sorta di fortezza, una di quelle tipiche dimore circondate da un esteso terreno, con piscina, che furono costruite nel sud della California dopo la Seconda Guerra Mondiale. È il Ranch Fante, dove si era trasferita la famiglia dello scrittore John Fante nel 1952, quando l’autore viveva il suo momento fulgido di apprezzato e richiesto sceneggiatore di Hollywood. Sin dall’inizio la casa fu luogo d’incontro di scrittori, giornalisti e gente del cinema. E si racconta di rumorose baldorie e di un Fante protagonista indiscusso grazie alla sua seduttiva capacità oratoria. La famiglia adorava gli animali, e quei tanti metri quadri ricolmi di alberi che circondavano la casa erano quasi un giardino zoologico dove si accampavano comodamente cavalli, oche, galline, cani, gatti, iguana, pappagalli, tartarughe, criceti e persino un asino.
Ma le cose erano molto cambiate nel 1979. Lo studio, dove aveva trascorso tante ore a scrivere in solitudine, restava chiuso nel più assoluto silenzio perché da qualche anno Fante aveva, in buona sostanza, abbandonato qualsiasi attività legata alla scrittura. I suoi libri erano tutti fuori catalogo, e all’inizio del decennio la nuova modernità di Hollywood aveva cominciato a metterlo ai margini. Proprio lui! Lo sceneggiatore che era stato persino nominato ai Writers Guild of America!
Eppure il problema maggiore era la sua salute. A settant’anni, una forma molto grave di diabete, che mesi prima lo aveva costretto su una sedia a rotelle dopo l’amputazione di entrambe le gambe, l’aveva lasciato completamente cieco e vincolato alle cure di sua moglie Joyce. Il vecchio binocolo tanto usato per scrutare l’orizzonte dell’oceano al tramonto, inutile ora, si impolverava in un angolo. «Era una morte brutale e implacabile (…). Aveva perduto la salute e la capacità di guadagnarsi da vivere» ricorda il figlio Dan. «I conti bancari erano a secco dopo anni di malattia e a causa delle spese sostenute per cinque tremendi interventi. I suoi colleghi sceneggiatori e i suoi compagni di baldorie etiliche erano quasi tutti morti. Non gli restava nulla. E tutti noi, i medici e la famiglia, aspettavamo solo la fine»1. Le insopportabili dosi quotidiane di insulina e i frequenti e seri deliri mentali e psicologici provocati dalla cecità così sembravano pronosticare.
E fu allora che accadde il miracolo. John Fante decise che aveva ancora una storia da raccontare. Senza occhi, fece volare l’immaginazione fino alla Los Angeles degli anni trenta, a quella città che tanto aveva amato e odiato («Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia, tu, bella città») (CP), a quelle strade da cui, quando era un giovane furente e ambizioso, tante volte aveva sognato di diventare uno scrittore con passaporto verso la posterità.
Era l’ultimo sforzo di uno scrittore vero. «Tutti avevamo ceduto. Tutti tranne John Fante»2. Non poteva essere altrimenti, recupera difatti il suo alter ego preferito, Arturo Bandini, personaggio che aveva visto la luce nel racconto Sono uno scrittore di verità3 scritto intorno al 1935. Mentre cerca la sua strada a Wilmington, nella zona portuale di Los Angeles, Arturo vomita addosso a tutti coloro che incrocia frasi altisonanti che ha letto la sera prima in qualche libro di Nietzsche e, pieno di arroganza, continua a pretendere dal mondo il massimo rispetto perché lui è un vero scrittore. Nel racconto citato, quando la ragazza che corteggia lo rifiuta per un altro dicendo «non posso fare nulla, signor Bandini», la sua altezzosità lo conduce alla totale incomprensione di alcune parole pronunciate «a me, a uno scrittore, a un interprete della psicologia umana». E non lascia spazio a possibili dubbi perché, ci ricorda, «sono uno scrittore: vedo tutto con chiarezza».
Nel 1939, anno della pubblicazione di Chiedi alla polvere, libro che la critica del momento inserì tra i più rilevanti della letteratura americana, sembrava che il binomio Fante/Bandini cominciasse l’ascesa verso l’olimpo delle lettere. Ma qualche sventura editoriale, la pressione delle necessità economiche e altri dettagli che si scopriranno più avanti fecero cadere tutto nel dimenticatoio. Arturo Bandini rimase relegato in un inquietante oblio che durò quarant’anni, fino a che John Fante, costretto su una sedia a rotelle e cosciente del fatto che tutto stesse per finire, iniziò a dettare alla moglie le prime parole della sua ultima avventura.
«Il mio primo impatto con il successo non fu per nulla memorabile. Facevo l’aiuto cameriere alla tavola calda di Marx. L’anno era il 1934. Il luogo, l’incrocio fra la terza e Hill, Los Angeles. (…) Ero un aiuto cameriere veramente unico (…) poiché ero anche uno scrittore. La notizia si seppe un giorno, dopo che un fotografo ubriaco del Los Angeles Times si fu seduto al bar e mi ebbe fatto qualche scatto mentre servivo una cliente che mi guardava con ammirazione» (BH). È il primo dei numerosi fatti autobiografici che Fante cede a Bandini in Sogni di Bunker Hill, com’era già accaduto in quasi tutti i suoi scritti.
