Sfide
Claudio Petruccioli, Stefano Ceccanti, Enrico Morando
Claudio Petruccioli
Il senso della sovranità e delle riforme: appunti per il riformismo che verrà
Per cominciare, una citazione: «I professori tedeschi di diritto pubblico… scrivono una quantità di opere sul concetto di sovranità, ma il più grande professore di diritto pubblico risiede a Parigi». Non si tratta di Habermas che parla con entusiasmo di Macron; è una lettera di Hegel del 1807 e si riferisce a Napoleone. Insomma, la questione della sovranità e del “diritto pubblico”, fra Francia e Germania, ha una lunga storia. Fine della citazione.
Macron: un discorso sulla sovranità
Il discorso di Macron alla Sorbona (26 settembre 2017) è un discorso sulla sovranità. Biagio De Giovanni nel suo Elogio della sovranità politica ci ricorda, qualora lo dimenticassimo, che quello sulla “sovranità” è il discorso sulla politica; la politica si fonda sul riconoscimento della sovranità e sull’esercizio della sovranità. Del resto, Giorgio Tonini ha incardinato il suo intervento in questo volume sull’affermazione che la storia della democrazia moderna è la lunga storia della sovranità.
Alcuni fanno distinzione fra la “sovranità” e altri “poteri” che sfuggono alla sovranità stessa, in particolare quelli economici o quelli – oggi – della comunicazione elettronica. È utile, dunque, precisare che quando parliamo di sovranità intendiamo il tipo (e la quota) di potere che coincide con la statualità e che, fondamentalmente, si esprime attraverso la politica. De Giovanni, nelle sue riflessioni, sottolinea appunto questo aspetto; e mi sembra che, nella discussione che è stata al centro dell’Assemblea di Libertà Eguale (Orvieto, 2-3 dicembre 2017) e che anima questo volume, la sovranità debba essere intesa in questo senso.
Abbiamo fatto bene a scegliere questo tema. Come ha fatto benissimo Macron, il quale, con il suo discorso, ricorda ai cittadini europei che, se non si sentono cittadini europei e non affrontano e risolvono quindi il problema della sovranità (cioè della politica) su scala europea, saranno loro a perdere di sovranità e di potere. Infine, non troveranno più neppure la politica, come sta purtroppo accadendo.
Il circuito sovranità-stato-cittadini deve essere sempre aperto, deve consentire una circolazione fluida, una fisiologia democratica. Se a un determinato livello non esiste una struttura che possiamo definire statuale capace di confrontarsi con altri poteri non politici che a quel livello agiscono e pesano (come purtroppo spesso oggi avviene a livello europeo, e ancor più a livello globale) allora la sovranità politica non si esprime. E, ovviamente, i cittadini non possono esercitare in alcun modo sovranità. D’altra parte, se le strutture statuali non sono fecondate da una investitura democratica che le rende riconosciute e accettate, ugualmente non si esercita una sovranità riconducibile ai cittadini, nella quale i cittadini si riconoscano.
Il deficit di sovranità in Europa
Le difficoltà che riscontriamo in Europa hanno queste cause e attengono perciò esattamente alla sovranità. In Europa, per di più, non c’è da individuare un solo livello nel quale la “sovranità” è – per così dire – “scoperta”.
Se parliamo della moneta c’è un livello di sovranità che riguarda i Paesi che usano l’euro, presidiato oggi solo dalla Banca centrale; istituto che, per definizione, non può aprirsi all’esercizio della sovranità dei cittadini, della sovranità democratica. Se invece parliamo di sicurezza (sia militare, demografica, concernente l’ordine pubblico o la minaccia terroristica, insomma la sicurezza sotto tutti gli aspetti) il livello al quale va esercitata la sovranità non coincide più con quello dell’euro, immediatamente si allarga. Se poi affrontiamo qualche altro tema (non so la cultura, il diritto o altro), si individuano ambiti diversi nei quali è possibile esercitare e, prima ancora, concepire una qualche sovranità.
