Con Flaiano e Fellini a via Veneto
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Dalla dolce vita alla Roma di oggi

Giovanni Russo

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Dalla dolce vita alla Roma di oggi

Giovanni Russo

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Attraverso lo sguardo dell'autore, osservatore e protagonista al tempo stesso, rivive in queste pagine la Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, con i suoi fermenti culturali e artistici, immortalata nel suo momento di massimo splendore e rievocata poi fino agli inizi del Duemila. È il racconto di quella stagione irripetibile che fu il secondo dopoguerra, con i caffè di via Veneto e di piazza del Popolo, salotti all'aperto e laboratori di idee, ritrovo di tanti attori, cineasti, pittori, scrittori e giornalisti. Russo ricorda le passeggiate con Carlo Levi, la frequentazione con Flaiano (di cui descrive ombrosità e passioni), le bizzarrie e il genio di Fellini (innamorato quanto lui della Roma del tempo). E poi ancora una galleria di personaggi che vanno da Maccari a Guttuso, da Moravia a Pasolini, dalla Magnani a Brancati ad altri ancora. La Dolce vita romana ripercorsa non con rimpianto ma con nostalgia, sentimento che si addice a un periodo tanto ricco di vitalità e di personalità d'eccezione.

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Information

Year
2017
ISBN
9788849853551

I comunisti del Trionfale

Il nuovo quartiere

Il quartiere nuovo, giorno per giorno, l’ho visto crescere, allargarsi, trasformarsi, popolarsi. Sulle aree, dove prima sorgevano le fornaci di mattoni dai muri di color rosso fumo, sormontate dalla tornita ciminiera, sono stati costruiti i primi palazzi con balconi a spigoli o in forma di conchiglia o, semplicemente, rettangolari come nei disegni dei bambini. Conosco tutte le fasi attraverso le quali passa la fabbrica di un edificio di sette o otto piani, fasi accompagnate da diversi rumori: i tonfi e i risucchi dei palificatori; i cigolii delle carrucole elettriche; il rombo delle molazze che preparano un cocktail di cemento, terriccio e pietrisco.
Quando venni ad abitare qui, erano finiti solo tre palazzi accanto ai quali c’era un gruppo di casupole, distrutte, un giorno, in poche ore, dal maglio delle demolitrici. In esse abitavano famiglie di poveri operai e di immigrati che coltivavano, nel terreno circostante, un po’ di ortaggi. Non si vedevano mai uomini forse perché, fornaciari o manovali, uscivano all’alba per andare al lavoro e ritornavano quando era già buio. La mattina, le donne stendevano i panni e cucinavano i cibi, d’estate, all’aperto su treppiedi: bimbi selvatici scorrazzavano per le balze dell’altura alla cui sommità si scorgeva allora una rustica casa antica (nascosta adesso dalle fabbriche) dove, così si racconta, un manipolo di garibaldini sostenne uno scontro con i francesi durante l’assedio alla Repubblica romana nel ’49.
Fino a pochi mesi fa, prima che la macchina scavatrice assalisse il poggio, veniva ogni domenica a pascolare un piccolo gregge di pecore, custodite da un pastorello vestito di una tuta celeste. Quelle pecore erano uno strano spettacolo: arrivavano di lontano perché il quartiere sta nascendo in un vallone dimenticato misteriosamente nel cuore della città, una dimenticanza spiegabile, forse, solo con il caotico modo con il quale Roma si estende.
Gli animali, dal vello grigio di polvere appiccicatasi durante il notturno cammino, si spargevano a brucare l’erba che ora non cresce più sui fianchi mangiati dalla roditrice meccanica. Il pastorello era distratto dai giochi dei ragazzi nei cortili dei palazzi sottostanti; una mattina fece amicizia con loro e scherzarono, insieme, a inseguire le pecore.
