La dirompente illusione
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Il cinema italiano e il Sessantotto 1965-1980

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La dirompente illusione

Il cinema italiano e il Sessantotto 1965-1980

About this book

Pur sovrastata da ideologie e rituali politici ormai quasi incomprensibili, l'esigenza di creare un legame diretto tra lotta politica e realtà esistenziale è stata l'elemento davvero innovativo del Sessantotto. L'originalità del libro consiste nel ricostruire le vicende di quest'utopia mediante un nuovo modo d'utilizzare il cinema. Come appassionato di cinema, l'autore ha avvertito un'istintiva insofferenza per la tendenza a estrapolare dai film i riferimenti a fatti e modelli socioculturali d'immediata rilevanza storica, ignorando o trascurando gli aspetti più coinvolgenti ed emozionanti per lo spettatore. Attraverso l'analisi approfondita di sei film di forte valenza artistica, il libro vuole mostrare la straordinaria capacità del cinema di cogliere il duplice effetto della "irruzione della vita quotidiana nella lotta politica": non solo il dirompente impulso conferito alla mobilitazione collettiva, ma anche la pericolosa illusione che la lotta politica possa risolvere i problemi esistenziali degli individui.

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CAPITOLO 1

Marco Bellocchio, I pugni in tasca 1965

Le reazioni del pubblico e della critica
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, alla sua uscita nel 1965 I pugni in tasca ha avuto uno scarso successo di pubblico (148 milioni di lire), molto meno di quello ottenuto da La Cina è vicina nel 1967 (566 milioni). Ha cominciato ad avere una grande fortuna solo a partire dal 1968, quando è stato visto come una straordinaria anticipazione della contestazione studentesca.
Fin dall’inizio I pugni in tasca ha avuto invece un’eco profonda, suscitando forti contrapposizioni, nell’ambito delle istituzioni cinematografiche (festival, scuole di cinema, critica) e tra gli appassionati di cinema (cinephiles).
Incredibilmente il film non è stato ammesso in concorso alla Mostra di Venezia, ma è stato proiettato solo fuori concorso il 3 settembre 1965 in una piccola sala, che allora fungeva da salon de refusés1. Subito dopo il rifiuto di Venezia il film è stato immediatamente inserito in concorso al festival di Locarno (luglio 1965), dove ha vinto la Vela d’argento per la migliore regia.
Fin dalle prime apparizioni ai festival e nelle sale, la critica si è fortemente divisa. Da un lato il film è stato accolto con grande entusiasmo, soprattutto dalle riviste più innovative e radicali (come «Filmcritica», «Cinemasessanta», «Cineforum»), al punto d’essere considerato il più importante esordio nel cinema italiano dopo Ossessione di Luchino Visconti (1943). Dall’altro lato è stato invece aspramente criticato e liquidato con sufficienza, soprattutto dalle riviste più ortodosse, come «Bianco e Nero» e «Cinema Nuovo»2.
Il dibattito su I pugni in tasca ha travalicato però immediatamente l’ambito cinematografico, assumendo valenze culturali e politiche più ampie, soprattutto per quanto riguarda la violenza dell’attacco contro la famiglia: basti citare l’intervento di vari intellettuali prestigiosi – come Mario Soldati, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino – e l’entrata in campo di riviste nettamente schierate politicamente, come «Rinascita» e i «Quaderni piacentini»3.
L’ambientazione claustrofobica e i «frammenti realistici»
Pur volendo dare una rappresentazione radicale della crisi della famiglia, paradossalmente il film non è ambientato in una grande città, dove sarebbero stati ben visibili i cambiamenti provocati dal «miracolo economico», la radicalizzazione dei conflitti generazionali e la nascita delle culture giovanili. I pugni in tasca è stato ambientato invece a Bobbio, un piccolo borgo in provincia di Piacenza, in gran parte all’interno di una villa di campagna isolata. In altri termini, in un contesto in cui la «grande trasformazione» sociale e culturale a cavallo degli anni ’50 e ’60 risultava molto attenuata, quasi impercettibile.
Senza dubbio questa scelta fu dovuta anche a motivi autobiografici e finanziari, nel senso che, da un lato, Bobbio e la villa di campagna sono i luoghi reali dell’infanzia e della giovinezza di Bellocchio; e dall’altro lato il film è stato prodotto con un budget esiguo, che ha imposto di ridurre le spese, e di girarlo in gran parte nella casa di famiglia.
