Napoli e il gigante
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Il Vesuvio tra immagine scrittura e memoria

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Il Vesuvio tra immagine scrittura e memoria

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I saggi contenuti in questo ebook analizzano sotto prospettive diverse alcune delle numerose rappresentazioni testuali e iconograche che hanno avuto come oggetto privilegiato il Vesuvio, con una particolare attenzione tributata alle opere realizzate a ridosso dell'eruzione sub-pliniana del 1631, che segnò la ripresa dell'attività eruttiva del vulcano dopo una lunghissima quiescenza. Il 1631 è, dunque, il segno di una discontinuità che irrompe nel tempo lento dell'uomo e lo accelera, nel senso braudeliano dell'espressione.

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Rosa Casapullo

Note sull’italiano della vulcanologia fra Seicento e Settecento

Ci fu chi scrisse che la chimica nacque in Francia, ma, a ben più forte ragione, si può asserire che la vulcanologia nacque in Italia. Poiché italiani furono i primi studiosi dei fenomeni vulcanici, e ai vulcani attivi e spenti d’Italia pellegrinarono i più rinomati vulcanologi stranieri per confermare e correggere con lo studio dei fatti le loro teorie. Perciò la lingua tecnica internazionale della vulcanologia si può dire essenzialmente italiana, e in tutti gli stranieri idiomi trovate le parole italiane più famigliari a questa scienza, cioè: cratere, bocca, lava, lapillo, bomba, pomice, ecc.
G. Mercalli, I vulcani attivi della terra

Un crocevia fra scienza, filologia e storia

La genesi del discorso scientifico sui fenomeni vulcanici è segnata da alcuni fenomeni eruttivi di grande rilievo, che si collocano nella prima età moderna, più o meno nell’arco di un secolo e, geograficamente, nell’Italia meridionale. Mi riferisco all’eruzione che nel 1538 causò la nascita del Monte Nuovo, presso Pozzuoli, e all’altra grande eruzione, quella dell’Etna del 1536. È certo, però, che la stratificazione della tradizione testuale e linguistica che può essere definita, lato sensu, vulcanologica, è cominciata a partire dall’imponente eruzione subpliniana del 16311, la prima di una catena di eventi vulcanici che seguirono il risveglio dell’attività del Vesuvio (cui si può associare per risonanza l’altra grande eruzione seicentesca, quella dell’Etna, del 1669)2. Questa lunga serie di eruzioni, infatti, offrì agli studiosi delle scienze della terra altrettante occasioni per approfondire le indagini sull’origine dei vulcani e sulla loro morfologia, per migliorare o creare ex novo una strumentazione che quantificasse la potenza degli eventi vulcanici e, non da ultimo, per osservare e descrivere eventi diversi per tipologia ed entità. Tutto ciò fece sì che nel contempo si affinasse un linguaggio che ancora ai primi anni ’30 del sec. XVII era ben lungi dall’essere sedimentato, nonostante il fatto che le sue prime radici si rinvengano in alcuni testi dell’antichità classica3. La stessa geologia, peraltro, era ancora priva di una terminologia tecnica e di un autonomo statuto epistemologico, tali da poter essere raffrontati a quelli di settori portanti della ricerca scientifica del tempo (la fisica e la matematica, prima di tutto, ma anche la medicina), ed era attardata su metodi e linguaggi fondati su un aristotelismo teorico e uno scolasticismo di maniera che spesso mal si combinavano con i dati delle osservazioni sul campo4.
Il periodo che va dal 1631 al 1944, data dell’ultima eruzione rappresenta, com’è noto, la fase meglio documentata, descritta e studiata nella storia di un vulcano. L’esplosione sub-pliniana del 1631 suscitò, infatti, un’ingente quantità di scritture, letterarie e no, in prosa e in poesia, alcune occasionali, altre più meditate, specialmente quando prodotte a distanza non immediata dall’evento5. L’elevato numero di testi, la varietà dei generi rappresentati e, non ultimo, i contatti fra lingue diverse costituiscono un’occasione unica per studiare la nascita e l’evoluzione, il lento tecnicizzarsi e il declino di questo settore dell’italiano scientifico.