I primi abitanti del quartiere sono stati gli inquilini dei nuovi appartamenti che si possono acquistare anche anticipando un quarto o un terzo del prezzo e pagando il resto con cambiali. La domenica si svolge come un pellegrinaggio. Arrivano da tutte le parti della città, attirati dagli annunzi economici de «Il Messaggero», gli aspiranti proprietari: sposi freschi o coppie di borghesi anziani accompagnate dai figli più grandi. Davanti all’“ufficio”, alloggiato al pianterreno di un edificio ancora in costruzione, in un vano imbiancato da una mano di calce e arredato con un tavolino e con due o tre sedie, li aspettano i costruttori, con il volto atteggiato a cordialità ma gli occhi avidi.
I costruttori sono, quasi tutti, ex muratori divenuti, in seguito, appaltatori o sono commercianti arricchitisi durante la guerra e dedicatisi con fortuna alla piccola speculazione edilizia. Grossolani e ignoranti, ma attivissimi, durante la settimana si aggirano attorno ai loro cantieri sorvegliando le maestranze, facendo attenzione che non si sprechi un granello di arena, controllando continuamente il numero dei mattoni, cercando di risparmiare anche mezzo chilo di cemento, scegliendo le vernici meno costose anche se meno resistenti, palpando le imposte di legno greggio che un pittore renderà civettuole e attraenti. Ma, la domenica, mettono l’abito della festa e si piantano sulla soglia dell’ufficio, davanti al quale nella via, in cima a un palo, è inchiodato un cartello con la scritta: «Vendonsi appartamenti di due, tre, quattro camere e servizi. Massime facilitazioni di pagamento». È quest’ultima frase che attira i compratori, quasi sempre impiegati o professionisti, trasferitisi a Roma nel dopoguerra quando era più acuta la crisi degli alloggi. Essi pensano alla lunga schiavitù di un’umiliante coabitazione e balena nella loro mente la possibilità del riscatto insieme con quella di soddisfare l’aspirazione di chi è stato padrone, al paese d’origine, di una casetta o di un po’ di terra: ritornare a essere proprietari. Perciò non desiderano che cedere alle lusinghe e convincersi che il “tricamere bagnocucina”, di cui non hanno potuto vedere che i muri greggi e dove hanno camminato su uno strato di polvere e fra detriti di legname o di mattoni, sia una casa degna di un lord. I contratti si concludono in mezz’ora. Il giorno dopo, il compratore vende i titoli di Stato in cui ha investito i risparmi, accumulati a prezzo di tante piccole rinunce alle piccole gioie della vita o parte allegro per il paese a svendere la casa e il campo. Maestro negli allettamenti e nel tessere le lodi delle comodità e delle bellezze dell’alloggio, era un tizio, chiamato “il commendatore”, una specie di intermediario, uomo di gradevole aspetto, con un grosso naso, che usava abiti sportivi e, in attesa della domenica, trascorreva la settimana passeggiando in compagnia di un setter, una bestia vivace, che correva a fiutare nei mucchi di rifiuti dei cantieri, ma era in cattivi rapporti con i cani da guardia, che non l’avevano in simpatia. Del resto, la stessa antipatia esisteva tra “il commendatore” e i costruttori, che si rivolgevano a lui per un complesso di inferiorità verso i clienti i quali, visitando la casa, criticavano la disposizione delle stanze, discorrevano sull’arredamento (antico o moderno?), suggerivano strane modifiche, così costose che i costruttori, pensando alle cambiali, s’irritavano e rifiutavano bruscamente di accettarle. “Il commendatore”, invece, sapeva tener testa ai discorsi e destreggiarsi. Da circa un anno, però, con il cane, la “giardinetta”, la moglie e una collezione di quadri antichi da lui valutata in molti milioni, “il commendatore” è scomparso dal quartiere. I costruttori avevano imparato le sue malizie e non chiedevano più i suoi servizi, risparmiando così la provvigione.
La facciata non è stata ancora dipinta di rosa, di celeste o di giallo; mancano i battenti del portone; l’ascensore non è stato montato nella gabbia; dalla fossa, scavata davanti al palazzo, dove gli operai del gas incanalano la conduttura, esala il puzzo della fogna, ma già arrivano i neoproprietari a occupare l’appartamento; essi accendono, la sera, le candele con la felicità dei ragazzi, come ai tempi dell’oscuramento: d’inverno patiscono il freddo e si assorbono l’umidità delle pareti. Ogni giorno, davanti ai portoni, autocarri scaricano comodini e credenze, reti metalliche e materassi, lampade e macchine Singer per cucire, i fornelli della cucina e la carrozzina per il neonato.