L’ambientazione in un contesto isolato e claustrofobico non è dovuta tuttavia solo a motivi autobiografici e finanziari, ma soprattutto a una scelta stilistica antinaturalistica: nel senso che il film vuole concentrare l’attenzione sul modo in cui la crisi della famiglia è percepita e vissuta soggettivamente dai giovani, tralasciando deliberatamente i fattori oggettivi della crisi, pur avendone ben presente la rilevanza. Contrariamente a quanto è stato spesso sostenuto, non si tratta solo di una rottura formale con la tradizione neorealista del cinema italiano, ma di una scelta stilistica fortemente connessa a un nuovo modo di concepire la crisi della famiglia che, come vedremo in seguito, era tipico della nuova cultura giovanile emersa a cavallo tra gli anni ’50 e ’60.
Pur avendo riconosciuto e apprezzato l’originalità della scelta stilistica compiuta da Bellocchio, alcuni critici hanno sostenuto che essa non escludeva affatto la capacità del film di dare una rappresentazione precisa ed efficace della vita di provincia dell’epoca4. La formulazione più lucida di questo punto di vista è stata data da Pier Paolo Pasolini in una famosa corrispondenza avuta con Marco Bellocchio, subito dopo l’uscita del film:
È insieme, credo, con il film di Bertolucci, il primo caso di un film italiano che sia andato al di là del neorealismo, come sono andati al di là del neorealismo certi film francesi o certi film inglesi […].
È vero, il suo film non è un film realistico, però c’è l’esperienza neorealistica che non è affatto lasciata da parte, dimenticata, è assimilata; c’è un certo modo di vedere mettiamo la scena del ballo – i ragazzi che ballano in quel night-club di provincia – certe corse in macchina, la breve scena in cui i due fratelli stanno ad osservare delle prostitute, ecc. ecc., sono echi stilistici della esperienza neorealistica5.
Recentemente la critica cinematografica ha ripreso e sviluppato le intuizioni di Pasolini, sostenendo che il film riesce a dare una rappresentazione della vita di provincia dell’epoca6.
L’elemento più rilevante e consistente a questo riguardo non è costituito però tanto da singole scene – in particolare quelle riguardanti l’auto, le prostitute e la festa da ballo – quanto piuttosto dal personaggio di Augusto, presente in gran parte del film. Egli incarna perfettamente le caratteristiche di una piccola borghesia di provincia ambiguamente e furbescamente a cavallo tra arretratezza e modernità, che mira a un moderato adattamento, intessuto di conformismo e d’ipocrisia. Ciò emerge non solo nell’atteggiamento ambiguo e ipocrita assunto rispetto ai progetti omicidi di Alessandro, ma anche nella classica scissione tra donna angelicata e donna puttana:
Al fratello maggiore, Bellocchio attribuisce il ruolo dell’italiano medio, che sogna di sistemarsi, andando a vivere in città con la fidanzata e sposarsi: porta con sé le ipocrisie e le tare sessuali di una società tipicamente maschilista in cui una reale emancipazione e maturazione sul piano della parità dei sessi costituisce ancora un miraggio. Un ragazzo che sfoga le proprie pulsioni sessuali non con la fidanzata, ma con una prostituta7.
Senza nulla togliere alla rilevanza della rappresentazione della vita di provincia che si è cercato di evidenziare, tuttavia non si deve perdere di vista il fatto che si tratta solo di «frammenti», che assumono valenze diverse, più ampie e complesse, non appena li s’inserisca nella struttura complessiva del film.
Ciò vale anche per il personaggio di Augusto, nonostante esso sia ben più consistente e rilevante di altri «frammenti»: se non si isola, ma lo si pone in rapporto con la ribellione di Alessandro, ci si rende subito conto che Augusto non è solo un elemento di rappresentazione realistica del conformismo e dell’ipocrisia della piccola borghesia di provincia, ma serve soprattutto a far percepire l’oppressione esistenziale da cui nasce la ribellione di Alessandro. Nelle numerose dichiarazioni rilasciate a proposito de I pugni in tasca, Bellocchio si è mostrato molto consapevole dei limiti della caratterizzazione sociale d’Augusto. In particolare in un’intervista a «Filmcritica» del 1965 ha riconosciuto con grande lucidità che, rispetto alla consistenza e alla complessità di Alessandro, Augusto è senza dubbio un personaggio troppo lineare e trasparente, che «si può far rientrare in un discorso di denuncia abbastanza tradizionale»8.
La rappresentazione della vita di provincia presente ne I pugni in tasca ha però anche una valenza metaforica. Già al momento dell’uscita del film Mario Soldati l’aveva colta con grande acutezza:
Certo il film di Bellocchio è forse il film più internazionale che sia stato girato negli ultimi anni in Italia: tanto è vero che ha fatto successo prima fuori che da noi. Al tempo stesso, è impossibile immaginare un film dove l’ambiente provinciale sia rappresentato con maggiore rispetto della realtà, con più meticolosa precisione. L’internazionalità si raggiunge attraverso la realtà, e non attraverso la retorica. È probabile che il film di Bellocchio sia simbolico di tutta una classe italiana, per non dire, addirittura, di tutta l’Italia: ma si tratta di un simbolo poetico, e cioè di un simbolo, in qualche misura involontario9.
Molti anni più tardi Sandro Bernardi ha individuato con ancora maggiore precisione la valenza metaforica della rappresentazione della vita di provincia presente ne I pugni in tasca, alla luce di alcuni risvolti autobiografici:
Parte […] da se stesso, dalla sua esperienza provinciale (piacentina), dal senso di isolamento che ne deriva. La dimensione della provincialità è appunto la lontananza, l’essere difficilmente raggiungibili da tutto, e semmai essere raggiunti solo da onde senza vento, da ripercussioni attenuate: una dimensione adolescenziale, un mondo sospeso, in attesa […]. Temi piacentini, ma anche temi universali, per l’ispirazione ai problemi generali dell’adolescenza, ai sentimenti ambigui che la caratterizzano10.
Gli eccessi patologici
La scelta stilistica antinaturalistica compiuta da Bellocchio risulta evidente non solo per l’ambientazione del film in un contesto isolato e claustrofobico, ma ancora più per una rappresentazione fortemente patologica della crisi della famiglia. Questo secondo aspetto ha suscitato più disorientamenti e perplessità del primo. Una parte della critica, sia pure minoritaria, è arrivata a sostenere che gli «eccessi patologici» danneggiano il film, poiché limitano fortemente la credibilità e la rappresentatività della critica della famiglia11.
Questa tesi potrebbe essere valida se il film intendesse dare una rappresentazione realistica delle patologie provocate dall’oppressione familiare. Ma non è affatto così. Le tare fisiche e psicologiche mirano solo a rappresentare metaforicamente in termini molto più generali la sofferenza esistenziale di chi ha perso o sta per perdere la capacità di esprimere le proprie energie vitali.
L’epilessia d’Alessandro – che si manifesta più volte nel film, culminando nel mortale attacco finale – rappresenta molto efficacemente la sua situazione esistenziale. In primo luogo è una malattia che si manifesta in modo improvviso e intermittente, in cui quindi normalità e patologia si alternano ancora tra loro. In secondo luogo gli attacchi d’epilessia esplodono ogni volta che Alessandro si è spinto troppo oltre nel lasciare emergere le proprie reali esigenze vitali: come se le emozioni più profonde non potessero più essere «contenute» all’interno del corpo, sottoponendolo a violente convulsioni. Come vedremo, le valenze metaforiche dell’epilessia emergono con particolare forza nella scena finale del film. Lo stesso Bellocchio ha fornito alcune interessanti delucidazioni a riguardo, in un’intervista alla rivista «Filmcritica» del 1965:
[...] l’epilessia acquista prima di tutto un significato di scusa; per averla, Alessandro si sente esonerato da qualsiasi dovere. La malattia è la giustificazione migliore perché di solito non si richiede all’ammalato una presenza morale, ma ci si accontenta che sopravviva. È chiaro che se Alessandro non fosse stato epilettico si sarebbe creato degli altri alibi; in questo senso, ripeto, ne I pugni in tasca l’epilessia è soprattutto il simbolo di questa ipocrisia esistenziale.
D’accordo. Ma perché proprio l’epilessia? Perché è una malattia figurativamente così evidente, immagino…
Appunto. L’epilettico è una persona normale in tutto e per tutto e perfettamente responsabile; tranne che soffre periodicamente di crisi incontrollabili dove, per un tempo variabile, perde la coscienza. La crisi epilettica è assolutamente imprevedibile; sorprende e ci trova impreparati; l’impreparazione, il non aver tempo di prepararsi è l’aspetto che più mi interessa dell’epilessia12.
La «patologia» d’Alessandro non si manifesta tuttavia solo nell’epilessia, ma soprattutto nella sua follia omicida, che lo spinge a eliminare tutti i «pesi morti» della famiglia. Quest’aspetto de I pugni in tasca richiede p...

Table of contents

  1. La dirompente illusione
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione
  5. CAPITOLO 1
  6. CAPITOLO 2
  7. CAPITOLO 3
  8. CAPITOLO 4
  9. CAPITOLO 5
  10. CAPITOLO 6
  11. CAPITOLO 7
  12. CAPITOLO 8
  13. CAPITOLO 9
  14. CAPITOLO 10
  15. CAPITOLO 11
  16. CAPITOLO 12
  17. CAPITOLO 13
  18. Filmografia
  19. Bibliografia