Da quella prima parola, ogni mattina, dopo la sua dose di sigarette e caffè, Joyce spingeva la sedia a rotelle del marito fino al patio e lì continuavano a lavorare. «Accadeva qualcosa di inspiegabile. Si trasformava. Era come se mio padre fosse sotto l’effetto di una pozione d’artista e non di cinque tazze di caffè nero e di mezzo pacchetto di sigarette. (…) Mio padre si voltava verso la moglie e diceva: “Allora, dove eravamo?”. Mia madre leggeva ad alta voce l’ultimo paragrafo o l’ultima pagina che gli aveva dettato il giorno prima», ricorda ancora Dan.
E allora di nuovo con Bandini o con Fante, che è lo stesso, per le strade di Los Angeles. Mentre sogna di affermarsi come scrittore o come sceneggiatore a Hollywood, vaga per la città accettando qualsiasi lavoro che gli venga offerto e dormendo nelle pensioni più economiche. La Grande Depressione sembra calpestare ogni cosa, ma lui, sebbene soffra momenti di improvviso scoramento, «Cosa sto facendo qui, mi chiesi. Odio questo posto, questa città senza amici. Perché mi hai sempre respinto come un orfano indesiderato? Non avevo pagato i miei debiti? Non avevo lavorato tanto, cercato tanto? Cosa aveva contro di me?» (BH)4, non vacilla perché quella è la città, il luogo in cui un italoamericano, figlio di un umile muratore emigrato dal sud Italia e cresciuto nella povertà, potrà trasformare in realtà il sogno americano. È la città degli angeli, è la California, terra di sole, sabbia, palme che costeggiano le strade, stelle, Hollywood, limousine… il paradiso americano.
«Una grande improvvisazione», la definì l’avvocato e scrittore Carey McWilliams, che nel tempo sarebbe diventato amico inseparabile di John Fante. Ma diede un forte impulso anche la nascente industria cinematografica americana che, poco a poco, stabilì i suoi ingranaggi in un piccolo quartiere nei dintorni di Los Angeles, Hollywood.
Nato «in un appartamento nel seminterrato di una fabbrica di maccheroni nella zona nord di Denver» (BH), era arrivato a Los Angeles senza il becco di un quattrino per cercare il suo posto nel mondo, per scappare dalla miseria che lo aveva circondato sin dall’infanzia e per sputare il suo talento in faccia all’America. Ancora una volta è la storia di John Fante, anche se non è vero che nacque in un seminterrato di una fabbrica di maccheroni. O forse sì? Perché di fatto era nato a Denver, perché da bambino, in tono spregiativo, lo avevano chiamato molte volte maccheroni e indubbiamente perché la pasta e ceci che mangiò quasi tutti i giorni per tanti anni era uno degli scarsi piatti della dieta che poteva permettersi la sua umile famiglia di emigranti.
Nel 1934, sia Fante che Bandini avevano assistito alla pubblicazione del loro primo racconto su una prestigiosa rivista letteraria, il primo sul The American Mercury e il secondo sul The American Phoenix, e con quella esperienza Arturo riesce a lavorare come correttore di bozze in una piccola e improbabile agenzia letteraria. Il suo modestissimo salario lo porta a dover dormire in ufficio perché non ha un posto dove crollare sfinito, ma poco dopo gli arriva la tanto anelata offerta di lavoro come sceneggiatore in una casa di produzione di Hollywood. «Il sole mi colpì come un grande occhio dorato e mi svegliò. (…) Mi ricordai di mio padre in Colorado, che cantava ‘O sole mio facendosi la barba (…). La città sembrava deserta, la strada era tranquilla. Mi fermai ad ascoltare. Sentivo qualcosa. Era il suono della felicità» (BH). Ebbro al pensiero di una carriera come scrittore e sceneggiatore che già intuisce inarrestabile, e all’odore di vestiti nuovi che ha potuto finalmente comprare, Bandini inizia a frequentare con timidezza i luoghi dove sa che può incontrare i grandi e un giorno scopre con enorme stupore che si è seduto nello stesso ristorante di uno dei suoi idoli letterari, Sinclair Lewis. «Esterrefatto, ho tossito nel mio bicchiere. (…) Non sono riuscito a contenermi. Senza rendermene conto mi stavo facendo largo tra i tavoli verso il più grande scrittore d’America. Si trattò di un impulso assurdo e cieco». Quando arriva vicino a Lewis, lo riempie di elogi e gli tende la mano, costui lo guarda freddamente negli occhi e gli nega il saluto. Furioso, disilluso e umiliato, chiede una matita e un foglietto a un cameriere e tra altri insulti, scrive: «Caro Sinclair Lewis, una volta eri un dio, ma adesso sei un porco. Una volta ti riverivo e ti ammiravo, e adesso sei un nulla. (…) Arturo Bandini. P.S. spero che la bistecca ti vada di traverso» (BH). Quando il cameriere porta il bigliettino a Sinclair, l’uomo si alza dal tavolo e con il tovagliolo ancora in mano si lancia alla ricerca di Bandini, ma egli fugge in fretta. In più di un’occasione, Fante riconobbe che l’episodio era reale e che le cose erano accadute esattamente come le racconta nel libro.