Dopo un mese, cominciano a giungere i primi negozianti di generi alimentari che aprono panetterie, salumerie, macellerie, fiaschetterie; più tardi si azzardano, timidamente, i barbieri, un parrucchiere per signora, gestori di bar o di lavanderie, un fotografo. In uno sgabuzzino trova posto per sé e per la numerosa famiglia un ciabattino calabrese.
Animati dalle più ambiziose speranze, costoro si annunciano con volantini pubblicitari imbucati nelle cassette postali e sono i più servizievoli e cortesi negozianti di Roma. Anche i portieri, in maggioranza ex contadini o ex operai provenienti dalla provincia, che hanno versato ai costruttori una discreta somma per ottenere il portierato, si sforzano di usare le migliori maniere.
Dopo qualche mese, però, dovendo dar retta a tanti padroni di solito nervosi e preoccupati delle scadenze delle cambiali, imparano a dare ragione a tutti e, rapidamente, diventano ipocriti, pettegoli e pigri.
I negozianti, terminato il giro mattutino delle massaie per la spesa, si annoiano per il resto del giorno. I clienti, anche se posseggono la macchina, stringono la cintola, consumano solo l’indispensabile e il commerciante, carico di debiti, finisce, spesso, per abbandonare la partita e liquidare il magazzino. Le saracinesche chiuse sono molte: sono calate sui sogni di ex commessi o di ex garzoni che avevano giocato la carta dell’indipendenza.
La vita del quartiere è regolata dal sibilo delle sirene dei cantieri che stabiliscono l’inizio, le soste e la fine del lavoro e urlano, a intervalli, a cominciare dalle sei di mattina, rompendo il sonno degli impiegati due ore prima dell’orario di ufficio. Manovali e maestri-muratori siedono a mezzogiorno nelle vie, all’ombra, e addentano enormi filoni di pane innaffiando, ogni tanto, la colazione con sorsate di vino rosso. È l’unico momento di pace sonnolenta prima del tramonto, senza stridori di seghe elettriche o tonfi di calcinacci o improvvisi rimbombi di martellate. Davanti alle loro piccole officine, meccanici ed elettricisti riparano automobili e motorette guaste. Sono gli abitanti più allegri del quartiere perché sono giovani e perché a loro il lavoro non manca. Chiacchierano con i clienti.
La domenica vengono nei quartieri, oltre ai compratori, anche i parenti o gli amici dei neoproprietari a visitarne le case. La chiesa più vicina confina con un quartiere popolare e, a Messa, i borghesi si mischiano agli operai e agli artigiani. L’anno scorso il vecchio parroco ha chiesto un aiuto e gli hanno mandato un prete giovane che sa spiegare il Vangelo con parole eloquenti.
Le strade non sono ancora “riconosciute” dal Comune e, d’inverno, non essendo asfaltate, s’impastano di mota e si riempiono di pozzanghere. Gli abitanti del quartiere, percossi dalla pioggia e dal vento camminano in punta di piedi per inzaccherarsi il meno possibile. D’estate le folate di vento, che s’ingolfa nel vallone, spazzano violentemente le vie perché gli edifici, allineati l’uno dietro l’altro per guadagnare pure un metro di spazio, non fanno da ostacolo. Una polvere marrone si posa sui vestiti e la pelle sudata.
La sera, la luce dei pochi fanali è debole e la gente, rincasando, affretta il passo per timore di cattivi incontri. Quando fa buio il quartiere nuovo è melanconico: le poche insegne al neon dei bar, dei “Sali e tabacchi” e della farmacia mandano un livido splendore, da fuoco fatuo. Dietro le persiane, dagli interstizi delle quali trapelano fili di luce gialla, le famiglie si stringono attorno agli apparecchi televisivi. A notte tarda il silenzio profondo è rotto dai latrati dei cani dei cantieri e dai passi dei guardiani che, quando il tempo è mite, passeggiano per tenersi svegli. Quando fa freddo accendono, con le schegge dei pali o delle tavolacce, fuochi che lampeggiano nel buio e fanno pensare di essere capitati in un accampamento, in una prateria del Far West.
[Luglio 1956]

