La ribellione delle imprese
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La ribellione delle imprese

In Piazza. Senza Pil e senza Partiti

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La ribellione delle imprese

In Piazza. Senza Pil e senza Partiti

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Dopo la ribellione delle Masse, con un rovesciamento di ruoli senza precedenti la Storia ci sta ponendo di fronte alla ribellione delle Imprese. Sessant'anni fa Ayn Rand ne La rivolta di Atlante aveva previsto che – in un futuro imprecisato – sarebbe avvenuta la sollevazione dei prime movers: la rivolta degli imprenditori contro il collettivismo. Sembrava pura fantasia. Ma è ciò che sta accadendo, 60 anni dopo, in Italia. Come è potuto succedere? L'imprenditore oggi è costretto a vivere la stagione del populismo in una condizione, inedita, di "emarginazione sociale". Costretto a fare i conti con un PIL che non cresce più e con il trionfo dei partiti che difendono le ragioni della Rendita, rispetto a quelle della Produzione. Imprenditori piccolissimi, piccoli, medi e grandi non hanno più riferimenti, spettatori smarriti di una politica nazionale in cui non si riconoscono più. Poiché la loro voce non è più "privilegiata" – uno vale uno, nell'era Rousseau – sono costretti a scendere in Piazza. E molto presto potrebbero farlo, ufficialmente e stabilmente, a fianco di sindacalisti e lavoratori. La rivolta della Produzione contro la Rendita.

