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La corsa allo Spazio: polvere di Luna
Houston, qui la Base della Tranquillità. L’Aquila è atterrata.
Neil Armstrong, comandante dell’Apollo 11, 20 luglio 1969
HUNTSVILLE, ALABAMA, novembre 1956
Per gli annoiati ragazzi del luogo, seduti su una panchina di fronte al Russel Erskine Hotel, il passo veloce di John O’Keefe che usciva dall’albergo era quello caratteristico di uno yankee in cerca di affari. Ma c’era qualcos’altro che lo distingueva dai commercianti in attesa delle loro auto per iniziare i loro giri in quella luminosa mattina di autunno.
Qualcosa nei suoi occhi. Era sulla quarantina, ma aveva il riflesso di un adolescente. Sembrava un uomo innamorato, e in un certo senso lo era. John O’Keefe era un astronomo, e gli astronomi sono come i bambini della comunità scientifica. Per tutti noi comuni cittadini, la mezza età porta una accresciuta consapevolezza della mortalità. Ma gli astronomi pensano in eoni, che è una misura del tempo in miliardi di anni, e questo dà loro una differente prospettiva; percepiscono la sconvolgente analogia tra la durata della vita umana e quella di una farfalla che vive una sola notte.
Come Marco Polo, O’Keefe sapeva qualcosa che la maggior parte di noi comuni cittadini non sa: lui sapeva che cosa c’era là fuori, dall’altra parte della valle, oltre il bordo della galassia. O’Keefe aveva visto le stelle fucina di Orione con i propri occhi, e osservando il cielo di notte dalla cima delle montagne aveva visto dei soli, come il nostro familiare astro luminoso, nel momento della loro nascita cosmica. Sapeva che se anche solo una stella su un trilione avesse avuto un pianeta come il nostro, ci sarebbero stati dieci miliardi di pianeti come la Terra là fuori. Sospettava che non eravamo soli nell’universo.
Ma il Dr. O’Keefe non era venuto a Huntsville per parlare delle stelle, né per affari. Era lì per una riunione importante e riservata; lui lavorava per l’esercito, che lo aveva chiamato mesi prima a lavorare per l’ufficio Army Map, un’unità segreta del Corpo degli Ingegneri dell’esercito, e il suo compito era quello di scoprire dove si trovasse la città di Mosca.
La posizione geografica della capitale russa era nota con una approssimazione di un miglio o due, dato che la misura diretta non era mai stata realmente possibile. L’unico modo per effettuare una misura esatta attraverso l’Atlantico sarebbe stato quello di avere un astronomo su ogni continente il quale annotasse l’istante esatto in cui la Luna passava davanti a una specifica stella conosciuta. Dal momento che la velocità e la posizione della Terra e del suo satellite naturale erano conosciuti, il tempo che intercorreva tra i due avvistamenti avrebbe rivelato la distanza esatta tra gli astronomi.
Ma la Luna è spigolosa, rugosa, è troppo grande, ed è troppo lontana per la precisione richiesta dai calcoli. Per un missile balistico che deve colpire il Cremlino, soprattutto con una testata atomica a bordo, un errore di un miglio non poteva essere tollerato. Ciò di cui Army Map aveva bisogno era quindi una piccola Luna, qualcosa delle dimensioni di un pallone da basket per esempio, a circa un centinaio di chilometri di altezza su nel cielo.
Dal suo punto di vista personale a O’Keefe non importava più di tanto della distanza transatlantica; era affascinato dall’idea di una Luna artificiale. Ma non osava dirlo. Un paio di anni prima c’era stato un colonnello dell’esercito di nome Nickerson che si era mostrato un entusiasta fautore dei satelliti artificiali e dell’esplorazione dello Spazio, e quando aveva iniziato a parlarne con la stampa, il Pentagono lo aveva immediatamente mandato a Panama in attesa di nuovi ordini.
Il popolo americano, d’altra parte, non sapeva nulla di questo. Quando il presidente Eisenhower l’anno precedente aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero lanciato presto un satellite artificiale, aveva affermato con solennità che si sarebbe trattato di un regalo scientifico per l’umanità. In realtà sarebbe stato la perfetta soluzione di un semplice problema di artiglieria.
Dieci km a ovest di Huntsville sulla Interstate 72, O’Keefe svoltò a sinistra attraverso l’entrata del Redstone Arsenal, un comprensorio di un centinaio di chilometri quadrati di terra rossa, dolci colline e alberi di pino, che si estendeva a sud del fiume Tennessee. Era qui che l’esercito americano aveva nascosto il suo bottino più prezioso dalla Seconda guerra mondiale: un centinaio di rifugiati tedeschi chiamati il «Rocket Team».
Nella primavera del 1945, mentre l’esercito russo stava entrando in una Berlino ridotta in macerie, gli ingegneri tedeschi che avevano costruito e lanciato sull’Inghilterra i temutissimi e mortali razzi V2 stavano cercando di trovare una via di fuga verso le linee alleate attraverso la desolazione di una Germania distrutta. Si arresero tutti a un soldato semplice di Milwaukee, con ancora sotto il braccio i documenti da lavoro. Un ingegnere tedesco disse in seguito «noi disprezzavamo i francesi, eravamo mortalmente terrorizzati dai sovietici, dubitavamo che gli inglesi si potessero permettere di finanziarci, così cosa restava? gli americani».
Erano circa 120, scienziati, ingegneri e meccanici, guidati da un giovane genio di nome Wernher von Braun. Figlio di un ministro della Repubblica di Weimar, erudito, affascinante e pragmatico, egli era riuscito in qualche modo a spostare tutta la sua organizzazione attraverso la Germania pochi minuti prima dell’avanzata dei russi.
