Ndrangheta
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Ndrangheta

Edizione aggiornata

Enzo Ciconte

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Ndrangheta

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Oggi la ´ndrangheta è la mafia più forte, più flessibile, più dinamica e più affidabile nel traffico internazionale della droga, la più radicata in tutte le regioni del centro e nord d'Italia e nel mondo. Si infiltra nell'economia in tempi di crisi, si riunisce con gli antichi riti in nome dei cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso a Polsi nell'Aspromonte, così come a Paderno Dugnano in provincia di Milano o a Singen in Germania. È la mafia meno studiata e più misteriosa, che ha cercato di muoversi al riparo dei riflettori, anche se negli ultimi anni ha richiamato l'attenzione di tutti con l'omicidio Fortugno e con la strage di Duisburg. Enzo Ciconte racconta la storia degli uomini d'onore calabresi dall'Ottocento ai giorni nostri. Descrive la struttura familiare dell'organizzazione, la cultura, l'importanza dei battesimi, il rotagonismo nella stagione dei sequestri di persona, le relazioni con il mondo dell'economia, i rapporti con la politica, la partecipazione alle logge deviate della massoneria e le relazioni molto fitte con cosa nostra, con la camorra, con la sacra corona unita.

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Information

ISBN
9788849833249

Parte quarta
Sotto i riflettori

Un abbagliante fascio di luce

L’OMICIDIO FORTUGNO e la strage di Duisburg sono due fatti enormi ed eccezionali nella storia antica della mafia calabrese che sorprendono e stordiscono per la loro violenza e per le modalità con le quali sono state eseguite. L’effetto immediato è stato quello di far salire la ’ndrangheta sul proscenio mediatico.
Televisioni e giornali italiani e stranieri per giorni e giorni si sbizzarriscono nel descrivere i fatti e nel raccontare una mafia ancora in larga parte sconosciuta e poco compresa nella sua vera natura.
«Chi ha organizzato ed eseguito l’eccidio [di Duisburg] non ha previsto la sovraesposizione mediatica ed investigativa che ne è seguita» – ha scritto Vincenzo Macrì in una relazione del 2008 per la DNA – e per questo motivo la strage «può essere definita un momento di grave debolezza interna ed esterna della ’ndrangheta di San Luca».
Nonostante le tante cose scritte o mandate in onda negli anni successivi a Duisburg, non sono molti coloro che sono disposti a credere che la mafia calabrese possa esser diventata davvero la regina del narcotraffico europeo sostituendo, anzi surclassando, l’antica nobiltà mafiosa di Cosa nostra.
Né sono molti coloro che riescono ad accettare l’idea che la forza della ’ndrangheta risieda nella sua capacità di amalgamare e fondere le ’ndrine costruite su basi familiari e attività tradizionali – violente, selvagge, ataviche, grondanti sangue in faide infinite che si rifanno ai codici più antichi – con la capacità di girare per il mondo, organizzare un imponente traffico di stupefacenti, stringere relazioni ed alleanze con chiunque – nel mondo della politica, della finanza, delle professioni, dell’imprenditoria – sia utile ai loro affari.
La ’ndrangheta ha anche la capacità di riciclare immense quantità di denaro. I pastori e i tamarri analfabeti si sono trasformati nel corso di due generazioni in moderni imprenditori del crimine transnazionale con la laurea, i vestiti griffati, le automobili di grossa cilindrata, la valigetta firmata sempre a portata di mano per prendere l’aereo.
Bisogna osservare bene questa realtà illuminata a giorno. Un fascio di luce continua a scrutarla, ed allora è il momento di scandagliarla in profondità; ci attendono delle sorprese, perché non è tutto fermo o immobile come a volte può apparire ad uno sguardo superficiale.
Si stanno producendo sommovimenti, si scompongono e ricompongono nuovi equilibri che non riguardano più solo gli assetti interni della ’ndrangheta, ma le relazioni con chi è fuori, con l’arcipelago immenso, ancora tutto da scoprire, delle contiguità e delle protezioni nella politica, nelle professioni, in settori degli apparati dello stato che l’hanno fatta crescere e diventare forte. Il segreto e il tesoro della ’ndrangheta sono in questo arcipelago e sono custoditi molto gelosamente.
Bisogna evitare di lasciarsi prendere la mano dalla cronaca quotidiana o spicciola, o di farsi distrarre dalla strabiliante cattura di un latitante o dalla fantasmagorica scoperta di un covo nascosto con grande professionalità.
È bene avere lo sguardo lungo perché in questo modo sarà possibile cercare di cogliere la permanenza di antichi caratteri e cercare di valutare le nuove tendenze che si stanno delineando e i nuovi scenari che già si riescono ad intravedere.

