Riflessioni di
Emilio Carelli
Luca De Biase
Aldo Grasso
Maurizio Giunco
Gian Piero Jacobelli
Mario Morcellini
Ruben Razzante
Lorenzo Sassoli De Bianchi
Stefano Selli
Dario Edoardo Viganò
Emilio Carelli nasce a Crema il 21 maggio 1952. Laureato in lettere moderne con specializzazione in comunicazioni di massa. Giornalista professionista. Entra a Canale 5 nel 1980 come redattore e inviato dei diversi programmi giornalistici. Nel 1986 diventa capo della redazione romana del gruppo Fininvest.
Dal 1986 al 1992 è ideatore e curatore del programma settimanale di politica Parlamento In (di cui in seguito è anche conduttore), in onda su Canale 5 e Retequattro. È anche curatore di Italia Domanda dibattito settimanale su argomenti di attualità e politica condotto da Gianni Letta, in onda su Canale 5.
Nel 1989 diventa Vicedirettore di «Videonews», la testata giornalistica delle reti Fininvest. Nello stesso anno è ideatore e curatore di Ottanta non più ottanta, e di Miti, Mode e Rock’n’Roll, in onda su Italia Uno.
Nel gennaio 1992 partecipa alla fondazione del TG5 come vicedirettore e conduttore dell’edizione delle 13.
Il 1° novembre 2000 lascia il TG5 per diventare Direttore responsabile di TgCom.
Dal giugno 2003 al luglio 2011 fondatore e Direttore responsabile Sky Tg24.
È stato docente di Teoria e tecniche dell’informazione on line presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano e dal 2013 è Direttore del Master in Digital Journalism presso la Pontificia Università Lateranense. Dall’ottobre 2013 è Vicepresidente di Confindustria Radio TV. Ha pubblicato Giornali e giornalisti nella rete (Apogeo, Milano 2004).
Televisione: le radici del futuro
di Emilio Carelli
«È probabile che intorno al 2030 la televisione generalista lineare sarà morta». Lo afferma Reed Hasting, amministratore delegato di Netflix, iscrivendosi nella schiera dei nuovi apocalittici della Tv. Noi non sappiamo se questa previsione si avvererà. Sappiamo che il più grande e rivoluzionario cambiamento indotto dalla tecnologia digitale non solo è stato rappresentato dall’avvento della multicanalità o dell’interattività, dalla pay Tv o dall’enhanced Tv, come si pensava solamente pochi anni fa. La vera rivoluzione è il cambiamento della fruizione, è il progressivo calo della visione dei canali televisivi come li vediamo ora, strutturati in un palinsesto lineare, con un susseguirsi di appuntamenti fissi nel corso della giornata. Tutte le ricerche recenti confermano una diminuzione di questa modalità di vedere la televisione, a favore di una visione personalizzata di prodotti video on demand. Una visione che permette attraverso tecnologie diverse (Tv, iptv, Internet) di vedere quello che voglio, quando voglio, eventualmente pagando per questo servizio.
La visione apocalittica della fine della Tv lineare, generalista, trasmessa simultaneamente al grande pubblico attraverso canali gratuiti o commerciali, non è una novità. Si tratta del frutto di una riflessione basata sui possibili sviluppi di un trend facilmente osservabile, sia in base alla progressiva frammentazione degli ascolti (fenomeno sviluppatosi con maggior rapidità dall’avvento del digitale), sia sulla base di un mutamento, più recente ma già evidente, nelle abitudini d’ascolto del pubblico televisivo. La anytime, anywhere Tv non sembra essere più un fenomeno limitato alle fasce più giovani e dinamiche, ai millennials, ai nativi digitali. Attraverso un progressivo contagio delle generazioni precedenti, sulla spinta della maggior diffusione dei dispositivi abilitanti (tablet e smartphone per il mobile, set top box, console e smart Tv per la sofa Tv), la liberazione dello spettatore dalle rigidità del palinsesto è divenuta un fenomeno sociale concreto, osservabile e che comincia anche ad essere misurabile.