Un buon numero di persone, soprattutto gli inglesi, che si erano trovati dal lato sbagliato della V2 subendone le devastanti esplosioni, avrebbe voluto impiccarli tutti lì sul posto. Ma alcuni dei generali più lungimiranti si resero conto che quegli uomini rappresentavano gli artiglieri del futuro. Così l’esercito americano li accolse, trasferendoli nel desolato deserto sud-occidentale vicino White Sands nel New Mexico. I tedeschi avevano portato anche diversi razzi, un surplus delle V2 di guerra, che periodicamente lanciavano nel cielo assolato per mostrare agli americani che il loro lavoro progrediva e che tutto andava per il meglio. Fino a quando accidentalmente una V2 cadde in un cimitero messicano a Juarez.
Fortunatamente in quel caso le vittime erano già morte prima dell’arrivo della V2, ma ciò nonostante l’incidente aveva mosso le acque fino alla Casa Bianca; fu chiaro che von Braun e il suo Rocket Team avevano bisogno di più spazio, e così fu deciso che lanciassero i loro missili sull’Atlantico dalla costa della Florida.
Quell’incidente del cimitero, molto probabilmente più intenzionale che casuale, aveva quindi avuto come effetto collaterale anche quello di «salvare» i progettisti tedeschi dalla deprimente desolazione di White Sands. Per la quarta volta in un decennio, von Braun era andato oltre, e aveva trasferito intatta la sua enorme organizzazione, dopo aver utilizzato sino alle sue estreme possibilità un vecchio arsenale militare al di fuori di Huntsville.
Come O’Keefe, anche Wernher von Braun aveva una sua motivazione interiore, un’ossessione che soggiaceva a quasi ogni sua mossa. C’era un taccuino in uno dei suoi armadi, un piccolo quadernino foderato che portava con sé in ogni suo viaggio da Berlino a Peenemunde a Nordhausen a White Sands a Huntsville. In esso erano contenuti le bozze dei suoi progetti di una nave spaziale; li aveva disegnati quando aveva sedici anni.
Ma come O’Keefe, anche von Braun teneva la bocca chiusa circa i suoi piani per viaggiare nello Spazio. I generali dell’esercito americano erano convinti di sfruttare quel genio tedesco per i loro scopi; se avessero scoperto che era vero il contrario, magari ne sarebbe stati sconvolti così come anni prima lo fu il generale delle SS Himmler quando, troppo tardi, se ne rese conto.
A O’Keefe piaceva von Braun. La mascella squadrata da aristocratico tedesco non emanava quel senso di superiorità prussiana che invece non faceva difetto a molti dei suoi colleghi. Era aperto, accessibile, diretto, e il suo senso di meraviglia del futuro che luccicava dai grandi occhi blu era contagioso. Sapeva come motivare e far muovere le persone. Quando entrava in una stanza, c’era la sensazione che sarebbero accadute grandi cose, e quando parlava, aveva la capacità ipnotica di convincere tutti che quello che stava dicendo era terribilmente importante.
Quel pomeriggio a Huntsville nel corso della riunione interna a cui era finalmente arrivato, O’Keefe era rimasto abbagliato dalle capacità di comando di von Braun; aveva assistito a un modello di efficienza teutonica; il tedesco era abituato a gestire incontri muovendosi direttamente da punto a punto, risolvendo i problemi uno dopo l’altro. In una normale riunione scientifica cui O’Keefe era abituato, una qualsivoglia questione iniziale si sarebbe rapidamente dissolta in una serie di elucubrazioni teoriche, e le decisioni sarebbero svolazzate via come farfalle dalla stanza. Non con von Braun. Lui si muoveva attraverso l’agenda della riunione, prestabilita precedentemente, con l’approccio mentale di un comandante di carri armati: c’era stato un problema durante l’ultimo tiro di prova; erano andati persi alcuni dati verso la fine del volo; il responsabile di ogni aspetto forniva un laconico ma efficace rapporto; qualcuno consigliava di riprogettare un’antenna; von Braun concordava, annottava, impartiva direttive, passava al punto successivo.
Quando la riunione si sciolse O’Keefe, anche lui un uomo dalle qualità piuttosto dirette, era andato da von Braun per dirgli quanto fosse rimasto impressionato dall’efficacia della riunione.
Lo scienziato tedesco torreggiava su di lui, e pian piano dispiegò il suo grande, largo sorriso poi afferrò l’astronomo per un braccio. «Vieni con me. Voglio farti vedere una cosa», disse in tono confidenziale. L’ufficio di von Braun aveva l’aspetto di un laboratorio, pieno di tavoli da disegno, lavagne e modelli di razzi. Il tedesco chiuse la porta, srotolò un grande foglio sulla scrivania e di colpo O’Keefe si rese conto del perché si trovava lì.
«Questo che vedi qui è il tracciato della traiettoria di volo del missile Jupiter C dello scorso 20 settembre», disse von Braun (lo Jupiter era il razzo cui il Rocket Team tedesco lavorava ormai da mesi a Huntsville). La curva sottile sul foglio aperto sul tavolo stava a dimostrare che il missile a tre stadi aveva raggiunto un’altitudine di circa 700 miglia prima di ricadere a terra a circa 3.000 miglia di distanza. Von Braun guardò il foglio come se affondasse dentro il significato delle informazioni in esso contenute, poi disse con aria solenne. «Quel razzo sarebbe entrato in orbita se avessimo montato...