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Information

1.
La rivolta di Atlas

«One man can stop the motor of the world»
AYN RAND
ATLANTE REGGE LA TERRA E LA VOLTA del Cielo sulle sue possenti spalle. Sostiene il mondo, per l’eternità. Così volle Zeus, per punirlo della sua (prima) ribellione: aver partecipato alla guerra dei Giganti contro gli dei Olimpi. Ma se Atlante si ribellasse una seconda volta, oggi in Italia? Cosa accadrebbe se i 4 milioni di Atlante che reggono il Paese ogni giorno, sulle proprie spalle, decidessero improvvisamente di alzare la testa e di scrollarsi dalle spalle il loro peso?
«Stati Uniti d’America. Il Paese è al collasso economico e sociale. La disoccupazione ha raggiunto livelli allarmanti, le rivolte sono all’ordine del giorno. Allo stesso tempo le più grandi menti del tempo stanno scomparendo, volatilizzandosi nel nulla. Ma cosa è accaduto alla prima potenza economica del pianeta? Leggi assurde impediscono il libero mercato, una burocrazia mastodontica e uno Stato tiranno limitano o addirittura usurpano la proprietà privata…
Il governo afferma continuamente di battersi per favorire lo sviluppo di tutti e l’uguaglianza sociale. Ma in realtà le sue scelte stanno sgretolando le fondamenta di un Paese che è sempre stato esempio di ricchezza e prosperità, frutto dell’ingegno e dell’impegno di lavoratori e imprenditori. Tra quest’ultimi c’è Dagny Taggart, giovane vicepresidente ed erede della compagnia ferroviaria Taggart Transcontinental. Dagny combatte ogni giorno per poter tenere in piedi la compagnia, nonostante il mondo stia collassando su sé stesso. È una imprenditrice che lavora duro e che si “sporca le mani” insieme ai suoi lavoratori, che la amano e la rispettano. E ora non ci sta. Non ha faticato tanto, contro l’ottusità e l’indolenza di tanti, per nulla e non vuole assistere inerme ad un disastro annunciato di cui non è certo responsabile. Men che meno accetta l’accusa di freddezza, spietatezza ed egoismo che alla sua categoria viene rivolta dal governo, perché crede da sempre nel merito e nella valorizzazione dei talenti individuali, senza scendere a compromessi con una società castrante e miope.
Dagny decide, quindi, di opporsi ad un “regime” che si trincera dietro nobili intenzioni e altruistiche leggi ma che è, in realtà, nemico dello sviluppo e del benessere. Con lei ci sono tanti altri imprenditori, professionisti, scienziati, inventori e scrittori, menti libere ed eccelse nei vari settori dell’economia e della società americana. Sono guidati da John Galt: un brillante ingegnere, figlio di un meccanico dell’Ohio, che lavora in una fabbrica di automobili, la Twentieth Century Motor Company. John, Dagny e tanti altri “Atlanti” si ribelleranno al “regime”, organizzando il primo sciopero intellettuale della storia. E il Paese-simbolo del progresso e dell’innovazione non sarà mai più lo stesso».
Quando mi sono venuti in mente questi brani di Atlas Shrugged (La rivolta di Atlante) di Ayn Rand, che avevo letto molti anni fa con l’approccio che si riserva a un romanzo di fantascienza, ho avuto subito un brivido. E poi una sensazione di spaesamento, la stessa che si potrebbe provare a bordo di una macchina del tempo impazzita. Immagini sovrapposte, realtà e fantasia confuse in un unico canale di pensiero. Avevo realizzato all’improvviso che si stava avverando una «profezia».
Sessant’anni fa Ayn Rand aveva previsto che negli Stati Uniti, in un futuro imprecisato, sarebbe avvenuta la sollevazione dei prime movers: la ribellione contro il collettivismo degli imprenditori, stanchi di essere schiavi della collettività e di essere usurpati del pieno controllo delle loro qualità. Allora sembrava pura (anzi, delirante) fantasia, simboleggiata dalla statua di Atlas posta a guardia del Rockfeller Center a New York. E infatti la profezia di Ayn Rand non si è mai avverata negli Stati Uniti.
Non sapremo mai, dunque, cosa succede davvero quando i prime movers (come nell’aristotelico Primo Motore) – ovvero gli imprenditori e tutti coloro i quali rischiano, innovano, producono ogni giorno – decidono di scioperare? Cosa accade se gli Atlante che sorreggono la società decidono di lasciar cadere il globo dalle loro spalle, almeno per un giorno? Forse lo sapremo presto, in realtà. Perché oggi in Italia sta accadendo esattamente ciò che Ayn Rand aveva immaginato negli Stati Uniti più di sessant’anni fa.
Se fosse ancora con noi, probabilmente ne sarebbe stupita per prima l’autrice, la misteriosa scrittrice e filosofa di origine russa. Perché mentre Atlas Shrugged negli States fu un best seller sia nel 1957, al momento della sua pubblicazione, che nel 2009-2010, quando conobbe «nuova vita» ispirando il fenomeno dei Tea Party, in Italia invece nel corso di questi decenni lo hanno letto davvero in pochi… essendo peraltro uno dei romanzi più lunghi e complessi della storia della letteratura: 1200 pagine circa, scritte in modo assai poco scorrevole (basti pensare che il proclama finale del protagonista del romanzo è lungo 90 pagine!). Ma la Storia, insondabile e capricciosa, riserva spesso questo tipo di sorprese.

