L’inizio, la fine
1 aprile 1965
Eccomi qui, a due passi da casa. L’ultima curva stretta di una stradina che non era pensata per le automobili e poi il compagno Tornatola può rallentare. È stato un giorno di scontri, tensioni, discorsi. Un giorno di parole. Così tante che ormai siamo troppo stanchi per aggiungerne delle altre. E allora quando velocemente scendo dall’auto ferma, quella altrettanto velocemente riparte.
È questione di momenti, perché subito avverto il desiderio di restarmene qui, pacificato, con un’altra Muratti accesa tra le dita, il buio tutto intorno e il silenzio delle case. Questo è un quartiere popolare, non ci sono ricchi che guardano la televisione con gli amici.
Abbiamo mangiato e bevuto bene da «U tignusu», lì a piazza Roma. La cena con Reichlin è stata gradevole. Lui è un punto di riferimento per tutti noi, uno stimolo a essere migliori. A soli 32 anni gli hanno affidato la direzione dell’«Unità» che ha tenuto fino a quando non è passata ad Alicata, di cui ricordo bene l’ortodossia con cui guidò il partito qui in Calabria mentre stavamo insieme nel comitato centrale. Andare a dirigere il partito in Puglia non si può certo ritenere una punizione, ma è chiaro che Alfredo ha pagato il suo avvicinamento a Ingrao. Dopo un bicchiere di vino in più è pure disposto ad ammetterlo, senza reticenze.
Vorrei restare ancora fuori, per strada, nel tepore di questa serata con cui principia aprile. Il mio mese preferito. Quello che porta la primavera. In fondo è tutto quello che spero, verrà primavera in questa piccola città del nostro sud, verrà primavera nel mondo intero e si porterà via il freddo della miseria. Ma devo tornare a casa, ci sono gli appunti della riunione di oggi da rimettere a posto, la lezione sul materialismo storico ai ragazzi della Fgci da preparare, le lettere per i braccianti della Piana da ricontrollare un’ultima volta ancora.
È strano, ci sono due persone là, vicino alla chiesa della Maddalena, a metà della discesina che mi porta a casa. Mi avvicino lentamente e mi pare di non conoscerli. È strano, a quest’ora, in questa strada dove non ci sono puttane né putiche. Questa città sta cambiando, sta crescendo senza sosta, ma li conosco ancora tutti gli uomini e le donne che la abitano. Conosco i volti, le storie, i bisogni. Conosco le famiglie, le rinunce, i sacrifici. Conosco le debolezze, gli stenti e i lussi. Conosco i nomi, i sorrisi e i ghigni. Questi due giovani, sono certo, non sono di qui.
Quello più basso butta la sigaretta e mi viene incontro, per un istante penso che sia un compagno venuto da fuori che mi vuole parlare. Mi si para davanti. Vedo il calcio della pistola che gli spunta da sopra la cintura.
Incrociamo gli sguardi a non più di un metro di distanza. La luce del lampione ci illumina, come fosse il proiettore della scena di un teatro.
«Volete qualcosa da me?» gli domando con la voce leggermente impastata.
Poi, un rumore secco, un rumore secco che si ripete, il dolore alla schiena è terribile e penso che…
Gavino Piras
inizi di marzo del 1965
Tanti chilometri. È davvero lontano qui. Paesaggi che mutano dalle montagne al mare e distanze che disegnano un altro mondo. Arrivarci o andarsene può essere la scelta di una vita intera. Ma tra pochi anni l’autostrada collegherà Salerno a Reggio Calabria, supererà Eboli, porterà Cristo e progresso. La scuola pubblica e obbligatoria, l’energia elettrica nazionalizzata: così il processo di emancipazione delle masse popolari potrà trovare la sua realizzazione anche in queste terre, tra le distese di olivi e il silenzio rotto solo dal rumore di questa Seicento blu. L’avanzamento delle conquiste dei lavoratori passerà dall’alleanza tra l’operaio del nord e il bracciante del sud e non potrà che vivere nella soggettività del partito. Io sono il partito, qui, ora, il rinnovamento nella continuità.
Le nazionali senza filtro accumulate nel portacenere davano il tono a quella stanza al terzo piano di Botteghe Oscure. Il loro odore acre, intenso, ne impregnava tutta l’aria.
«Compagno, hai ben presente la vita che ti aspetta, vero?».
Nella domanda di rito, dietro l’impassibilità burocratica del responsabile dell’organizzazione, traspariva una sincera preoccupazione per il percorso di vita di un giovane uomo di ventitré anni. Lo sguardo del funzionario rimaneva sul foglio. La mano stringeva una penna pronta a firmare in calce.
«Sai che la dedizione e l’impegno richiesti potranno comportare grandi difficoltà per i tuoi studi universitari di filosofia, ben difficilmente permettendoti di portarli a compimento con la laurea, vero?».
