1.
Introduzione.
In nome dell’impunità
1. Un caso aperto: l’omicidio Fragalà
Otto della sera. Il profumo di una primavera precoce invade le strade del centro. La sua forza riesce ad ovattare le tante emergenze di un luogo simbolo di tanti luoghi del Sud. Avvolge i cumuli di spazzatura sparsi ovunque. I cassonetti incendiati e gli autobus che non arrivano mai. Gli edifici scolastici con il soffitto che crolla. L’arroganza dei funzionari pubblici e l’ansia dei senza lavoro. Avvolge gli ospedali e le interminabili liste d’attesa. E poi gli ingorghi del centro storico, con le macchine in seconda fila. Là dove un viale si trasforma in un vicolo cieco, e i vigili si girano dall’altra parte non potendo multare l’intera città. Ma nell’aria c’è il profumo rigenerante della primavera. A dispetto di tutto. Compresa l’indifferenza di coloro che dovrebbero intervenire e non lo fanno da troppo tempo.
Una pioggerellina fitta attutisce i rumori dei clacson. Nel gioiello barocco di piazza San Domenico l’atmosfera è elettrica. Per una sera, proprio lì si specchia l’altra faccia della città. L’appuntamento è di quelli da non perdere. Apre la Rinascente con il suo vernissage. Professionisti, commercianti, imprenditori, politici, gente comune. Tutti in fila davanti alla vetrata principale. Grisaglie, abiti da sera, ricercate acconciature e scintillanti gioielli su colli non sempre flessuosi. Mondanità uguale curiosità. Mondanità parente stretta di frivolezza. Mondanità che fa rima con visibilità. Palermo è anche questo, martedì 23 febbraio 2010.
A qualche centinaia di metri, piazza Vittorio Emanuele Orlando. Un’oasi di luce, la facciata di un palazzo. Linee architettoniche simili a edifici già visti a Milano e Catania. È il palazzo dei veleni anche per chi non ci ha mai messo piede. Il palazzo dei magistrati uccisi per avere fatto il loro dovere. Il palazzo della speranza e della rassegnazione, della riscossa e dell’impotenza. Carabinieri e polizia lo presidiano giorno e notte. Dentro tante ombre. Attorno tante ombre. Avvolgono Porta Carini, il mercato arabo del Capo, le case e i ruderi del quartiere.
Nell’ombra, a due passi dal tribunale, un uomo alto e robusto. Indossa giubbotto scuro e casco integrale. Impugna un bastone e attende guardingo. Chissà per quale motivo. Chissà chi lo manda. Chissà se è solo. Quanti chissà…
Intanto, nel palazzo davanti al tribunale, un avvocato ha concluso la sua fatica quotidiana. L’arringa in favore di una minorenne costretta dal patrigno a prostituirsi con uomini ricchi; i contatti coi colleghi per concordare le difese di “uomini d’onore” e di “malasanità”; le visite ai magistrati per spiegare le ragioni di un patteggiamento o di una richiesta di scarcerazione; i consulti con i “clienti”. Quando chiude la porta dello studio, i suoi collaboratori se ne sono già andati. Scende le scale del palazzo. Ha premura. Non vuole mancare all’inaugurazione di piazza San Domenico. Esce all’aperto. È sereno, come sempre con il suo look vagamente dandy. Pochi passi nella penombra per raggiungere il garage.
A un tratto, l’uomo con il casco gli è a ridosso. Deciso, agisce. Un colpo alle gambe e uno alla testa. E poi, ancora alla testa. Uno, due, tre, quattro… Enzo Fragalà è a terra. L’avvocato Fragalà, il politico Fragalà, è a terra, travolto da una rabbia cieca e forsennata. Una rabbia che non si placa sino a quando non annusa l’odore del sangue di un corpo esanime.
Missione compiuta. Adesso via. Bisogna sparire senza lasciare tracce.
Qualcuno ha visto. I primi soccorsi li presta un’assistente di studio rimasta nelle vicinanze. Chiama un’ambulanza. Le condizioni della vittima sono disperate. Giunge in ospedale in stato d’incoscienza. Fratture su tutto il corpo. Una vasta emorragia cerebrale. Subito in rianimazione. Tamponare, tamponare. Moglie e figli sperano con il cuore in gola. Le condizioni sono disperate.
L’avvocato non ce la fa. Smette di lottare dopo quattro giorni. Responsabili e movente dell’assassinio sono ancora ignoti. Con il sangue dell’avvocato Fragalà sono tornati gli spettri di Palermo. È solo l’inizio? Perché dopo venti giorni nessuno ne parla più pubblicamente? Si stanno riaprendo vecchie ferite?