2.
Produzione e Lavoro come «non valori»: i danni della narrazione anticasta

«Il lavoro resta la vera priorità, la bussola di ogni nostro sforzo.
Per questo l’impegno degli imprenditori a rendere più forti le loro aziende, a investire,a cercare nuovi mercati, a innovare, a migliorare la qualità dentro e fuori la fabbrica e l’impatto con l’ambiente esterno è altamente prezioso»
(SERGIO MATTARELLA)
È SICURAMENTE LA PIÙ PERVASIVA campagna d’opinione degli ultimi decenni. Nata dalle figure professionali e dagli strumenti più antichi che si possano immaginare nell’era della piattaforma Rousseau e della Belva: due giornalisti esperti, un’inchiesta per un giornale di carta stampata e un libro. Eppure straordinariamente innovativa ed efficace. La Casta di Stella e Rizzo è diventata, e sarà ricordata negli Annales, come qualcosa di immensamente più ampio e profondo del semplice titolo di un libro. Oggi è un brand unico per popolarità, heritage e penetrazione: dal 2007 a oggi non c’è probabilmente talk show politico che non abbia discusso o almeno accennato al tema pressoché in ogni puntata, e non c’è famiglia italiana che non ne abbia discusso a tavola. È anche – addirittura – una categoria del pensiero contemporaneo, non solo in Italia: da Marine Le Pen che tuona contro «la caste politico-mediatique» alle invettive anticasta della (prima) Podemos in Spagna. Ed è infine «l’origine intellettuale» riconosciuta della forza politica che ha vinto, a sorpresa, le elezioni italiane nel marzo 2018.
Ma c’è anche un’altra faccia di questo fenomeno. Imprevedibile per molti versi, almeno nella violenza con cui si è manifestata. Sicuramente non programmata a tavolino dai suoi autori. E tuttavia terribilmente pericolosa, nonché (a oggi) inestirpabile dalla società italiana. È la gogna di un’intera elíte, o presunta tale. La continua ricerca del capro espiatorio, del nemico da abbattere, della strega da portare al rogo. Il gusto sadico del linciaggio, virtuale e non solo, senza la garanzia di un processo o almeno il beneficio di un contraddittorio.
La saga dell’anticasta in Italia ha anticipato prima, incrociato e alimentato poi l’ondata populista. Tuttavia, ogni analisi di questo tipo deve partire da un atto di consapevolezza e di realismo, che troppo spesso continua a mancare nei pensieri e negli scritti dell’intellighenzia del Paese: i problemi posti da partiti e movimenti populisti sono reali e urgenti. E aspettano ancora risposte adeguate. Prima di invocare il superamento dello schema casta versus anti-casta, dunque, abbiamo il tremendo bisogno di ammettere, come scrive lucidamente Mauro Magatti1 che «il disegno di una globalizzazione capace di sostenersi solo attraverso il mercato, la finanza e la tecnologia – al di là dei suoi nobili intenti – si è dimenticato della carne e del sangue delle persone». E che dopo circa trent’anni dall’irruzione nelle società occidentali, la globalizzazione non ha soltanto estremizzato le differenze tra ricchi e poveri – polverizzando la classe media – ma ha prodotto anche «la fine dell’idea di una dimensione economica pubblica», a causa della quale «è diventato logico pianificare la propria vita in base alla convinzione di poter contare solo su se stessi e sulla propria famiglia, e non sullo stato o su una comunità più ampia» come ha scritto Paul Mason2 osservando le dinamiche della società inglese che hanno portato alla Brexit. E dobbiamo essere consapevoli, infine, che l’individualismo spinto che ha caratterizzato il mondo occidentale nell’ultimo decennio non funziona più. Come scrive ancora Magatti, ciò che resta oggi del grande sogno dell’iper-individualismo è una sorta di «individualizzazione del conflitto». L’individualizzazione del conflitto porta a combattere una guerra privata contro tutto e tutti, nell’impossibilità di trovare una risposta alla propria insoddisfazione.
Ciò premesso per profonda convinzione (e non certo per mero esercizio retorico), rifiutare e cercare di distruggere in un unico mucchio selvaggio globalizzazione, liberismo, individualismo ed élite equivale a buttare il bambino con l’acqua sporca. Soprattutto se all’interno delle élite – per concludere la breve sequenza dei motti popolari – tutti i gatti sono neri: pubblico e privato, politica e impresa, rentiers e produttori, finanza e industria, speculatori e investitori.
Perché in Italia la furia ideologica dell’anticasta sta distruggendo inesorabilmente quel patto implicito di «solidarietà produttiva», che aveva fatto grande la piccola e piccolissima impresa italiana. Il 90% del sistema produttivo italiano è costituito da imprese con meno di 10 dipendenti: è un particolare ambiente produttivo nel quale la distanza tra imprenditore e lavoratore – nella vita quotidiana – è sempre stata assai ridotta fin quasi a scomparire. Nel segno della Produzione: non solo un obiettivo comune, da perseguire fianco a fianco e giorno per giorno, ma addirittura un set di valori comuni che affondano le proprie radici nella laboriosità tipica della provincia italiana. Peccato che tutto ciò stia svanendo, sotto i colpi della violenza ideologica dell’anticasta che ha ributtato gli imprenditori dall’altra parte del fiume: quella dei ricchi «cattivi», dell’élite che prospera a danno del popolo.
Per gli imprenditori è un cambio di campo inaspettato, che mai avrebbero immaginato. Lo è ancor di più per i piccoli e per i micro-imprenditori, che si sentono colpiti nel profondo. «Noi non ci sentiamo per nulla una élite» ha affermato il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti3, chiarendo: «lo siamo solo se il discorso riguarda il mercato, gli investimenti, la creazione di posti di lavoro». «Forse il problema dell’Italia non sono le piccole imprese ma chi ritiene che le piccole imprese siano un problema» è l’efficace sintesi del pensiero fatta da Daniele Vaccarino, presidente nazionale della CNA4. «Come si fa a non vedere che noi costituiamo l’identità dell’economia italiana, il suo fondamentale fattore di resilienza fatto di saper fare, qualità e distinzione produttiva?».
Questo strano coacervo di fenomeni sta già causando danni così profondi, che non riusciamo neanche a cogliere la loro reale portata. Non è azzardato, oggi, affermare che il loro effetto finale sulla società italiana sia una sostanziale riclassificazione del Lavoro e della Produzione. Se prima erano considerati «valori», oggi sono percepiti come «dis-valori», o ancor meglio come «non-valori» che possono essere scambiati alla pari con la rendita. Come dimostra l’onda politica, sociale ed emotiva che ha portato all’introduzione nel nostro Paese del reddito di cittadinanza.
Sotto questo profilo mi ha molto colpito la storia di Giuseppe, impiantista di 55 anni che vive e opera a Palermo. Nel dicembre 2018 ha chiuso ufficialmente la sua SRL per poter chiedere il reddito di cittadinanza. «I costi erano troppi e i guadagni troppo pochi. Quando ho saputo che c’era il reddito di cittadinanza ho deciso di fare questo passo» ha rivelato Giuseppe ad un giornalista5. Salvo precisare che, in realtà, continuerà a lavorare. Ma in nero.
Come Giuseppe, altri cittadini hanno fatto nei primi mesi del 2019 questa scelta «creativa». E anche pericolosa, in termini di competitività del sistema-Paese, visto che il reddito di cittadinanza rischia di distruggere lavoro a favore dell’assistenzialismo fine a sé stesso e di aumentare l’evasione, portandola oltre le impressionanti vette già raggiunte nel nostro Mezzogiorno. Rischio segnalato ufficialmente dalla Commissione europea, che il 7 maggio 2019 nelle previsioni di primavera ha stimato un aumento del tasso di disoccupazione in Italia dal 10,6% del 2018 al 10,9% del 2019 proprio a causa dell’introduzione di questo strumento. Intendiamoci però: tutto ciò non può essere considerato solo l’effetto del provvedimento in sé, che pure ha un...

