I ragazzi dell’Aurora
Entrammo nella ruga e nessuno uscì ad accoglierci. Dentro casa, carico di regali, le mie cinque reginette non mi saltarono addosso, come solitamente facevano alla vista di pacchetti che obbligatoriamente erano destinati a loro.
Vi erano stati in paese due funerali nella stessa settimana, durante la mia assenza.
Totò Serretto era tornato, dopo tanti anni, in una lussuosa cassa di noce e accompagnato dai suoi compari, sopra un lucido carro funebre aveva raggiunto una monumentale cappella rivestita di marmo bianco, a dimostrazione che aveva fatto davvero fortuna.
E anche la madre di Luciano era finita al camposanto, portata a spalla da quelli della ruga, con quasi tutti i compaesani dietro. Lei però aveva trovato posto nella nuda terra, accanto al marito.
Povera donna, stretta da quasi vent’anni nel nero lutto vedovile, da qualche giorno sembrava rifiorita, aveva smesso i lugubri abiti e, rivestita dei giovanili indumenti, pareva una verginella prossima alle nozze. E invece serena morì.
Il lutto, secondo tradizione, seguitava per otto giorni dopo il funerale, per permettere a tutti di dimostrare la partecipazione al dolore e alleviare le sofferenze di chi restava, tenendogli compagnia. Così le case, con la pezza nera appesa alla porta, diventavano luogo d’incontro dei paesani, e come sovente accade la tragedia si trasformava in farsa. Il lutto diventava una festa. Per tutti gli otto giorni, chiunque fosse il morto, ogni televisore o apparecchio radio esistente veniva tenuto spento, i parenti stretti se ne privavano fino alla conclusione del primo anniversario. Si doveva portare da mangiare e rifocillare gli addolorati, ed era una gara a chi portava di più e di meglio. Vi era un andirivieni di vassoi con latte, caffè e pasterelle d’ogni tipo, che anche chi veniva a fare visita, e ad elencare la bontà del morto, doveva essere confortato. Si passavano intere giornate a raccontare e sentire storie e storielle, che chi voleva essere informato sugli avvenimenti degli ultimi cinquant’anni quello era il luogo adatto, e vi erano più risa che lacrime. Un lontano forestiero avrebbe creduto di trovarsi a un matrimonio più che a una ricorrenza funebre.
Dopo tre giorni di baccanali, non potendone più, Luciano aveva chiuso fuori gli estimatori della madre, che mai avrebbe creduto essere così numerosi. Ed era rimasto solo a piangerla e solo al mondo.
Per le vacanze natalizie scesero in paese, a raggiungere Sante, Anna con una coppia ospite di amici milanesi. Presero posto nella casa vuota di Luciano.
Il Natale lo trascorremmo come da tradizione in montagna per la macellazione del maiale. Una festa nella festa. Due giorni di incredibili mangiate e bevute, che ancora erano sconosciuti anche per le donne diete e colesterolo.
Il primo giorno uccidemmo la bestia, la coricammo sopra una panca e con l’acqua bollente la pelammo. Appeso a testa in giù svuotammo il maiale delle interiora e sezionandolo estraemmo i tagli per capicolli, pancette, costato e lardo da salare. Quindi gli disossammo la carne destinata a salsicce e soppressate.
La carne così suddivisa fu affidata alle donne affinché la ripulissero degli scarti. Lavarono anche le budella per gli insaccati e lasciarono tutto a riposo per ventiquattro ore.
Noi uomini, terminate le nostre mansioni, ci piazzammo davanti al focolare e fra un continuo tintinnio di bicchieri, fette di formaggio caprino, pezzi di grassa carne arrosto, scodellammo a turno incredibili avventure.
Era uno spettacolo vedere mia madre dirigere l’anarchico lavoro delle donne calabro-milanesi fra le ospiti di Sante, le mie sorelle e un paio di ragazze della ruga salite ad aiutare e divertirsi, che fra pettegolezzi e risa a tarda sera avevano miracolosamente portato a buon fine il loro compito.
Il giorno seguente, quando la carne era già perfettamente asciutta, le donne riempirono le salsicce, avvolsero i capicolli, arrotolarono le pancette, salarono e peparono costato e lardo che finirono appesi alle travi a maturare, al fumo e al freddo, per almeno venticinque giorni. La carne rimasta riempì un pentolone e a tarda sera, dopo una cottura di otto ore sulle braci di quercia, fu pronta per essere mangiata. Il vino riprese a scorrere e tra brindisi e poesie in rima facemmo l’alba.
Gli ospiti gongolavano, mai avrebbero immaginato un aspetto così giocoso nel carattere degli aspromontani. Anche noi restammo sorpresi, strana gente i milanesi, affrontavano tutto senza riserve e pregiudizi con spirito di fanciulli.
Finita la parte di lavoro che era toccata loro, le donne tornarono in paese a impastare farina e infornare dolci per San Silvestro, gli uomini continuarono la festa in montagna, compreso l’amico di Anna che da lì, giurò, non si sarebbe schiodato. Nella compagnia c’era anche un anziano cugino di mio padre, Beniamino, a cui Dio non aveva concesso prole. Abitava anche lui nella ruga, rimasto vedovo da poco faceva parte della nostra casa come un vecchio nonno. Bino, com’era da tutti chiamato, rappresentava la memoria storica di quelle montagne, era il più grande conoscitore di capre e briganti, se gli mettevi davanti un capretto lui senza errore indovinava la madre e il maschio col quale si era accoppiata: «Sono come le persone, e i figli assomigliano ai genitori» diceva. Chiamava le bestie con nomi antichi a seconda dei colori, disegni e caratteristiche fisiche.