Quello europeo, pur oggi decisivo, non è il solo livello in cui esiste un deficit di sovranità politica, nel quale la sovranità non è democraticamente ben risolta e ben funzionante. Se ci avviciniamo al livello degli Stati nazionali le cose non sono più semplici. L’articolazione degli Stati nazionali in Europa non è così stabile e tranquillizzante; mi riferisco agli Stati di recente costituzione, a quelli usciti dalla crisi dei Balcani o a pezzi di Mitteleuropa. Ma anche quelli di più antica storia non se la passano benissimo; basta ricordare la vicenda spagnola, con il tentativo di secessione della Catalogna, o anche il Regno Unito che deve fare i conti non solo con la brexit ma anche con i difficili rapporti interni, vedi Irlanda e Scozia, che scuotono l’unità dello stesso Regno Unito. Anche a questo livello dunque, che non è europeo, la sovranità spesso non è una certezza, bensì un’incognita: la sovranità tradizionale dello Stato nazionale viene contestata e ci si chiede se sia ancora praticabile come è stata concepita e vissuta per molto tempo.
L’insoddisfazione dei cittadini
La questione su cui voglio concentrarmi è, però, un’altra. Problemi riconducibili al concetto di sovranità si pongono non solo in ambiti “statuali”, concernenti gli Stati nazionali o l’Europa; ambiti nei quali i cittadini esercitano politicamente sovranità attraverso la delega, dove quindi se le istituzioni non sono ben connesse e funzionali o soffrono di un deficit di democrazia (spesso queste due carenze si intrecciano e si aggravano reciprocamente) l’idea stessa della delega può apparire inadeguata e, comunque, i cittadini ne sono insoddisfatti.
I cittadini – ecco il punto che voglio portare in evidenza – sono insoddisfatti, percepiscono un deficit di sovranità – se vogliamo usare questo termine – anche per molte altre cose. Si tratta di cose a loro vicine, vicinissime: servizi di cui devono o vogliono usufruire, diritti o assicurazioni che ritengono debbano esser loro garantiti, e così via. Tutte cose a portata di mano di cui si avvertono immediatamente gli effetti nella vita quotidiana; sono, dunque, le persone a non volerle “delegare” e – per certi versi – sono anche cose non delegabili o non sempre delegabili. Per tanti motivi che conosciamo benissimo e che non sto a elencare (crescita culturale, incremento dell’informazione e della comunicazione ecc. ecc.) questi ambiti tendono a crescere e ad ampliarsi.
Queste tendenze e queste esperienze hanno una ricaduta culturale, plasmano idee e convinzioni. Alimentano, ad esempio, l’idea che non solo in questi ambiti più vicini, ma in generale la sovranità possa, anzi debba essere sottratta ad ogni delega per coincidere con l’esercizio diretto da parte dei singoli: tutti, ma ciascuno per suo conto. Trovo in proposito il concetto di populismo un po’ deviante; “uno vale uno” non è una cultura populistica, è una cultura iper-individualistica. Non c’è il popolo: c’è il singolo, la moltitudine di singoli. Anche il popolo, cui ordinariamente si riconduce la fonte della sovranità, dal punto di vista del singolo è un’astrazione. Il concreto è il singolo individuo disposto a riconoscere uguale concretezza alle persone con cui vive gomito a gomito per legami familiari o, comunque, rapporti molto stretti. È un approccio che non ha molto a che fare col populismo.
L’Europa e la vita quotidiana delle persone
La mia ipotesi è che si possa individuare una scala, una continuità che partendo dalla macro-sovranità (“macro” come “grande”, non da Macron) dalla sovranità a livello europeo, giunge alla micro-sovranità che riguarda aspetti quotidiani nella vita delle persone: la sicurezza, le tutele, i servizi oserei aggiungere perfino il rispetto; tutte le esperienze, insomma, che concorrono a creare benessere – o al contrario malessere – nella persona.
Questi due estremi (macro e micro sovranità) non sono qualitativamente del tutto omogeneizzabili. Il primo è propriamente la sovranità del cittadino che la esercita democraticamente attraverso varie forme di delega; che possono essere perfezionate, raffinate ma non abolite pena l’anarchia o/e il totalitarismo. Il secondo – mi scuso per l’autocitazione perché da tempo io lo definisco così – è piuttosto la “padronanza” che le persone esercitano e vogliono esercitare sui vari aspetti della propria vita e su quelli della vita delle persone con cui sono in relazione. Come la sovranità del cittadino può essere più o meno incisiva più o meno efficace e rispettata, così la padronanza della persona può essere più ampia o più ristretta, più certa o più precaria.
