11.
Orfana di cento padri
La stanza di mio padre era un mondo: il suo studio, la sua tana, il suo rifugio. Il suo letto, un giaciglio, reso concavo come un’amaca dal suo corpo pesante e dalle tante ore che vi passava sdraiato, per leggere, scrivere, pensare, smaltire la sua inguaribile fatica di vivere.
Parava i colpi quotidiani della vita con il distacco di chi è capace di camminare un palmo sopra la terra; giocava con la vita con l’ironia disperata dei depressi, ma spesso la partita la dava persa prima ancora di sedersi al tavolo da gioco. Io, Mara e la mamma avevamo paura e rispetto delle sue malinconie, che arrivavano buie e improvvise, lo lasciavano inerte e con gli occhi persi, e lo mettevano in lite col mondo intero. Le smaltiva faticosamente, le sue ubbie, così come si fa con le sbornie. Più lentamente se l’amaro gli restava dentro, e lui si chiudeva in un mutismo ostinato e scuro, che lo allontanava da noi e da tutti. Più velocemente se riusciva a vomitare fuori, con urli, bestemmie e improperi terribili, le sue angosce. Lanciava contro mia madre qualunque cosa gli venisse a tiro, e poi si rinchiudeva nella sua stanza sbattendo la porta con tutta la forza che aveva. Io, Mara e la mamma alzavamo gli occhi verso lo stipite, che regolarmente vibrava e sbriciolava un altro po’ d’intonaco. Mia madre chiudeva in fretta le finestre perché i vicini non sentissero e scoppiava a piangere:
– Ah, mamma, mamma, perché non ti ho dato retta, perché?
Con sua madre e praticamente con tutta la sua famiglia, lei aveva rotto i rapporti. Solo rare visite formali, al suo paese, sulla costa, torrido d’estate, caldo di scirocco d’inverno, dove il profumo della zagara sugli alberi, carichi di fiori e di frutti praticamente tutto l’anno, era così insinuante e intenso da dare la nausea. E dove gli abitanti erano piccoli e neri e la salutavano tutti, appena scendeva dal treno, persino alla stazione:
– Buongiorno, professoressa, buongiorno…
– Come state, professoressa, io mi ricordo di voi…
– Io sono Andrea, signora professoressa, vi ricordate, il figlio di don Giulio, siete stata voi a insegnarmi il latino…
Aveva allestito il suo atelier di lezioni private che era una ragazzina, e dal tavolo lungo del suo studio era passato tutto il paese, almeno tutti quelli che sapevano leggere e scrivere. Lei, la prima donna laureata non solo della sua famiglia, ma di tutto il paese, e non solo di tutto il paese, ma «della costa fino alla città», come ci ricordava a ogni occasione con orgoglio. «Ero la più brava di tutti, di tutti. E pensate che mio padre non voleva che continuassi a studiare, dopo la scuola media».
Per tutti era rimasta «la professoressa».
Suo padre era un artigiano astuto e benestante, abitava in uno dei palazzotti più dignitosi del paese, e aveva due cose di cui vantarsi: la prima era naturalmente sua figlia, mia madre, che «aveva fatto gli studi», diceva, e neanche il medico era riuscito ad avere una figlia «professoressa». E la seconda era che era stato lui per primo, in paese, ad acquistare la prima radio: «veniva ad ascoltarla pure il capitano dei carabinieri, e pure il farmacista, qualche volta…», e lui quando ci passava davanti, pure se era spenta, si toglieva il cappello in segno di rispetto.
Il padre di mia madre aveva costruito la sua fortuna con l’abilità delle mani: fabbricava ruote di carretti e carrozze. Erano così straordinarie e indistruttibili che venivano anche dalla Sicilia a ordinargliele. Lavorava nella bottega sotto casa tutti i giorni della settimana, dall’alba al tramonto, tutti i giorni, «pure la domenica e pure a Pasqua e pure a Natale, dall’alba al tramonto, sempre». Quando il sole calava dietro Pentedattilo, la montagna dalle cinque dita, lui si ripuliva di fuliggine e segatura, indossava una camicia candida di bucato e aspettava la sera seduto sul muretto davanti casa.
Lavorò fino all’ultimo giorno della sua vita, e quando morì, vecchissimo, trovarono nel suo laboratorio centinaia e centinaia di ruote di carretti, di tutte le dimensioni, grezze e decorate, per i poveri e per i ricchi, rustiche e lucidate. Credo che furono svendute a quattro soldi come legna da ardere. Non si era accorto che nessuno, ormai, neanche nel suo paesino del Sud, usava più carretti o carrozzelle, che anche lì erano arrivate le automobili e le moto, e i camion, e tutto il resto.