Rosarno è nostro

«Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro… sennò non è di nessuno». Così parlava un giovane dei Bellocco il 21 giugno 2009; il colloquio avveniva a Granarolo dell’Emilia dove si erano riuniti in tutta fretta i Bellocco, originari di Rosarno, per decidere su una questione che per loro era di tale rilevanza da spingerli a riunirsi a casa di uno dei familiari che lì risiedeva perché era stato affidato in prova ai servizi sociali.
Parole chiare, nette, inequivocabili che mettevano in luce la cultura mafiosa, il senso del dominio, del comando, del controllo del territorio, della proprietà considerata intangibile in maniera assoluta, anzi esclusiva.
Parole che esprimono le ragioni di un attaccamento al territorio, di un’identificazione delle ’ndrine con i luoghi dove sono nate e si sono sviluppate; sono parole utili per comprendere le ragioni profonde, ancestrali, che ancora in quest’alba del nuovo millennio spiegano la capacità di rigenerazione di una cultura che fa della permanenza sul territorio e del suo controllo una ragione di prestigio, di potere, di sopravvivenza, di vita.
Quella cultura è stata presente – forse non egemone – nei fatti del gennaio 2010 quando s’è sparato contro gli immigrati ed è stata portata avanti una vera e propria caccia al “negro”. I titoli dei giornali nazionali del 10 gennaio, oltre a quelli locali, sono eloquenti. Tra gli altri, quello di «la Repubblica»: Fuoco sugli immigrati in fuga; «Corriere della Sera»: Rosarno, caccia agli immigrati; «il Fatto Quotidiano»: Pulizia etnica.

A San Luca un megaschermo controlla
il via vai delle persone

I carabinieri che nel febbraio del 2009 a San Luca arrestarono Giuseppe Nirta scoprirono in una stanza un megaschermo con il quale era possibile scrutare quanto avveniva in un intero pezzo del paese. Nirta probabilmente era preoccupato e temeva di essere scoperto, ma quell’enorme apparato di sorveglianza non serviva solo per protezione personale, ma anche per controllare il via vai delle persone, gli incontri casuali e quelli precedentemente stabiliti, la vita quotidiana, i sorrisi, gli sguardi obliqui, le risate, i malumori; in una parola: i gesti più naturali che giorno dopo giorno e più volte in una giornata si possono fare solo quando non si sa di essere spiati o controllati.
Il controllo ossessivo del territorio è una caratteristica che continua a sopravvivere in tempi di globalizzazione e di forte arricchimento dei mafiosi.

La Piana è cosa nostra

La concezione di predominio assoluto e la necessità di affermare una visione proprietaria erano diffuse e circolavano non si sa più da quanto tempo in tutti gli ambienti mafiosi e negli immediati dintorni.
Ce ne dà la conferma un episodio davvero singolare. Il 2 dicembre 2007 due persone sono intercettate mentre parlano. È una telefonata particolare perché il colloquio avviene su una linea intercontinentale.
Si sente una voce dall’accento calabrese dire: «La Piana è cosa nostra facci capisciri… il Porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi, insomma! Hai capito o no? Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi». A parlare così è un personaggio molto noto, è Aldo Miccichè, vecchio esponente democristiano riparato in Venezuela dove fa il mediatore d’affari e l’organizzatore politico a favore di candidati della destra politica italiana.
Il suo interlocutore è Gioacchino Arcidiaco, cugino di Antonio Piromalli, il figlio del famoso Giuseppe, rispettato capo della ’ndrina. Arcidiaco parla con Miccichè e gli chiede consiglio; ha bisogno di suggerimenti, di indicazioni perché non sa come regolarsi: deve incontrare un personaggio importante della politica italiana, il senatore Marcello Dell’Utri, per prospettargli delle situazioni che stavano a cuore alla famiglia Piromalli.
L’orgogliosa rivendicazione di Miccichè solo a prima vista può apparire una smargiassata o una vanteria; in realtà non fa che testimoniare un dato di fatto di cui i mafiosi sono consapevoli e che non cercano di occultare.
Del resto, un episodio simile si era verificato alcuni anni prima quando un emissario dei Piromalli era andato a Milano a reclamare il rispetto degli accordi che gli ’ndranghetisti affermavano di avere sottoscritto con Angelo Ravano che nel frattempo era morto. Ad un dirigente della società che lavorava a Gioia Tauro per costruire il porto disse come se fosse la cosa più normale del mondo: «noi siamo là, viviamo là, abbiamo il passato, il presente, il futuro».
Agghiacciante, ma vero almeno per il passato ed il presente; per il futuro la partita è ancora del tutto aperta.