Avevo passato quasi sei mesi alle Frattocchie e la mia passione rivoluzionaria si era arricchita non solo degli insegnamenti di dirigenti del partito, ma anche del contributo di intellettuali organici, pittori, registi, scrittori dediti alla medesima causa che animava la mia volontà e le mie speranze. Le loro parole mi avevano fatto sentire ancor più dentro un grande processo storico, parte di un intellettuale collettivo impegnato in uno sforzo egemonico sulla cultura più avanzata del Paese.
«La Calabria è una terra difficile da comprendere. La rassegnazione e il ribellismo sono sentimenti diffusi tra le persone. Ma noi non dobbiamo sfruttare l’una né alimentare l’altro. Poiché dobbiamo essere alla testa di masse consapevoli e guidarle in modo razionale, vero?».
Le sue domande non prevedevano risposte. Esse erano già insite in quel «vero?» che le concludeva. Continuavo dunque a tacere, poiché qualsiasi risposta non sarebbe risultata un sì convinto come il mio silenzio. Volevo diventare, a tutti gli effetti, un rivoluzionario di professione.
La morte del compagno Togliatti l’estate precedente, subito prima che iniziassi il mio periodo di formazione alla scuola quadri, aveva turbato i nostri sentimenti, ma il dolore della perdita del migliore ci chiedeva ancora più unità e disciplina. La sua foto campeggiava di fronte a me. Il compagno Luigi Longo, con la sua salda esperienza radicata nella Resistenza e nella cospirazione antifascista, aveva assicurato una guida certa a tutto il partito e anche le discussioni sulla lettura della fase storica tra i compagni Amendola e Napolitano da una parte e il compagno Ingrao dall’altra potevano avere luogo senza incrinare la nostra compattezza. Perché la regola del centralismo democratico richiamava sempre ciascuno di noi ai suoi doveri di lealtà verso il partito.
Il funzionario alzò lo sguardo verso di me. Dissi, soltanto: «Compagno, sono consapevole dell’impegno che il partito mi chiede e spero di essere in grado di ripagarne pienamente la fiducia. Non chiedo altro che di potere servire il mio ideale, che è il nostro ideale».
«Quale ideale, compagno?».
Non mi aspettavo la domanda, sussurrata senza alzare gli occhi, uscita dallo spazio delle labbra serrate lasciato dalla sigaretta pendula al lato della bocca. Come sarebbe a dire quale ideale? Il progresso, l’emancipazione, la rivoluzione in un solo Paese…
«Non capisco la domanda, compagno. L’ideale…».
Non mi lasciò finire, alzò gli occhi sopra le lenti da lettura scivolate sulla punta del naso e disse: «Sì, sì, va bene, non ti preoccupare… Fra una settimana esatta dovrai presentarti dal compagno segretario della federazione di Catanzaro. Decideranno lì come utilizzarti. In Calabria c’è una situazione di fermento. La riforma agraria non ha ancora dispiegato tutti i suoi effetti e oggi c’è una dura vertenza legata alla produzione del bergamotto. Da parte mia ti chiedo di portare fraterni saluti al compagno Cinanni, al quale mi lega un’amicizia profonda, che va anche al di là della comune militanza».
Così alzò la penna che stringeva in mano e si accinse a firmare. Colsi un sospiro. Segnò la sua sigla e con l’altra mano girò il foglio per avere la mia firma.
Mi avvicinai. Il fumo della nazionale accesa mi entrò negli occhi. Strinsi le palpebre. Presi la penna, che a quel punto mi porgeva, e firmai a mia volta. Erano ormai più di quattro anni che avevo lasciato la Sardegna, prima per compiere il servizio militare e poi per andare a Roma a studiare filosofia. Una settimana dopo ero in Calabria.
Mancano pochi giorni all’apertura della galleria del Sansinato. Il compagno che guida l’automobile, Peppino, mi spiega che quel buco sotto la collina renderà più facile e veloce il collegamento della città col resto del territorio.
Appena due anni fa, poco più, è stato inaugurato il ponte progettato dall’ingegnere Morandi. Un arco di cemento che unisce il centro della città alla sommità della stessa collina, posta a occidente, che stanno bucando giù da basso. Un’opera che ha suscitato l’orgoglio dei catanzaresi, facendoli sentire partecipi di questa grande stagione di programmazione e di sviluppo che si apre di fronte a noi, mi spiega ancora Peppino. In effetti il ponte, vedendolo, mi appare come una sfida della modernità, un segno di dominio della natura tracciato dall’uomo per aprire a questa città, arroccata sopra le colline e con lo sguardo rivolto al mare, le porte del suo sviluppo, nel quadro del progresso mondiale.
A ottobre la Voskhod 1 ha portato i cosmonauti Komarov, Feoktistov e Yegorov intorno al pianeta e per la prima volta l’equipaggio non indossava le tute spaziali. Tra pochi giorni partirà la Voskhod 2 e sarà un nuovo successo del socialismo sovietico. Anche questa terra del meridione d’Italia, come quelle del socialismo realizzato, deve riscattarsi dall’arretratezza. L’unione dei proletari di tutto il mondo è la nostra forza.