Il lettore di Gogol

È venuto a montare l’impianto della luce nella nuova casa. Lavora con una rapidità e precisione non comuni. Le mani non esitano mai nell’avvolgere i fili, nel manovrare le pinze o il giravite. In due ore ha sistemato tutti i lampadari. Nello studio si sofferma a guardare i libri, indica un volumetto di racconti di Gogol di un’edizione popolare. «Ce l’ho anch’io – mi dice – Gogol mi piace; quando posso, leggo». Nei suoi modi rispettosi c’è un’ombra di orgoglio. Salvatore non è un operaio come gli altri, non ha padroni, non ha bisogno di guadagnarsi la giornata per mangiare. Ha ventisei anni. Sette anni fa si presentò all’impresario di un cantiere edile e gli propose di affidare a lui solo l’impianto elettrico del palazzo. Poiché anticipava anche le spese per il materiale l’imprenditore accettò. Di solito questo è lavoro per tre o quattro operai. Il palazzo era ancora umido di calce e Salvatore aveva già finito di collocare negli appartamenti i fili sotto traccia. Quest’anno si è comprato la 500 C.
Si avvicina al balcone. Di fronte stanno sorgendo altre case. I picchettatori, avvolti per la vita da una fune attorno a un palo innalzano il “castello” da cui passeranno i muratori che fabbricheranno i muri. Un giovane volteggia, agile e sicuro, più in alto degli altri, compiendo la parte più rischiosa dei lavori. «È mio fratello», m’informa Salvatore. Sotto di lui un uomo dai capelli quasi grigi incrocia con vigorosi colpi di martello le estremità di due pali e un giovane, in maniche di camicia, dirige i manovali che spingono le carriole colme di cemento liquido e lo versano sui mattoni allineati nelle gabbie di ferro. Salvatore me li mostra col dito: «Mio padre e un altro fratello», mi dice con orgoglio.
Sono sette in famiglia e tutti nel mestiere. Il padre amministra gli introiti con sistema patriarcale. Quando un palazzo è finito comprano un appartamento, più grande o più piccolo a seconda del guadagno. Ne posseggono in comune già dodici. Questa informazione me l’ha data, con una punta d’invidia nella voce, l’affrescatore mentre stava rifinendo l’intonaco. Hanno acquistato tre stanze anche nel mio palazzo, a pianterreno, e ci abitano perché è vicino ai cantieri. Se ne andranno quando la loro attività li obbligherà a spostarsi altrove. La madre di Salvatore, che, ogni giorno, dopo pranzo si siede davanti alla porta a sferruzzare, secondo un’antica abitudine paesana, è una donna ancora giovane con anelli alle dita e orecchini d’oro.
Salvatore non vuole parlare di politica. Ma, come tutti, è sensibile alle lodi. Quando si accorge che è stimato per le sue qualità diventa meno reticente. Non è comunista, ma neanche sta per i padroni. Perciò sciopera con gli altri e così suo padre e i fratelli. In politica, come in tutte le cose, crede solo a quello che vede. Gli altri operai lo hanno in simpatia, anche se da quando s’è comprato la macchina, lo trattano quasi con rispetto; alcuni però lo evitano e Salvatore non capisce se per invidia o per improvvisa diffidenza.
L’opinione prevalente dei condomini su Salvatore può essere sintetizzata da un colloquio, sorpreso in ascensore, tra il cavalier C., un funzionario dello Stato, e il dottor G., impiegato di un’azienda privata. «Le pare bello – chiedeva il cavaliere – dover coabitare con certa gente? Eppure, quando firmai il contratto, mi garantirono che gli appartamenti erano stati venduti solo a persone perbene». Disse proprio “perbene”. Il dottor G. assentì con un «purtroppo non ci si può mai fidare». La signora dell’ultimo piano, una sessantenne dai capelli malinconicamente tinti di rosso, palesò la sua solidarietà, accennando energicamente col capo, mentre una scaglia di cipria si staccava dalla guancia. Il cavaliere C., il dottor G., come tutti, meno Salvatore, non hanno ancora pagato i loro appartamenti: al posto dei soldi hanno rilasciato cambiali. Salvatore era giù, al portone. Era sabato sera, cominciava la festa. Vestito di blu, una cravatta argentata, volto cotto dal sole, fresco e agile, stava montando in macchina. Andava a vedere, come al solito, un film di prima visione. Sere fa è stato a Frascati a ballare in un locale di lusso, in abito da sera, insieme con tre amici. C’era anche il ministro Pella. Si sono annoiati e sono usciti presto. Sono andati a bersi due litri di vino bianco all’osteria.
[Dicembre 1954]