Table of contents

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Indicazione di collana
  5. Colophon
  6. Dedica
  7. Introduzione.Perché la ribellione delle imprese?
  8. 1.La rivolta di Atlas
  9. 2.Produzione e Lavoro come «non valori»: i danni della narrazione anticasta
  10. 3.L’emarginazione sociale dell’imprenditore italiano nell’era del populismo
  11. 4.L’era dell’incompetenza (nel Paese dell’analfabetismo funzionale)
  12. 5. La Retrotopia e le sue vittime
  13. 6. La guerra semantica contro gli imprenditori: i «prenditori»
  14. 7.Gli imprenditori senza PIL. Ma la realtà è un paradigma superato?
  15. 8.L’estinzione delle élites (pro-sviluppo) e i due «peccati originali»
  16. 9.Il trionfo della Rendita sul Reddito. Chi (non) ha voglia di lavorare in Italia?
  17. 10.Quando gli imprenditori «scoprono» la Piazza. E i corpi intermedi rinascono
  18. 11.Il PIL senza partito (in Italia). Con la «sindrome di Cenerentola»
  19. 12.Il futuro dell’Europa: un destino già scritto?
  20. 13.Le vie d’uscita. Possibili
  21. 14.La rivolta degli imprenditori. Verso il primo «sciopero»?
  22. Note
  23. Bibliografia
  24. Dello stesso autore