Peppino ferma la Seicento blu proprio mentre un leggero stato di esaltazione confonde nella mente la consapevolezza che si sta aprendo una nuova fase nella mia vita con il fervore della passione rivoluzionaria.
«Questa è piazza Matteotti e questa è la fontana con la statua del cavatore» dice Peppino invitandomi a scendere dall’auto.
Ha proprio le fattezze del realismo socialista quest’uomo di bronzo piegato a picconare la pietra, sulla quale scorre l’acqua. Ma il suo volto non è rivolto verso l’alto né il suo sguardo diretto al futuro. Lavora, fatica, guarda la pietra che spezza e si spezza la schiena.
«Siete voi Gavino Piras?».
La voce della vecchia mi giunge dal lato, mentre guardo la statua posta dentro una specie di abside di questa rocca che «era un castello, ora è il carcere cittadino», mi spiega solerte Peppino.
La donna è vestita di nero, larghissima di fianchi, con i capelli grigi che le cadono scompigliati sulle spalle. La peluria intorno alle labbra è abbondante, i denti, evidentemente, sono in numero esiguo dentro la sua bocca. Mi ricorda molto le vecchie della mia terra, che però mi appaiono alla mente più composte, velate, chiuse dentro un silenzio secolare. Lei, invece, pare aperta, rumorosa, abituata a parlare molto e ad alta voce.
«La signora Rosaria baderà a te nei primi giorni. Ti preparerà da mangiare, ti metterà a posto casa, ti laverà i vestiti», sempre pronto con le sue spiegazioni Peppino.
«Ah, sì… Molto lieto di fare la sua conoscenza, signora Carmela!».
«Certo che siete proprio giovane… E io mi chiamo Rosaria».
Risaliamo in auto. Rosaria con noi. Attraversiamo corso Mazzini, che è il centro della città, ma è una strada che si fa piccola.
«Questo è ‘u strittu, dove le case del corso sono vicine come in un vicolo. La casa vostra è sotto la Porta Marina. Praticamente siete in centro e avete una finestra che vi fa vedere il mare» mi dice Carmela.
«Aspetta Gavino. Prima di portarti a casa ti voglio fare ammirare una bella vista».
Ferma nuovamente nei pressi di una sorta di grande terrazza che dà sul mare. Scendiamo e ci avviciniamo alla ringhiera. Il pomeriggio volge verso la sera e i colori dell’aria, puliti dal vento «che non manca mai, qui da noi» si affretta a chiarire Peppino, sfumano dall’azzurro verso il violetto. Davanti a noi si apre il mar Jonio, improvviso.
«Il Golfo di Squillace» mi presenta Peppino e in effetti non c’è necessità di dire altro, di commentare.
Sulle cartine geografiche dell’Italia meridionale avevo studiato quel seno che rientra a oriente, come a occidente fa il golfo di Lamezia Terme, creando il punto continentale più stretto, un «istmo» che avvicina a pochi chilometri il Tirreno allo Jonio prima che si congiungano nello stretto di Messina.
«La vedete quella luce lì in fondo? È il faro di Capo Colonna, vicino a Crotone. Dall’altra parte, si vede poco ché ancora è troppo chiaro, c’è il faro di Punta Stilo. Insomma tutto il golfo e in mezzo ci stiamo noi».
Il magistrato di turno
1 aprile 1965
Meno male che ho smesso di fumare. Se avessi continuato come prima chissà quante sigarette avrei consumato in questi giorni. È intensa e faticosa l’attività in procura. Tensioni, contrasti, dubbi, che la sera però riesco a mettere da parte quando mi ritrovo qui a casa, con Dino e Sandro, che crescono, e Ivonne, che tra un mese deve partorire.
Certo la vita del paesino era pure gradevole e tranquilla, ma l’esperienza di pretore a Cropani non era stimolante come quella che vivo oggi a Palazzo di Giustizia. In fondo non posso chiedere di più dalla vita. Ho un lavoro impegnativo ma interessante, nella mia città. Ho questa casa Incis – Istituto nazionale case impiegati dello Stato (certo che l’acronimia fascista si sente ancora nelle sigle…) – che è quanto basta a vivere con serenità e sicurezza, con sobrietà e onestamente.
L’ospedale, qui davanti, è quasi finito. Ricordo ancora i primi tempi, tre anni fa, quando il vento soffiava tanto impetuoso da scaraventare le assi di legno delle impalcature del cantiere fino alle nostre finestre. Ora la sua costruzione ha smorzato quella forza e fin qua il vento non arriva più così violento come allora.
In queste sere in cui la primavera s’annuncia, quando risalgo a casa dal tribunale, da piazza Matteotti fino a qui è dolce camminare, tanto che il langu...