Una tendenza che si sta rapidamente diffondendo in tutto il mondo e anche in Italia. Secondo l’Ericcson Consumerlab Annual Research 2014 il consumo di televisione lineare nel nostro Paese nel giro di tre anni (2011-2014) è sceso dall’83% al 77%. Contemporaneamente il consumo di programmi video, intendendo per questo short clips, film, serie Tv, video da YouTube, è aumentato dal 61% al 75%. Non è difficile immaginare in tempi rapidi un sorpasso di quest’ultima modalità on demand su quella tradizionale della Tv lineare. La stessa ricerca rivela che è in atto un passaggio netto dalla Tv al contenuto, con una modalità che viene chiamata «the pick-and-mix attitude», una sorta di nuovo atteggiamento di pescare e mischiare i contenuti. Insomma la gente tende ora a guardare i contenuti e non la Tv. Il fruitore tende a far riferimento a categorie di contenuti e titoli, piuttosto che alla Tv tradizionale, infischiandosene delle tecnologie di accesso. L’ultimo dato rivela che un utente su tre preferisce il «pick-and-mix» all’offerta dei palinsesti tradizionali, in una sorta di approvvigionamento di contenuti. È quanto vogliono i nuovi consumatori in quella che consideriamo la Tv ideale, come se in mancanza di questi, essi non avessero nulla da guardare in Tv. E per questo tipo di nuova Tv ideale sono anche disposti a pagare, magari scegliendo modalità continuative di abbonamento, mentre considerano la trasmissione dei canali tradizionali obbligatoriamente gratuita, quasi fosse parte stessa dell’apparecchio televisivo, dell’hardware, per i quali, secondo loro, nulla è dovuto. L’altro dato che rivela una nuova tendenza è l’utilizzo di un secondo schermo, di solito smartphone, tablet o pc, mentre si guarda la televisione. Almeno una volta alla settimana più della metà dei telespettatori scrive mail, messaggi o guarda altri video mentre fruisce della Tv. Il 44% usa app o Internet per saperne di più su quanto sta guardando, il 29% discute o condivide con altri attraverso chat o social networks quanto sta vedendo in Tv, mentre il 24% guarda 2 o più programmi contemporaneamente.
Quella del 2030, peraltro, è una data sufficientemente lontana (quindici anni) per consentire al mercato di intraprendere tutte le iniziative in grado di rendere il previsto passaggio meno doloroso e traumatico, pavimentando (con il broadband) la strada verso la dismissione delle radiofrequenze televisive.
La profezia di Hastings andrebbe tuttavia analizzata anche alla luce dei passati fenomeni «disrupting» che il mercato dei media e dell’intrattenimento ha vissuto sulla propria pelle nel corso dell’ultimo secolo: l’avvento del cinema, della radio, della televisione e infine quello della rete non ha «ucciso» i mercati (e le offerte di intrattenimento) precedenti a ciascuna nuova offerta. Al contrario, ciascun medium si è rivelato additivo rispetto al mercato dell’intrattenimento, ampliandone i confini complessivi. Su queste basi, si contrappone alla teoria degli apocalittici sulla fine della Tv commerciale la tesi opposta, quella degli integrati. È la tesi che ci viene proposta da chi con la broadcast Tv ha costruito le proprie fortune («la Tv generalista non morirà mai, anzi non è mai stata così in salute», Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset).
Ma a cambiare è anche lo strumento con cui si fruisce di un prodotto video e di conseguenza il luogo della fruizione.
Disrupting television
Quanto sta accadendo in America è indicativo di una tendenza che prossimamente potremmo registrare anche in Italia. L’86% delle 115,6 milioni di famiglie Tv americane è abbonata a un’offerta multichannel, attraverso operatori cavo, satellite o tlc1. La penetrazione della multichannel Tv, tuttavia, sembra essere al centro di un processo di erosione: un fenomeno lento (nel 2010 la percentuale di abbonati era dell’88%), che potrebbe trarre origine da una molteplicità di fattori. I maggiori indiziati sono l’attuale congiuntura economica e la conseguente minore capacità di spesa delle famiglie a fronte di costi sempre più elevati per gli abbonamenti a cable o satellite Tv, e la progressiva disponibilità di alternative a basso costo favorite dalla crescente diffusione di offerte Ott (Netflix, Hulu, Amazon Prime) e di possibilità di accesso ai contenuti televisivi basic attraverso sistemi alternativi alla cable e satellite Tv (come il digitale terrestre nelle aree urbanizzate o servizi come Aereo o FilmOn).