Occupato ogni metro dell’autostrada del sole

La persistenza della signoria territoriale non è solo la riaffermazione d’una antica cultura che esalta le proprie radici e la tradizione, ma è anche una necessità derivante dall’accumulazione del denaro che si può ottenere solo se si governa un determinato territorio.
Sul tracciato dei lavori dell’autostrada del sole che non sembrano avere mai fine, è continuato il controllo ferreo delle famiglie mafiose che esercitavano la loro indiscussa signoria su quei territori.
Non era pensabile che le ditte nazionali potessero lavorare indisturbate senza pagare il pedaggio. Ne andava di mezzo il prestigio e la capacità di controllare il territorio tanto è vero che, come ha notato Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, alle ’ndrine ancora una volta importava «dimostrare che “a casa loro” non si facesse nulla contro la loro volontà».
Non sono cose nuove, si sapevano già; come s’è visto nelle pagine precedenti, c’era un controllo delle ’ndrine reggine. Eppure, il racconto fatto da un collaboratore di giustizia, Antonino Di Dieco, contiene delle novità e ci consegna una mappa diversa da quella conosciuta in precedenza perché alle famiglie reggine già presenti nei cantieri a partire dagli anni sessanta del Novecento, si sono aggiunte quelle delle province di Vibo Valentia, Catanzaro e Cosenza.
Guardando questa nuova mappa si può notare come la vera novità rispetto al passato sia costituita dal controllo che si effettua oramai dappertutto; si può dire: da svincolo a svincolo.
Non c’è più un chilometro libero. Dagli anni sessanta ad oggi le ’ndrine non sono rimaste ferme e hanno raggiunto il centro e il nord della Calabria; hanno occupato ogni metro della Salerno Reggio Calabria.
Hanno condizionato i tempi e i ritmi dei lavori, hanno lucrato il 3% dei capitolati d’appalto per i lavori vinti dalle grandi imprese del nord che hanno nascosto la tangente pagata con il meccanismo delle sovrafatturazioni. Era il cosiddetto «costo sicurezza».
Una sicurezza pagata a caro prezzo con la «tassa ambientale», con la scelta di far lavorare imprese amiche a danno di tutte le altre. Era un sistema che funzionava a meraviglia.
Passano i decenni, ma le grandi imprese vincitrici degli appalti, come sempre tutte del nord, continuano a foraggiare le ’ndrine.