I comunisti del Trionfale

Ero entrato nella Sezione attratto da quell’aria di festa e di “avvenimento straordinario” che si notava in maniera così appariscente. Bandiere rosse con la falce e il martello in oro, trofei di bandiere della pace dai colori dell’iride, un tricolore pavesavano gli ingressi davanti ai quali ero abituato a vedere, ogni mattino, il solito gruppetto di persone che leggeva «l’Unità» spiegata nelle vetrine. Un uomo, pettinato un po’ “all’artista”, giacchetta blu su pantaloni grigi e sandali gialli, stava affiggendo su un cartellone, che annunziava una mostra di fotografie del quartiere, un quadro su cui erano dipinte, con toni cupi, delle baracche. È un pittore iscritto alla Sezione. “Realista mistico”, così, quando lo conobbi, mi disse di essere stato definito dal critico di un settimanale letterario borghese. Un lungo striscione portava a grandi caratteri la scritta: «VII Congresso della Sezione del Pci del Trionfale - Per una politica nuova di pace e di progresso». I manifesti, che tappezzavano i muri anche dei dintorni, avvertivano i cittadini che i comunisti del quartiere avrebbero discusso sulla interdizione delle armi atomiche e di sterminio, sulla lotta per la pace, l’aumento dei salari, l’aumento dei prezzi, la lotta alla disoccupazione, la soluzione dei problemi della casa e la trasformazione di Roma da città burocratica in centro industriale. Conobbi il segretario della Sezione dopo aver dato uno sguardo alla mostra, una raccolta di fotografie delle baracche che sorgono in alcune zone del Trionfale come in altre della città e delle nuove case costruite vicino a esse. Un contrasto su cui insistevano le didascalie.
Erano forse per lui i primi veri momenti di riposo dopo mesi di intenso lavoro per organizzare il Congresso che si sarebbe tenuto venerdì, sabato e domenica. Di statura media, la faccia di ragazzo puntiglioso, gli occhi cerulei, fermi, i capelli biondo scuro, sembrava di età inferiore ai trentadue anni che mi disse di avere. Lavora all’Atac come conducente di filobus. Per poter assolvere agli impegni della carica, che ricopre da quattro anni, si è accordato con il collega in coppia con lui, per fare sempre il turno di mattina: così, pomeriggio e sera, può stare in Sezione; ma il suo vero mestiere è quello del tornitore e gli piacerebbe poter ritornare a farlo. Lo disse, così mi parve, con l’accento ingenuamente retorico di chi ci tiene a far sapere l’appartenenza a una classe che è considerata l’aristocrazia del partito. «Quando fui eletto avevo paura di non essere all’altezza del compito – mi confidò – ma con l’aiuto dei compagni e del partito, ci sono in gran parte riuscito. Io – aggiunse – debbo la mia educazione, la mia elevazione al partito». Ascolterò anche da altri dichiarazioni come questa, di affetto e di gratitudine verso il partito. Era orgoglioso della mostra fotografica, che completava e perfezionava, secondo le raccomandazioni del centro, la manifestazione congressuale.
Subito mi disse che il Congresso era pubblico, come, aggiunse, tutte le attività dei comunisti che non hanno nulla di segreto da nascondere; e che io ero liberissimo di assistervi. Mi fece entrare nel suo ufficio dove, dietro la scrivania, era appeso un quadro dei risultati delle votazioni riportati nel quartiere da tutti i partiti il 7 giugno. Quei risultati sono presenti così, in ogni momento, alla sua memoria. Parlammo delle elezioni.