Il fenomeno del cord cutting è stato ritenuto dagli analisti un falso mito, almeno sino a poco tempo fa. I trend registrati nell’ultimo anno, tuttavia, hanno spinto gli osservatori a guardare la questione sotto un’angolazione diversa. L’accrescersi del differenziale tra il numero di nuove abitazioni e quello di nuovi abbonati, oltre ai cali registrati tra i maggiori operatori pay negli ultimi anni (con un sensibile rallentamento nelle nuove sottoscrizioni) sono al centro delle analisi attuali. Secondo le stime di Moffet Research2, uno dei gruppi più scettici in passato rispetto al cord cutting, entro il 2020 la penetrazione della pay Tv potrebbe calare di circa sei punti percentuali: certo non un movimento sismico, ma un’erosione comunque preoccupante per un business che, pur se vicino alla saturazione, sino ad ora non aveva conosciuto crisi. Previsioni simili arrivano anche da Screen Digest, che valuta in circa quattro punti percentuali il calo della penetrazione della pay Tv già tra il 2013 e il 2017.
Preoccupa anche l’atteggiamento dei «millenials », le fasce giovani della popolazione, sempre più propense a scegliere servizi on line rispetto alle piattaforme pay cavo e satellite: un atteggiamento che, secondo gli analisti, si rifletterà in futuro sugli incumbent, incrementando la platea dei cord nevers, coloro che non si abboneranno mai ad un’offerta multichannel tradizionale.
Accanto al fenomeno del cord cutting, iniziano a manifestarsi anche quello del cord trimming e del cord cheating. Il primo è il progressivo taglio dei servizi da parte dell’abbonato, la rinuncia ai canali di cinema e sport, la riduzione dei canali basic al minimo indispensabile, l’abbandono dei servizi a valore aggiunto (multiroom, PVR, ecc.) per risparmiare sulla bolletta mensile. L’effetto è una riduzione dell’ARPU (media del costo di abbonamento pagato da ogni abbonato) per gli operatori, che si vedono costretti a ricorrere a ulteriori promozioni e rimodulazioni dell’offerta per cercare di mantenere il proprio parco. Con il cord cheating gli abbonati ai servizi multichannel «tradiscono» il loro operatore di riferimento utilizzando servizi Ott di terze parti per accedere a contenuti pay per view. Un recente report di Digitalsmiths3 confermerebbe il nuovo trend attraverso i dati di un sondaggio: il 73,8% degli intervistati non acquista mai contenuti dal catalogo Vod del proprio fornitore primario di servizi; il 68% degli utilizzatori di smartphone e tablet non utilizza le applicazioni sviluppate dalla piattaforma pay cui sono abbonati; il 35% è abbonato a servizi Ott e il 22,1% utilizza regolarmente servizi di terze parti per accedere a contenuti pay per rental. Anche in questo caso, l’impatto più rilevante per gli operatori è sull’ARPU.
Ad alimentare questi trend è la crescente penetrazione dei servizi Ott nelle abitazioni americane. Le ultime stime di Nielsen4 parlano di una percentuale di abbonati o fruitori di servizi in streaming in costante crescita: sul totale della popolazione, in un anno gli utilizzatori di Netflix sono passati dal 31 al 38%, quelli di Hulu dal 12 al 18%, quelli di Amazon Prime dal 7 al 13%.
La Tv lineare, in questo contesto, nonostante le previsioni negative di Reed Hasting che abbiamo citato all’inizio, non sembra avviarsi verso quella che i più pessimisti definiscono l’inevitabile decadenza: il consumo della broadcast television, nonostante la proliferazione di PVR e servizi on demand, sembra addirittura in crescita stando ai dati dell’ultimo Tv & Media report realizzato dal ConsumerLab di Ericsson5. Cambiano tuttavia le modalità d’accesso e cresce la conflittualità tra i network e i nuovi operatori che, con soluzioni tecnologiche innovative, minacciano di erodere una quota dei ricavi delle televisioni tradizionali.