A mio avviso, la politica democratica, tanto più di un partito che si chiama “democratico”, che individua dunque nella democrazia la risorsa fondamentale della sua azione politica significa mettere in sintonia l’intera gamma di sovranità, dal micro al macro e dal macro al micro; con la ovvia diversificazione “tecnica” corrispondente ai diversi livelli. Penso sia, questa, una sfida decisiva per il riformismo e per la democrazia: per il riformismo democratico, cioè per il riformismo che fa leva sulla risorsa democratica; certamente per il Pd.
È molto difficile costruire questa sintonia, nei fatti e nella cultura, nel modo di pensare. Quando si crea una frattura fra i due piani – quello della macro-sovranità e quello della micro-sovranità – si apre un varco nel quale si insinua il pericolo che ben conosciamo e che è già molto diffuso. Se la richiesta di una maggior padronanza ai livelli che ho definito di “micro-sovranità” non viene soddisfatta o, come avviene, non è neppure percepita e compresa, finisce per raccogliersi in un unico contenitore di “rabbia” anche il rifiuto della delega, anche laddove la delega è indispensabile per l’esercizio della sovranità. E il tutto sfocia, poi, nel rifiuto della istituzionalizzazione della democrazia, cioè della democrazia tout court. Azzardo fino a enunciare, quasi come regola, la reciproca: quanto più ampia sarà la padronanza della persona nell’ambito che ho definito della micro-sovranità, altrettanto quel cittadino sarà propenso a riconoscere l’importanza della delega e a farne uso.
Il riformismo democratico e la sovranità dei cittadini
C’è, quindi, da sviluppare una forte iniziativa culturale sul modo di intendere e di far vivere la democrazia. In coerenza con questa griglia problematica c’è da fare anche un’analisi, una riflessione intorno al tema delle riforme. Secondo me, le riforme vanno misurate molto anche in base allo spazio di “padronanza” che la persona ottiene, che può praticare quando la riforma viene concretamente attuata. Certamente sono importanti gli esiti, i risultati concreti prodotti dalle riforme; ma dal punto di vista della persona è molto importante anche che la riforma consenta di accrescere le occasioni per esercitare la propria volontà in modo libero ed efficace, o – meglio ancora – se chiama, stimola a farlo.
Il riformismo democratico non chiede mai al cittadino di “cedere” sovranità; il riformismo democratico imposta le riforme in termini tali per cui il cittadino vedrà estesa e rafforzata la propria “sovranità”; sia sul terreno micro, sia sul terreno macro. Quanto alla dimensione europea, è se mai lo Stato nazionale a cedere sovranità; ma il nucleo fortemente innovatore del discorso di Macron – lo ha ben messo in luce Tonini – è che la cessione di sovranità dello Stato, degli Stati viene collegata alla crescita della sovranità del cittadino che rafforza così la propria “cittadinanza europea”, la propria “sovranità europea”.
La legislatura che si conclude è percepita come la legislatura dei governi del Pd, anche se i governi – soprattutto il primo, quello di Letta – sono stati sostenuti da maggioranze in cui sono state presenti forze che erano e sono alternative al Pd, elettoralmente schierate in alternativa al Pd. Comunque, questa legislatura è stata intensamente riformista; come, del resto, fu una legislatura riformista quella dal ’96 al 2001, quella dell’Ulivo, quella dell’ingresso nell’euro. Al di là degli inevitabili pregiudizi politici, è scritto nell’esperienza di questo Paese e lo hanno potuto verificare i cittadini di questo Paese che la sinistra è la forza che più si impegna sul terreno delle riforme. Se facciamo un confronto con la legislatura 2001-2006, nella quale è stata la destra a governare se ne ha indiscutibile conferma.