La storia della vulcanologia sette-ottocentesca, peraltro, incrocia la vicenda intellettuale e politica, oltre che personale, di alcuni eminenti protagonisti della vita scientifica del Regno di Napoli e, successivamente, del Regno d’Italia. Fra questi ci furono personalità di grande rilievo sulla scena intellettuale europea, come Francesco Serao, Teodoro Monticelli, Scipione Breislak e altri, molti dei quali, di idee liberali, furono coinvolti nella vicenda della Repubblica partenopea del 1799 o parteciparono alla costruzione dello stato unitario italiano e all’adeguamento delle sue istituzioni educative e scientifiche6.
L’interesse per l’italiano della vulcanologia, però, non è solo storico e linguistico. La vulcanologia, infatti, non diversamente dalla sismologia, si fonda anche su osservazioni e su calcoli statistici elaborati anche attraverso lo studio dei fenomeni del passato. Da ciò consegue che i dati storici e filologici sono strettamente intrecciati a quelli tecnici e scientifici. Diversamente da ambiti scientifici come la medicina o la fisica, in cui i testi del passato, sia pure fondamentali, esauriscono generalmente la propria funzione nella sola documentazione storica (si pensi alle opere di Galilei e di Keplero, alle descrizioni naturalistiche di Ulisse Aldovrandi, alle ricerche entomologiche di Francesco Redi e di Lazzaro Spallanzani), costituendo unicamente i precursori illustri delle ricerche scientifiche contemporanee, le descrizioni dei fenomeni vulcanici o sismici dei secoli passati possono offrire, ancor oggi, indizi utili alla comprensione dei fenomeni attuali e all’affinamento dei modelli finalizzati alla predittività statistica degli eventi catastrofici7.
La vulcanologia, infine, ha mantenuto assai più a lungo di altri settori scientifici una profonda e, vorrei dire, consustanziale affinità con le scienze che, globalmente, definiamo umanistiche (includendo in questa pur ambigua etichetta le discipline storiche, la filologia, le scienze del linguaggio)8, avendo conservato tutta una serie di tipi testuali (cronache di eruzioni, resoconti di ispezioni ai crateri, descrizioni giornaliere o, addirittura, ad horam) aventi alla propria base la narrazione, la descrizione, il diario, il resoconto, testualità nelle quali l’occhio e l’orecchio dell’osservatore esperto non sono elementi di disturbo o rumore di fondo da eliminare ma parte essenziale del processo scientifico. Ciò, perlomeno, negli studi degli scienziati sette e ottocenteschi, fino a Mercalli o poco oltre, fino a quando, cioè, non si è sviluppata la moderna vulcanologia strumentale a base matematica, chimica e fisica. Dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, infatti, il prevalente paradigma teorico della «tettonica a zolle» ha visto, parallelamente al declino dell’italiano a vantaggio dell’inglese, lo sviluppo di una diagnostica a base prevalentemente strumentale e l’uso di modelli euristici di tipo matematico9.
Nelle pagine che seguono presento i primi risultati di una ricerca sull’italiano della vulcanologia che ha mosso i suoi primi passi alcuni anni orsono, quando compilai un sommario elenco degli italianismi di ambito scientifico entrati a far parte delle principali lingue di cultura europee10. In seguito, grazie ad alcune tesi di laurea aventi come oggetto testi e lessico della vulcanologia vesuviana, è stato possibile compiere qualche sondaggio preliminare, allo scopo di studiare la genesi, lo sviluppo e il lento declino di questo settore scientifico11. Le osservazioni che seguono sono state formulate sulla base dello spoglio di un numero limitato di testi e, avendo un carattere indiziario, preludono a una disamina più estesa dei testi.