2. Avvocati in terra di mafia
«Se hai voglia di fare l’avvocato, difendi l’imputato, non sposarne mai la causa». È il grido di un decano dell’avvocatura palermitana. Risuona in una piazza della Memoria gremita di esponenti del foro, all’indomani dell’attentato. Una piazza piena di volti pallidi e stravolti che tradiscono angoscia e disorientamento. In tanti, professionisti giovani e meno giovani, fanno appello ai principi morali. Alcuni concludono l’intervento con una promessa: «Non ci faremo intimidire». Toni e contenuti non lasciano dubbi. L’agguato del 23 febbraio viene vissuto come una minaccia che incombe su tutto il foro. Come un monito. Chi rispetta la deontologia, chi combatte solo coi codici, senza “prestazioni straordinarie”, senza “mestare nel torbido” rischia grosso. Rischia di essere preso a legnate.
Qualcuno ha visto l’agguato. Due testimoni oculari. Ma non possono riconoscere il volto dell’assassino. Il casco integrale non glielo permette. Parlano di un complice. Uno che lo avrebbe aiutato a scappare, con una moto. Le modalità dell’aggressione fanno pensare a una spedizione punitiva. I cronisti giunti sul luogo del delitto esprimono le prime impressioni. Hanno in mente un altro pestaggio palermitano del 2008. Un pestaggio videoregistrato. Vittima un certo Giovanni Bucaro, punito per avere maltrattato la sua compagna. Il giudice di primo grado dice che la ragazza è figlia dello storico boss mafioso Gaetano Fidanzati.
Gli interrogativi sull’assassinio dell’avvocato Fragalà si accavallano. Come sempre il movente è decisivo. La ritorsione di un cliente insoddisfatto? O una questione strettamente personale? La vendetta di qualcuno che si sente danneggiato da una difesa? O un’esecuzione che già prevede il depistaggio? Un qualcosa che riguarda la professione? O il retaggio dell’esperienza politica? Ad esempio un segreto conosciuto, per avere fatto parte di delicate commissioni parlamentari di inchiesta per il caso Mitrokin o per le “stragi”, che oggi ritorna attuale?
La griglia delle ipotesi è aperta. Siamo nell’embrione di una indagine. Nulla può essere trascurato, neanche il particolare apparentemente più insignificante. Eppure, alcuni ne sono certi. Gli “uomini d’onore” non c’entrano. Non è mafia. La mafia spara; usa il coltello. No. Sarà uno squilibrato. Uno che non ha accettato una detenzione che l’avvocato aveva escluso. C’è chi dice agli investigatori: «Andate a guardare tra i fascicoli dei “revocati”».
Da Cosa Nostra «i professionisti, gli avvocati in particolare, sono percepiti come un potere che per prestigio e relazioni dispone anche di una cortina di protezione naturale». È il pensiero di un esperto osservatore palermitano, Enrico Bellavia. Sarebbe il crollo del mito dell’intangibilità. Anche se gli avvocati che si occupano di certi processi a Palermo da sempre rischiano la vita, l’eventualità che si passi dalla minaccia all’esecuzione viene comunque valutata con molta cautela. «Durante il maxiprocesso, i boss tirarono a sorte disputandosi il bersaglio più opportuno, difendendo ciascuno il proprio legale e provando a far fuori gli altri. Un segnale, serviva un segnale, questo sì, ma furono valutate e soppesate tutte le conseguenze che potevano derivarne. Poi l’idea fu abbandonata».
Oggi gli avvocati che difendono imputati di mafia si rendono conto di essere in una posizione scomoda. Le leggi e i giudici dopo le stragi del 1992 hanno ridotto gli spazi di efficacia di una difesa corretta. Un penalista di lungo corso del capoluogo siciliano, Nino Caleca, due giorni dopo l’agguato a Fragalà, sul quotidiano «la Repubblica», spiega:
La necessità di sconfiggere la mafia ha dato vita a delle innovazioni sia nel diritto penale sostanziale che in quello processuale, che si applicano nell’Italia meridionale e in Sicilia perché qui si celebrano processi contro la criminalità organizzata. Diciamo che è un diritto penale legato all’emergenza del territorio. Faccio alcuni esempi: nel caso del diritto sostanziale, per legge ormai le pene sono altissime, per i reati associativi superano i trent’anni e la prescrizione praticamente non esiste più. Per il 416 bis c.p. è addirittura di quarantacinque anni. In questi procedimenti la custodia cautelare è decisamente lunga e obbligatoria, non ci sono né domiciliari né misure alternative. In sede di esecuzione, il 41 bis è ormai inespugnabile per qualunque difensore e per questi tipi di reati non può essere concesso alcun beneficio al detenuto. Insomma è ovvio che simili innovazioni hanno intaccato la “visibilità” del difensore agli occhi dei clienti.