È il primo scontro con l’altra faccia di Hollywood, ma non sarà di certo l’ultimo. Presto si rende conto che il suo lavoro come sceneggiatore è un grande inganno, almeno per quel che riguarda il versante letterario o artistico. Difatti, nel periodo che copre il libro, riesce a portare a termine due lavori, un adattamento di Genius, di Dreiser, che non sarà mai prodotto, e Sin City, un western che passa di mano in mano e patisce numerosi cambiamenti. Quando si reca alla prima del film, scopre attonito che del suo testo originale restavano appena due righe.
Disgustato dall’ipocrisia del mondo che lo circonda, decide di allontanarsi da Hollywood e, dopo varie peripezie, torna a Boulder, in Colorado, a casa dei genitori, a casa sua. Anche se in un primo momento si sente sereno circondato dalla famiglia, con il passare dei giorni tutto torna a perdere senso e il suo unico rifugio diventa la biblioteca, dove ritrova Sherwood Anderson, Jack London, Knut Hamsun, Dostoevskij, D’Annunzio, Pirandello, Flaubert o Maupassant, gli scrittori che avevano cambiato la sua vita. Arturo sente di non appartenere ad alcun luogo, è perduto, e sembra voler scappare da qualsiasi posto. Forse questo è l’unico momento del libro in cui affiora, anche se in modo molto velato, la situazione che sta vivendo lo scrittore mentre detta il libro alla moglie. Non ha più alcun posto dove andare.
E allora Fante e Bandini tornano a Bunker Hill. Tornano nel quartiere in cui avvertirono la prima e imperiosa necessità di diventare scrittori, dove, appena arrivati a Los Angeles né il freddo né la solitudine poterono impedire che ogni notte picchiettassero sulla macchina da scrivere fino a essere vinti dal sonno in una qualunque stanza maleodorante. «Come un uccello migratore volai a Bunker Hill, al mio vecchio albergo, alla donna più gentile che avessi mai conosciuto» (BH). «Era una zona strana della città, ma mi piaceva», dice del quartiere Edward G. Robinson nel film La notte ha mille occhi (1948), «era una zona in cui nessuno ti chiedeva nulla, la gente si occupava dei propri affari e lasciava che tu ti occupassi dei tuoi», mentre Joyce e Victoria, moglie e figlia di John Fante, asserirono in un’intervista che nonostante Bunker Hill non fosse più ciò che era stata un tempo, conservava un carisma particolare e sottolinearono soprattutto che «se dovevi essere povero in qualche posto, quello era il miglior luogo del mondo. (…) Si respirava nell’aria la sensazione che qualsiasi cosa fosse possibile, una sensazione di assoluta libertà»5.
Solo, nella stanza più piccola del suo vecchio hotel, Arturo Bandini inizia a sentirsi meglio. Lascia la macchina da scrivere sul tavolo, apre la valigia, tira fuori la sua copia di Fame di Knut Hamsun, che custodisce gelosamente dal giorno in cui la rubò dalla biblioteca di Boulder, si siede di fronte al foglio bianco e soffia sulle dita. Senza bisogno d’altro, digita dei versi rubati a un altro scrittore. «Non era roba mia, ma che diavolo, bisognava pur cominciare da qualche parte» (BH).
Questo sì che è un finale puramente fantiano. Fante era ormai un uomo inerme ma Bandini è un’altra cosa, è un grande scrittore e sta per cominciare un nuovo libro. Prima della fine del 1981, Joyce Fante ha nelle mani il manoscritto definitivo di Sogni di Bunker Hill. Nel 1982, la casa editrice Black Sparrow Press decide di pubblicare il libro ma John Fante, che morì un anno dopo, non poteva minimamente immaginare che da allora tutti i suoi libri sarebbero stati rieditati, che sarebbero stati pubblicati persino i manoscritti, i racconti e le lettere che per anni aveva conservato in un cassetto, che in più di dieci paesi sarebbero apparse traduzioni delle sue opere e che lui stesso sarebbe divenuto uno dei grandi della letteratura americana.
In fondo, pensandoci bene, continua ad essere un’altra storia come tante della letteratura, una storia che comincia oltre un secolo prima nel sud Italia, a Torricella Peligna, un paesino incastonato tra i monti dell’Abruzzo.
2. Brigante o emigrante
Sono nato a Denver, Colorado …
John Fante, Sto sulla riva dell’acqua e sogno.
Lettere a Mencken 1930-1952
Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio.
Gabriele D’Annunzio, I Pastori
Noi gente delle alture abruzzesi apparteniamo ad un’altra genia. Gli abitanti delle pianeggianti distese di Lazio e Puglia, mete invernali delle nostre transumanze, ci cons...