Fra italiano, latino e spagnolo

Una delle caratteristiche generali dell’italiano vulcanologico seicentesco è il suo costituirsi fin dal principio su di un serbatoio colto e latineggiante, che solo col passare del tempo acquisisce e tecnicizza un lessico di derivazione popolare12. Quest’origine dotta si spiega non soltanto col fatto che molte descrizioni e relazioni scritte negli anni a ridosso della grande eruzione del 1631 sono redatte in latino, ma anche perché, se pur scritte in italiano, sono compilate quasi sempre da intellettuali abituati a maneggiare il lessico e la sintassi di testi scritti in latino, classici, tardoantichi e medievali, talvolta rinascimentali13. Ciò ha non soltanto profondamente influenzato la lingua delle scritture seicentesche narranti l’eruzione del 1631, relazioni ufficiali, diari pressoché contemporanei all’evento, resoconti stilati a distanza di tempo, trattati sistematici e così via, ma ha anche determinato pragmaticamente le caratteristiche dei testi che, a partire dalla metà del Seicento, possono essere indicati come le prime indagini scientifiche sul Vesuvio.
La singolarità dell’italiano della vulcanologia si manifesta in modo appariscente nel lessico. Fra Sei e Settecento, nelle scienze a forte vocazione tassonomica e nomenclatoria, come la botanica e la chimica, comincia a manifestarsi un disagio crescente nei confronti della terminologia ereditaria; parallelamente si generalizza presso gli studiosi una tendenza alla precisione terminologica e a una maggiore referenzialità, con la preferenza per le neoformazioni dotte, cioè per i neologismi a base derivativa formati con prefissi e suffissi di ascendenza greca e latina14. Nella vulcanologia questo percorso è rovesciato, in un certo senso. Infatti, nel suo primo strutturarsi il lessico vulcanologico consiste di parole mono e polirematiche non stabili e, ancora più spesso, di similitudini e metafore a base ampiamente letteraria. Solo a partire dalla fine del Seicento e nel Settecento è arricchito da apporti di provenienza popolare (lava è una di queste), oltre che, naturalmente, da neoconiazioni dotte. Il ritardo nell’ingresso di alcune parole di tradizione diretta è dovuto, probabilmente, alla discontinuità dei fenomeni eruttivi del Vesuvio, per cui eventi disastrosi potenzialmente memorabili si sono succeduti a lunghe fasi di stasi o quantomeno di forte decremento dell’attività eruttiva, circostanza che non ha favorito il deposito di un lessico di trafila diretta. Ciò non toglie che la preferenza accordata alle neoconiazioni dotte si manifesti in maniera palese quando, dagli ultimi decenni del Settecento, il lessico tradizionale, ormai obsoleto, comincia a essere sostituito con una terminologia scientifica più attinente alle moderne osservazioni e descrizioni dei fenomeni.
Ancora un particolare interessante va menzionato: l’eruzione del 1631 catalizza attorno a un argomento di scottante (è il caso di dirlo) attualità l’interesse di intellettuali che usano alcune fra le principali lingue di cultura dell’epoca, costituenti altrettanti codici della comunicazione intellettuale europea del tempo, l’italiano e il latino, come abbiamo detto, in qualche caso il francese15, e naturalmente lo spagnolo. L’evento si colloca, come ognun sa, nella cornice politica e istituzionale del Viceregno spagnolo. Le storie sui fatti del 1631 esibiscono, infatti, l’appartenenza a un mondo e a un panorama editoriale plurilingue16, dal momento che nei trattati in italiano sono citati lunghi brani sia in latino che in castigliano17. Peraltro, l’eruzione fu descritta anche da alcuni intellettuali spagnoli residenti a Napoli perché i particolari di quell’evento di portata eccezionale fossero divulgati nella madrepatria18. Nelle numerose relazioni in lingua castigliana, spesso incredibilmente simili, per sostanza, fonti, tipologia testuale, a quelle scritte in italiano o in latino, si concretizza precocemente, a tratti in modo estemporaneo e forse, a quest’altezza, non privo di soluzioni di continuità, quel travaso di parole, di locuzioni, di schemi descrittivi che si realizzò compiutamente solo a partire dagli ultimi decenni del secolo XVII e nel XVIII, quando viaggiatori colti, scienziati dilettanti o semplici curiosi fecero circolare le parole che costituirono il nucleo linguistico della vulcanologia europea.

In principio fu l’Etna

Molto prima che l’esplosione del 1631 imponesse all’attenzione dell’Europa il Vesuvio come oggetto privilegiato dell’indagine geologica, l’Etna, o Mongibello, secondo il suo antico toponimo arabo, era già stato descritto e studiato da scienziati o semplici dilettanti, nel solco di una tradizione che rimontava a Strabone. Tra le fonti classiche compariva l’Etna con le sue appariscenti deflagrazioni se non del tutto innocue, certo assai meno devastanti di quelle vesuviane.
L’interesse non decrebbe nell’Umanesimo, quando, col concorso delle fonti classiche, nuovi dilettanti delle scienze della terra si accinsero a scalare il monte ardente più noto della Sicilia, per emulare i loro ascendenti classici. Fra questi, vi fu Pietro Bembo, che col De Etna fornì un resoconto della sua ascesa alla vetta del monte nel 1495 e fornì un modello colt...

Table of contents

  1. Napoli e il Gigante
  2. Colophon
  3. Introduzione di Rosa Casapullo, Lorenza Gianfrancesco
  4. Note sull’italiano della vulcanologia fra Seicento e Settecento
  5. Vesuvio e società: informazione, propaganda e dibattito intellettuale a Napoli nel primo Seicento
  6. Vesuvio ed Etna a confronto negli scritti siciliani moderni
  7. Il barocco spagnolo di fronte al Vesuvio: Juan de Quiñones, El monte Vesuvio, aora la montaña de Soma (Juan González, Madrid 1632)
  8. Implicazioni di una ermeneutica delle fonti vesuviane sull’eruzione del 1631: forma del vulcano e risposta al rischio
  9. Il museo dell’Osservatorio Vesuviano visto con gli occhi di Giuseppe Ungaretti: uno sguardo al patrimonio storico e culturale dell’Ente
  10. Vesuvio, ancora tu? Divagazioni per immagini sotto il vulcano
  11. L’eruzione del Vesuvio del 1631 e Nicolas Perrey. Novità e riflessioni sul percorso di un malnoto incisore
  12. Indice