Parole chiare. Quando si tratta di mafia il difensore deontologicamente corretto è fatalmente poco incisivo. E la sua immagine professionale inevitabilmente sbiadisce. Soprattutto agli occhi dei capi di Cosa Nostra. Di quelli che pretendono condotte che si spingono abbondantemente oltre i confini della legge. Un po’ come le prestazioni del consigliori di don Vito Corleone nel Padrino di Mario Puzo. L’ineffabile Tom Hagen, fratellastro di Sonny, Fredo, Connie e Micheal. Un tipo sempre pronto a fare pressioni indebite su testimoni e consulenti; a corrompere politici e funzionari pubblici per anticipare le mosse dell’autorità; a tenere relazioni segrete con poliziotti e senatori; a preparare operazioni per riciclare denaro sporco. Uno che arriva addirittura a ordinare il suicidio a un suo vecchio “amico” intenzionato a parlare davanti a una commissione di inchiesta.
Il consigliori non è una costruzione cinematografica. O il frutto della fantasia di autori di romanzi criminali. Di che pasta sono fatti certi avvocati ce lo hanno detto le sentenze dei tribunali di Napoli, Palermo e Reggio Calabria. Alcuni giudici hanno spiegato come “prestazioni particolari” di professionisti senza scrupoli possano intralciare la giustizia e favorire gli “uomini d’onore”. Ma, nel panorama forense, quelle restano eccezioni. La maggior parte degli avvocati è corretta. E, bisogna aggiungere, nonostante le pressioni dei boss. Sì, perché molti di loro hanno un’idea distorta del ruolo del difensore. Confondono il mandato professionale con i vincoli tra sodali della stessa organizzazione criminale. E quindi si aspettano dai difensori “qualcosa di più”. Un qualcosa che va oltre la legge. Un qualcosa che la maggior parte dei professionisti non è disposta a offrire.
È un aspetto da non sottovalutare nella ricerca del movente dell’omicidio Fragalà. Una pista che non può essere liquidata con sufficienza. La vittima potrebbe avere pagato il fatto di aver considerato “non ricevibile” il diktat di qualche “mammasantissima”. Il non avere “fatto abbastanza”.
Per questo c’è una vicenda di qualche anno fa che torna attuale. Il suo contenuto sta in un’informativa del SISDE. Siamo nel luglio del 2002. Secondo le strutture preposte alla tutela della sicurezza interna, sette avvocati-parlamentari erano in pericolo. Molti boss si sentono abbandonati al loro destino. E puntano il dito sui sette, ritenuti responsabili delle centinaia di ergastoli fioccati sulle loro spalle nella seconda metà degli anni Novanta; e anche delle condizioni carcerarie da “sepolti vivi”. Il documento del SISDE non si basa su teoremi. Attinge da fonti precise. Microspie piazzate nel carcere di Novara che avevano captato dialoghi sospetti tra detenuti. E una missiva recapitata, ai primi di luglio del 2002, all’allora segretario dei Radicali Italiani, Daniele Capezzone, da alcuni esponenti del gotha criminale italiano.
Insomma, la rabbia dei capi-mafia aveva già incrociato i destini del professionista ucciso. Le minacce trapelate dai boatos di “radio-carcere” nel 2002 non erano mai state revocate.
3. Lettere dal carcere
Cara Anna, questa sera sono molto triste. Ho bisogno di bere qualcosa di caldo. Ma non posso. Non capisco. Qui, a una certa ora, mi vietano persino di scaldarmi una tazza di latte con il mio fornellino. Cosa c’è di male? E poi come faccio ad andare avanti in questo modo? Venti ore al giorno in una stanza di dieci metri quadrati scarsi. Per trecentosessantacinque giorni all’anno, rischio di impazzire. Mi dicono che sono pallido, scavato in viso. Il cielo lo vedo poco più di un’ora al giorno. E mi è passata pure la voglia di guardarlo. Mi manca il tuo sorriso, Anna. Quanti rimorsi. Mi hanno arrestato otto giorni dopo il nostro matrimonio. Tu già aspettavi Nico, ricordi? Che pena incontrarsi una volta al mese. E solo per qualche ora. Non posso telefonarti. Non è stato possibile neppure quando stavi per partorire. Sei stata brava Anna, hai affrontato tutto da sola. Oggi eri bellissima e se penso che puoi tornare solo tra quattro settimane mi sembra un’eternità. Mi conforta che ritornerai ancora insieme a Nico, al mio tenerissimo Nico. Sta crescendo. Per fortuna, oggi, quando mi ha visto mi ha riconosciuto. Finalmente mi ha sorriso. Parlagli di me, ti prego. Ripenso a lui e non riesco a trattenere le lacrime. Non ho potuto gioire mentre spegneva le candeline del suo terzo compleanno. E so già che non potrò accompagnarlo al suo primo giorno di scuola. Diventerà grande senza suo padre. Oggi, avrei voluto baciarlo, accarezzarlo, sentire il suo odore. Ma quel maledetto vetro me lo ha impedito.