Per la maggior parte degli operatori americani, la sfida del cord cutting è notevole. Gli strumenti utilizzati per contrastare o contenere il fenomeno sono quelli che portano a una maggior fidelizzazione del proprio parco abbonati, e in particolare dei clienti con maggiore propensione alla spesa: l’incremento del valore complessivo dell’offerta e l’utilizzo di strumenti tecnologici avanzati. Sul piano commerciale, si utilizza la leva dello sconto legato a un vincolo di durata dell’abbonamento, con soluzioni particolarmente aggressive (in grado di abbattere il costo del 50% nel primo o nei primi due anni) per spingere i prospect ad adottare da subito tutti i servizi a valore aggiunto disponibili (multiroom, Tv everywhere, PVR, HD).
La partita che si gioca sull’Ott coinvolge, oltre ai tradizionali player del settore audiovisivo, anche soggetti industriali di primo piano: accanto a broadcaster, major, piattaforme pay e operatori cavo, alcuni tra i maggiori attori del settore stanno cercando di individuare un modello sostenibile per afferrare una fetta della torta.
Quando e in che misura il fenomeno riguarderà anche l’Europa e l’Italia? Rispetto agli Stati Uniti, il vecchio continente ha caratteristiche profondamente differenti. Oltre alla frammentarietà del mercato, alle diversità linguistiche, alla difficoltà di centralizzare il business della pay Tv sfruttando quindi in modo più efficace le economie di scala (ad esempio nelle acquisizioni e nelle produzioni), nel mercato europeo restano centrali, da sempre, le offerte del servizio pubblico e la «Tv gratuita» commerciale. La pay Tv in senso stretto ha una penetrazione inferiore, e dunque margini di crescita potenziali ancora interessanti in confronto a un mercato saturo come quello americano.
Un freno ulteriore all’accrescersi della competizione tra Tv tradizionale, pay e Ott è legato, almeno nel territorio italiano, a quel digital divide infrastrutturale e, talvolta, culturale che affligge il Paese. Sul fronte delle infrastrutture, i dati evidenziano ampie sacche di inefficienza dei servizi di accesso alla rete, oltre a una capacità di trasporto notevolmente più limitata del nostro broadband rispetto alle reti dei peers europei. Il ministero per lo Sviluppo economico6 quest’anno ha individuato in ben 2,8 milioni gli italiani che a oggi non potrebbero attivare una connessione a banda larga (satellite escluso) neppure se lo volessero. Degli 8.094 comuni italiani ce n’è quasi un quarto (1.700) in cui appena il 3% della popolazione può accedere a un’Adsl domestica.
Secondo i dati di Akamai7, società sui cui server transita ogni giorno dal 20 al 30 per cento del traffico mondiale, l’Italia è scivolata all’ultimo posto in Europa per velocità media delle connessioni a Internet (appena 4,4 Megabit al secondo, contro i 5,2 di Francia e Spagna, i 6,9 della Germania, i 7,9 del Regno Unito e poi su su fino ai 10,1 della Svizzera). La disponibilità di linee broadband con capacità superiore ai 30 Mbps è appena del 14% rispetto alle abitazioni (contro una media Ue del 54%).
Sul fronte dell’offerta, si assiste tuttavia ad una progressiva disponibilità sia di dispositivi abilitanti (Smart Tv, console, Stb) che di servizi: da quelli realizzati dai grandi operatori internazionali (dalla piattaforma di iTunes di Apple a quella di Microsoft su Xbox e di Sony su PlayStation, YouTube ecc.), ai servizi Ott di broadcaster, operatori tlc e altri soggetti (Sky On Demand, Rai.tv, VideoMediaset, PremiumPlay e l’annunciato Infinity, La7, Cubovision, ChiliTv). La fruizione on line, rispetto a quella lineare, resta tuttavia limitata. Secondo una ricerca di Deadlinemedia, si stimano circa 1 milione di smart Tv effettivamente connesse (su 2,7 milioni di apparecchi venduti alla fine del 2012) e un totale di 6 milioni di apparecchi collegati alla rete, includendo set top box, lettori Blu-ray e console, su circa 13 milioni di dispositivi collegabili. Mancano tuttavia dati sul loro utilizzo effettivo come strumenti di fruizione di contenuti audiovisivi online.
Di cord cutting in Italia non si parla esplicitamente, seppure gli operatori pay abbiano registrato riduzioni del parco abbonati. In una certa misura, le ragioni del fenomeno sono analoghe a quelle riscontrate negli Usa (restrizione dei consumi e della capacità di sp...