Mio nonno diffidava naturalmente di mio padre. Uno che come strumenti di lavoro aveva la sua testa e la penna o, al massimo, una macchina da scrivere, che cosa avrebbe mai combinato nella vita? Uno che non poteva fare a meno del pacco dei giornali, «anche il giorno del matrimonio, prima di andare in chiesa, quello lì si comprò i giornali… e quanto spende di carta inutile di prima mattina?».
Mia madre aveva tentato di farlo ragionare, di spiegargli:
– Guarda, papà, guarda, l’ha fatto lui!
Gli aveva portato trionfante una copia del primo giornale di quel fidanzato bello, povero e con la testa piena di parole. S’intitolava «Giufà», il suo primo giornale, ed era un foglio satirico che andava a ruba nelle edicole, ma lasciava chissà perché mio padre perennemente squattrinato. E mio nonno:
– Carta, carta… buona solo ad avvolgerci le uova…
– Ma guarda che lo vendono, e la gente se lo compra…
– Carta, carta, e con la carta, bella mia, non si mangia! Tu hai perso completamente la testa, per quello lì! Si cerchi un lavoro vero, se ti vuole sposare, sennò io non dirò mai di sì.
Se lo sposò lo stesso, lei, contro tutti, e tacendo a tutti che lui un lavoro vero, di funzionario in un’amministrazione pubblica, ce l’aveva eccome, e anche discretamente retribuito, e che l’aveva mollato di punto in bianco e senza neanche dimettersi ufficialmente. Una mattina, semplicemente, non si alzò dal letto; la sveglia si mise a trillare a un quarto alle sette, lui la fece star zitta e si girò dall’altra parte, non andò in ufficio e al diavolo tutti: poteva fare in pace il suo giornale, finalmente.
– I genitori hanno ragione. Sempre, diceva mia madre con una vocina fievole fievole e piangeva di delusione, piangeva di paura.
– Giorna… lista?… che gli dico io alla gente, qua in paese, che mia figlia, la professoressa, sposa un «gior-na-li-sta»?… e che vuol dire? Sai che cosa capiscono loro? Che è uno che vende i giornali: per questo hai studiato tanto, per questo? Per sposare uno che vende giornali?
Nelle foto del matrimonio, davanti a una vecchia balilla, con tutti i parenti piazzati in ordine d’altezza a formare una V coi bambini in mezzo e i nove fratelli di mia madre piccoli quasi come i bambini, i miei nonni materni sono ritratti vicini, tristi e infelici. Esattamente come li vidi nelle pochissime volte – non più di una decina – che mia madre ci portò al paese a trovarli. Mio padre, dopo il matrimonio, che a giudicare dalle foto, dove appariva bello e imbronciato, dovette essere per lui una tortura, non volle mai più vederli.
Mia madre si asciugava le lacrime e io pensavo: torneremo di nuovo contenti? La vedrò sorridere ancora, la mamma?
Gli occhi verdi e grandi di Mara diventavano piccole fessure grigie:
– Smettila, mamma, smetti di piangere per lui.
Non lo vedi? E matto.
Era diventata grande, non lo amava più.
Un giorno mio padre mi chiamò accanto al letto:
– Anna, guarda, cos’è questo?, e m’indicava qualcosa tra i capelli.
– Cosa, papà?, non riesco a vedere…
– Questo, stupidina, possibile che non lo vedi? Stava con la sua bella testa nera reclinata sul mio grembo di bambina:
– Questo, Anna, questo, non è un capello bianco, forse?
Aveva ragione lui. Il capello bianco c’era ed era l’unico nella sua chioma curata e scura. Lievemente arcuato e vezzoso, pareva avere una vita sua, dispettosa e fanciullesca.
– Strappalo, Anna, portalo via!
– Come, papà, ma come faccio?
– Strappalo, ti dico, stupida, non capisci?
Avevo paura, più paura di strapparlo che di disobbedirgli. Sentivo le mani sudare, lui continuava a tenere la testa sul grembo, lo sentivo sempre più furente e amaro.
Mi feci forza, presi il suo primo capello bianco tra pollice e indice e tirai. Faceva resistenza, si ribellava. Tirai forte forte finché riuscii a strapparlo e glielo mostrai come un trofeo.
Lui si ricompose sollevato, e si accarezzò delicatamente la testa, per ravviarsi i capelli liberati.
Quel rito, la sua testa sulle mie gambe, la mia mano a frugare tra i suoi capelli, la sua domanda accorata – ce ne sono ancora? – l’eliminazione degli intrusi, avveniva periodicamente.