I candidati li facciamo noi

Un’altra vicenda particolarmente significativa della volontà degli ’ndranghetisti di condizionare tutto quanto si muove nel loro territorio, si verifica durante le elezioni regionali del 2010.
Giuseppe Pelle sarebbe diventato capo della famiglia dopo la morte di suo padre Antonio, il famoso Gambazza, e la cattura dopo una decennale latitanza del fratello primogenito Salvatore. A casa di Giuseppe Pelle c’è un via vai di candidati che cercavano voti per essere eletti in consiglio regionale.
I magistrati hanno disposto intercettazioni ambientali in casa Pelle, e così è stato possibile ascoltare le cose dette dagli ’ndranghetisti e dagli uomini politici. La vocazione totalitaria della ’ndrangheta emerge dall’affermazione di uno ’ndranghetista che ad un certo punto mostra tutto il suo disappunto, anzi la sua insofferenza per il fatto che fossero i partiti a scegliere i candidati: «è una cosa che dobbiamo gestire noi in tutto il nostro locale, nel paese nostro dobbiamo gestircela noi, no che la gestiscono loro».
Secondo costui, all’interno del locale dove i mafiosi hanno la signoria territoriale i candidati da inserire in lista avrebbero dovuto essere scelti da loro, non dai partiti. Insomma, il controllo territoriale in questa concezione non pare avere limiti e dovrebbe arrivare fino al punto da condizionare i partiti, la loro vita interna. Quello che accade in quella casa è molto istruttivo, e non solo per la pretesa di condizionamento totale della vita di quel territorio. È uno spaccato di quanto sta succedendo e di come sia mutato il rapporto della politica con la ’ndrangheta in alcune aree della Calabria di oggi.
Per intanto sono gli uomini politici che vanno dallo ’ndranghetista; non sono più – come succedeva un tempo – i mafiosi ad offrire i loro servigi agli uomini politici. Il rapporto s’è capovolto mostrando le difficoltà della politica e la forza della ’ndrangheta. Uno ’ndranghetista dice: «loro hanno bisogno di noi».
Un’affermazione semplice, ma carica di significati. L’uomo non si sbagliava perché a casa Pelle c’era una processione di candidati, come se ognuno di loro non avesse fiducia nelle proprie forze o in quelle del partito che lo aveva candidato.
Scrive il Gip di Reggio Calabria Roberto Carrelli Palombi: Giuseppe Pelle «riceveva tutti ed a tutti manifestava la propria disponibilità a concedere l’appoggio elettorale dell’organizzazione, riservandosi poi di verificare lo spessore politico di ogni candidato e le sue effettive possibilità di elezione».
Il bastone del comando era saldamente in mano a Pelle e i candidati presenti a casa sua testimoniavano l’umiliazione di chi si recava a chiedere voti senza avere la certezza di poterli realmente ottenere. Un incontro non si negava a nessuno, e così tutti erano contenti; Giovanni Ficara, uno dei partecipanti, dice: «a tutti gli diciamo sì e poi votiamo a chi vogliamo noi».

Quelli di sinistra è inutile che glieli portiamo

Le intercettazioni sono una miniera di informazioni, di spunti. Ad un certo punto, andati via i questuanti, si discuteva la qualità degli stessi; i candidati non erano tutti uguali per i mafiosi. La distinzione c’era, eccome se c’era!
Ficara diceva che era meglio sostenere candidati di destra, altrimenti era più complicato far convogliare i voti su di loro. S’informava della collocazione politica di un candidato: è a «destra lui no?... Centrodestra... No, per il fatto che…là quando vedono di sinistra è capace… è inutile che glieli portiamo». Destra e sinistra non sono la stessa cosa; i mafiosi, a quanto pare, sanno distinguere e, potendolo fare, preferiscono la destra.
Chi scegliere tra i tanti postulanti? Non è compito di facile soluzione perché in ogni comune ci sono troppe liste e i candidati sono un numero spropositato; i partiti «sono sempre di più». I colloqui sono molto istruttivi anche per la caratura dei personaggi politici che parlano, tutti professionisti e qualcuno con esperienze politiche rilevanti come Santi Zappalà in quel momento sindaco di Bagnara calabra e consigliere provinciale di Reggio Calabria per il centro destra.
Tra i due si stabilisce un vero e proprio accordo. Pelle garantisce un consistente pacchetto di voti nella zona jonica, Zappalà promette una «corsia preferenziale» per assicurare “lavoro” e inoltre s’impegna a far ottenere un trasferimento in un carcere calabrese a Salvatore Pelle.
Zappalà è chiaro nel suo dire: «Vediamo se possiamo trovare un accordo, se ci sono le condizioni». L’uomo è ambizioso, vuole affermarsi ai primi posti, fra i primi eletti. «Io faccio una... una straordinaria, come si dice... affermazione... elettorale, no? Per arrivare sicuramente nei primi tre». Punta in alto, sa di poterlo fare e sa quel che dice; infatti si sbaglia di poco perché risulterà il qu...

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