«Sa quanti voti ottenne al Trionfale, nel 1946, il Blocco del Popolo? 6.750 contro oltre 19.000 della Democrazia cristiana. Il 7 giugno il Pci ne ha avuti, da solo, 8.500, quasi 5.000 il Psi; nel complesso, poco meno dei 12.000 voti democristiani. Gli altri partiti, tranne le destre, hanno fatto passi indietro. La Sezione è passata, nello stesso tempo, da qualche centinaio a 1.700 iscritti. Come vede, andiamo sempre avanti. E, se le cose continueranno in questo modo, alle prossime elezioni raddoppieremo i nostri voti. Naturalmente il partito ha la sua base soprattutto fra gli operai e gli artigiani, la gente del popolo, ma ha anche notevole forza nel ceto medio. Su ventinove cellule, tra maschili, femminili e aziendali, otto sono composte da elementi della piccola borghesia: impiegati di banca, piccoli commercianti, bottegai, avvocati, anche avvocati – ed ebbe un sorriso indulgente – che hanno solo un difetto, quello di parlare troppo. Insomma la composizione della Sezione riflette, abbastanza fedelmente, la struttura sociale del quartiere». Come un ufficiale che, comandato di occupare, in guerra, un terreno nemico, ne schizza sulla carta la posizione, così il giovane tranviere comunista mi disegnò su un foglio un cerchio che divise in settori corrispondenti alle varie zone del quartiere e di ognuna mi illustrò la prevalente condizione economica e sociale. Mentre parlava mi passavano davanti agli occhi le grigie case popolari, la via Andrea Doria e le adiacenti che risuonano, fino al tardo mattino, delle voci del grande mercato; banchetti di frutta e verdure, generi alimentari, articoli di vestiario a poco prezzo. Tra questa folla rumorosa sferragliano gli antichi tram (i tram sono stati sostituiti, da due anni, dai filobus) che salgono e scendono da Monte Mario. In queste sere archi di lampadine colorate rompono il buio del quartiere, non certo privilegiato dall’illuminazione comunale, per la festa imminente della Madonna delle Grazie. D’inverno, dopo le ventidue, calano oscurità e silenzio. Sul selciato, al posto delle bancarelle, resta un tappeto di cartacce mosse dal vento, di torsoli, frutti marci. I pochi bar, dove si gioca al Totocalcio e si discute di politica, sembrano isole di luce, occhiaie al neon spalancate nel volto buio del quartiere. Attorno a questo nucleo centrale, nella Valle dell’Inferno, sulle pendici di Monte Mario, le catapecchie dei lavoratori a giornata, dei disoccupati immigrati dall’Abruzzo e dal Meridione, accanto agli scatoloni di cemento dei nuovi palazzi che i comunisti chiamano “di lusso”, abitati da borghesi che, spesso, si sono indebitati fino ai capelli per realizzare il sogno della casa.
“Ecco – mi stava dicendo il segretario – le parrà strano ma proprio tra i “baraccati” è più difficile penetrare, mentre ci siamo accorti, con sorpresa, che nelle zone nuove, che avevamo trascurato, abbiamo raccolto molti voti di simpatizzanti che non conosciamo a...

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