Vi voglio bene e vi penso tantissimo.
Tuo Vincenzo.
Tanti pensieri per il detenuto nei “gironi” del 41 bis. E sono pensieri pesanti. Non solo la carriera criminale ma anche la vita di tutti i giorni, il futuro, gli affetti. I capi cosca si riempiono la bocca con parole come fratellanza, giuramento di sangue, solidarietà; e poi è questo il destino dell’“uomo d’onore”? L’“uomo d’onore” prima di tutto è un uomo. Non può essere abbandonato al suo destino. Può cedere. Può decidere di “pentirsi”. Non fosse altro, per tornare ad abbracciare suo figlio. E Cosa Nostra questo non può permetterselo.
Tanti boss rimuginano sugli anni Ottanta. Certi pericoli non si correvano. A quel tempo chi veniva arrestato godeva di un trattamento particolare all’Ucciardone. Qualcuno lo chiamava “Hotel Ucciardone”. Dalla galera i capi cosca ordinavano aragoste e champagne. E spesso, commissionavano omicidi, continuando a gestire i picciotti. Ma quei “privilegi” sono finiti con le stragi del 1992.
Il carcere duro era nato come misura di emergenza. Una risposta immediata ed eccezionale alle stragi, destinata a durare per un tempo limitato. Ma dopo dieci anni il 41 bis è sul punto di diventare una misura permanente. Difficile trovare politici disposti ad ammorbidire il trattamento carcerario dei “seminatori di morte”. Gli stessi che a suo tempo hanno fatto certe promesse non si espongono in Parlamento. Temono di perdere consenso. Temono la reazione dei parenti delle vittime, pronti a denunciare come cedimento dello Stato ogni minimo segnale di “retromarcia” nella repressione. Temono di finire nelle maglie di qualche inchiesta per avere “favorito la mafia”.
Cosa Nostra non può stare a guardare. E infatti la risposta non si fa attendere. Scende in campo Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina. Proprio lui, che ha sulla coscienza decine di omicidi, fa il proclama. Il 12 luglio del 2002 dall’aula bunker di Trapani, durante un processo in Corte di Assise, tuona:
A nome di tutti i detenuti in atto ristretti presso questa casa circondariale dell’Aquila, e sottoposti al regime speciale del 41 bis dell’ordinamento penitenziario: siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati, e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche.
4. Agguato alla giustizia?
Colpo di scena. La mafia non parla per proclami. Era successo una volta al maxiprocesso. Ma solo per prendere le distanze dall’omicidio di un bambino. Bagarella infrange una regola aurea. Lo fa perché la posta in gioco è alta. E il nervosismo cresce. Accusa: «Strumentalizzate i detenuti per calcolo elettorale». Però non indica chi strumentalizza, quali siano le forze politiche. È volutamente ambiguo. Chi deve capire capirà. Tra i politici e tra i magistrati. Ma anche tra gli esponenti di Cosa Nostra; quelli in libertà che non curano a dovere la posizione dei carcerati. Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, ad esempio.
Una cosa è certa. «C’erano delle aspettative di Cosa Nostra su questa vicenda del 41 bis, che evidentemente sono state disattese», dichiara il Procuratore aggiunto di Palermo, Guido Lo Forte, al «Corriere della Sera» (15 luglio 2002). Naturalmente è da vedere quali aspettative e se si fondano su promesse vere o presunte. O su semplici congetture, molto forzate, degli “uomini d’onore”.
Ma l’iniziativa di Leoluca Bagarella non è la voce di uno che grida nel deserto.
Passa qualche giorno e trecento detenuti sottoposti al 41 bis organizzano una protesta vibrante. Pretendono che sia “umanizzata” la loro condizione. Per dieci giorni rifiut...