Le riforme non sono state bene accolte
Dobbiamo tuttavia dirci sinceramente che molto spesso, oggi come vent’anni fa, le riforme, anche quando giuste nella ispirazione e negli obiettivi, non sono state accolte con grande soddisfazione e, talvolta, da una insoddisfazione maggiore di quanto fosse lecito attendersi. Sappiamo che le riforme intaccano corporativismi, contrastano abitudini consolidate e incontrano, perciò, anche ostilità; ma non possiamo limitarci a questo, è necessaria anche una riflessione. Renzi, di solito, ricorda le riforme fatte e aggiunge “non basta” perché altro c’è da fare e noi non ci dichiariamo soddisfatti, appagati. Ma non basta neppure ripetere che “non basta”; bisogna anche fare un bilancio critico motivato.
C’è una determinazione storica, culturale nel modo di concepire, di proporre, di realizzare e di far vivere le riforme; il riformismo non è sempre uguale a se stesso, c’è una storia del riformismo. Il riformismo si esplica con strumenti e in contesti che cambiano; nel secolo cosiddetto socialdemocratico (ma non è stato diverso, da questo punto di vista con il fascismo, con la Democrazia cristiana, o con la politica svolta nel nostro Paese dal Pci) nel secolo, cioè, dello statalismo, le riforme non potevano che passare attraverso lo Stato; era qui che il riformismo si muoveva e non poteva non muoversi, entro i parametri del costituendo “stato sociale”, non a caso così definito. Per la riforma potevi batterti, la riforma potevi strapparla, imporla, potevi perfino morire per la riforma; ma, alla fine, la riforma era una cosa che lo Stato non solo decideva, ma la attuava e, soprattutto, la amministrava. La riforma era octroyée, era concessa e soprattutto – appunto – amministrata dallo Stato con le procedure, le pratiche, i controlli, la burocrazia; alla fine tu, la persona, anche se ne benefici, perfino con soddisfazione, sei un destinatario passivo. A seguito di quella riforma la tua padronanza non si è, in nessun modo, estesa; puoi sentirti più protetto ma – forse – anche meno autonomo, più “dipendente”. Per questo ho parlato di “rispetto”: il rispetto è connesso con la padronanza.
Le riforme come attivazione e opportunità
Oggi, a mio avviso, le riforme devono essere sempre più pensate, congegnate, proposte non come prescrizioni, imposizioni, procedure burocratiche che prescindono dall’utente, dal beneficiario; quando è così anche il beneficio finisce per non essere apprezzato o con l’essere apprezzato molto meno; viene vissuto come un qualcosa che altri ti devono, spesso giudicato insufficiente, e non come un passo avanti magari parziale, ma comunque importante, che fai tu.
La riforma deve essere sempre congegnata in modo da poter essere vissuta non come una risposta statica, più o meno soddisfacente, ma come una sollecitazione una “attivazione” del destinatario, che non si limita a ricevere un vantaggio che prima non aveva ma diventa “utente” della riforma stessa, estendendo così la padronanza sulla propria vita.
Il problema non è tanto nel momento in cui la riforma viene varata, se è “dall’alto” cioè con sostanziale passività da parte dei cittadini o “dal basso”, cioè a seguito di movimenti e lotte; il riformismo democratico misura la “qualità” della riforma nella fase della sua attuazione, sulla capacità che la riforma ha di “attivare” le persone, di spingerle a formulare propositi e ad assegnarsi obiettivi che prima consideravano non possibili. Non si tratta solo di estensione della “padronanza” dei singoli; si tratta, anche, di incremento, di elevazione di quello che chiamerei il “tasso di attivismo e di fiducia sociale”. La riforma deve dunque essere considerata anche come occasione, possibilità, chance; come offerta che stimola iniziativa e volontà; quel “di più” che scaturisce quando si intrecciano libertà e responsabilità.
Ecco cosa intendo quando parlo di riforma come estensione della padronanza delle persone. Si tocca, così, un punto delicato e che a me sembra assai significativo della “teoria” sulla democrazia. Forse, proprio l’incontro e l’interazione fra volontà e responsabilità della persona, dell’individuo, fornisce la materia prima indispensabile per il buon funzionamento della democrazia. Ciò avviene attra...