La cerimonia cominciava regolarmente con lui che diceva:
– Anna, chiudi la porta!
E alla fine lui avvicinava l’indice alla bocca imbronciata, puntava i suoi begli occhi nocciola sui miei e ordinava:
– Sst!
Doveva essere un segreto fra noi due. Diventava una scena d’amore. Chi era il padre, chi la figlia?
– Che lavoro fa tuo padre?
– Il giornalista!, rispondevo trionfante alla maestra.
– Sì, ho capito. Ma dov’è impiegato?
– No, da nessuna parte.
– Come «da nessuna parte». Se uno non va al lavoro da qualche parte è disoccupato. Hai capito, Anna?
Mi sentivo presa in giro dal sorrisino ironico della maestra, e anche un po’ umiliata. In quella cittadina del Sud senza industrie e senza operai, gremita di ferrovieri e di terziario, uno che avesse come suo ufficio le strade, i caffè, i palazzi che contavano e la scrivania di casa sua, era più o meno un nullafacente. Così la pensava mia nonna, che aveva inutilmente sgranato rosari e novene alla Madonna quando mio padre gli aveva annunciato che si licenziava dal suo ufficio per mettere in piedi un giornale, perché lui ci ripensasse, e così la pensavano i parenti di mia madre che tagliarono allora i rapporti con lei che, dicevano, era disposta a farsi sfruttare da uno che non aveva voglia di lavorare.
Come fare a spiegarlo alla maestra e a tutti gli altri cosa volesse dire, fare il giornalista?
E come si permetteva poi di dire che mio padre non lavorava?
Lo sapevo io che tribolazione vivevamo io, Mara e la mamma quando lui soltanto organizzava l’idea di mettersi davanti alla sua piccola Olivetti! Diventava nervosissimo, il minimo rumore lo infastidiva, non gli andava bene niente di quello che la mamma aveva preparato per pranzo o per cena, e poi, regolarmente, prima di sedersi al tavolo, perdeva qualcosa, un foglio, un disegno. Era il pretesto per mettere sottosopra il suo studio e la casa intera lanciandoci improperi a raffica, contro noi tre raggelate dalla paura.
Cercava, cercava disperatamente qualcosa, forse solo un appiglio, un punto d’appoggio da cui lanciare la passerella dalla vita vissuta a quella raccontata. L’inizio, il cominciamento, l’attacco, come si dice in gergo.
E Mara:
– Che vuole, questa volta, che gli manca?
E lui:
– Annaaaa! Perché tocchi le mie carte. Perchéeee? Non si riesce a trovare niente in questa casa! Te l’ho detto mille volte: qui non devi entrare per nessun motivo! Nessuno, nessuno deve entrareeee!
Rimestavo tra cataste di roba, vuotavo il cestino della carta straccia, tiravo da sotto il suo letto fogli e giornali, senza sapere neanche di che cosa andare alla ricerca, poi, finalmente:
– Via, via, fuori dai piedi!
Ero libera, finalmente. La porta veniva regolarmente sbattuta, l’intonaco cedeva altre briciole, e mia madre ci ordinava il silenzio assoluto. Dopo qualche minuto il ticchettio della macchina da scrivere riempiva la casa e il cortile. La mamma tirava un sospiro di sollievo e Mara dava tre o quattro tocchi con la punta dell’indice sulla fronte per dire, scuotendo la testa: «è matto».
Passavano le ore e tutte e tre sapevamo che quando si sarebbe alzato dal tavolo coi suoi fogli dattiloscritti, sarebbe tornato il papà che amavamo, appagato, disteso, con una qualche idea in testa per rendere speciale la serata, mandarmi a prendere i gelati per tutti o in rosticceria a comprare costosissime prelibatezze, e la serata sarebbe stata davvero speciale.
Capii solo dopo, quando il ticchettio della sua Olivetti si spense per sempre, che scrivere è un atto d’amore. Fisico, corporale, totale. Non ha a che fare solo col cervello, con la tua storia, con quello che hai letto e hai studiato, con quello che hai visto, con chi hai incontrato, con chi ti ha incantato e con chi ti ha indignato. Tu resti seduto a scrivere, racconti di mondi e racconti di vento, racconti di mare e racconti di amori e una gamba si ribella. Ti fa male, vuole il suo spazio. Che c’entra la gamba con la scrittura? Non lo so, ma c’entra. Fuori c’è il sole e tu sei lì al tavolo, e la gamba, oppure la schiena, oppure lo stomaco ti dicono che ci sono pure loro. Ha a che fare col sudore, la scrittura, con gli umori, con le lacrime. Con gli odori...