Era stato malandrino, da giovane, e aveva tentato la fortuna in America. Aveva trascorso qualche anno vivendo di camorra a Broccolino e dopo un po’ di galera era stato espulso come indesiderato. Tornato in paese s’era sposato e, ritiratosi in buon ordine, si era dedicato alle capre. Sempre, al terzo bicchiere di vino intercalava un dezz orraitt e raccontava le avventure americane. Il suo pezzo forte era la vera storia di Joe Petrosino, che lui, in America, diceva, i pezzi da novanta li aveva conosciuti di persona compresi i sicari di Vito Cascieferru, come lo chiamava storpiando il nome. I più pericolosi erano due picciotti paesani nostri di Savignana, un paese vicino. I due, raccontava Bino, tornati per vedere le famiglie, che era una scusa, partirono dai nostri monti e andarono sino a Palermo per ammazzare lo sbirro. «Uno di loro è morto qua e io ho portato le condoglianze ai discendenti» finiva di dire. A quel punto gli dicevamo che le sparava grosse e Bino, ingiuriando la Madonna della Montagna incalzava «ormai posso dirlo che non è infamità, tanto sono morti e il conto non lo hanno pagato», e tirava fuori i nomi, «Tano Misiti e Rocco Tripepi. E quando volete vi porto a Savignana che la nipote di Tripepi è viva e ha le foto del nonno con Cascieferru».
Poi, continuava a raccontare: «Negli anni cinquanta, le grotte di Malupassu erano diventate il rifugio dei ricercati, che allora si chiamavano ancora briganti. Un anno se ne contarono cinquantasei, che venivano da tutti i paesi del circondario. Nessuno, sbirro o no, si poteva avvicinare che erano schioppettate. Solo Bino poteva arrivare alla sommità del monte e banchettare con loro. Che lì era tutti i giorni festa. I briganti, ogni notte, a turni di piccoli gruppi, si spingevano sino al mare per fare razzie di animali o uomini, e i recinti erano sempre pieni di bestie che venivano rivendute e in parte mangiate, e nelle grotte soggiornava sempre qualche ostaggio, ricco possidente o nobilotto che fosse. Quando venne l’alluvione del cinquantuno che devastò metà dei paesi dell’Aspromonte, e ci fece abbandonare la montagna per la palude putrida in cui viviamo ora, sfamarono più poveracci i briganti che lo Stato, il quale infastidito dalla loro fama mandò un nutrito esercito per disperderli. Che non uno ne presero, scapparono tutti e non ci fu ovile o casa dell’Aspromonte che non li accolse. Il Genio militare minò la maggior parte delle grotte e finì la festa di Malupassu».
Ed era vero che non di rado in quella località nominata da Bino, all’interno di grotticelle nascoste dalla vegetazione, si ritrovavano ancora pelli di mucche cucite con dentro vecchi fucili e altri oggetti.
Ma la storia da me preferita era quella del lupo, e se c’erano mani volenterose a versar vino e attizzare legna, Bino continuava senza sosta.
«I caprai antichi amavano il lupo e lo consideravano compagno e amico fedele, al contrario dei pastori moderni, i quali vedono in lui un famelico predatore, lo perseguitano con lupare, tagliole e bocconi avvelenati e, egoisti, per salvare pochi capi piangono intere mandrie. Il pastore antico non si considerava proprietario esclusivo del gregge, sapeva di avere un invisibile socio, che il lupo stesso tale si considerava. Solo nei tempi moderni i cani domestici trovano posto nell’ovile dell’Aspromonte, un tempo così non era. Il lupo calabrese, contrariamente a quanto si crede, non cacciava in branco. Era un animale schivo e solitario che si univa agli altri solo per ululare e riprodursi. Ogni singola fiera si sceglieva un pascolo, un gregge, un pastore, e se ne sentiva parte. Seguiva il gregge al pascolo e teneva lontane le volpi, pericolose per i piccoli appena nati, le aquile che scendevano dopo prolungati volteggi, scacciava i cinghiali e ne divorava la prole, che per i pascoli erano una calamità. Ogni tanto placava per giorni la sua fame mangiando una capra. Attendeva le bestie al pascolo e ne atterrava una sola, avendo cura di scegliere sempre la più vecchia e malandata, contribuiva alla selezione genetica permettendo la sopravvivenza delle bestie migliori. Le bestie perse venivano presto sostituite dai nuovi nati. Quando ancora non c’erano veterinari in pochi altri posti si vedevano le splendide mandrie dell’Aspromonte. Il pastore di oggi vuole tutto per sé e così, le bestie da scartare, vecchie e malate, finiscono in macelleria e nello stomaco di fessi clienti. I lupi, braccati, sono costretti a cacciare in branco e a girare per tutti gli ovili, e se riescono a violarne uno o a trovare una mandria incustodita, il pastore si ritrova senza gregge, e per salvarne venti ne perde mille. Raccontano i vecchi che quando avevamo ancora il re a Napoli, un pio pastore, invece dell’usuale recinto aveva ricavato, dentro un antico casale di caccia, il ricovero per le capre. Come d’abitudine, la notte di Natale, per voto fatto alla Madonna della Montagna, rientrò in paese ad assistere alla nascita del Bambinello. Riparate le bestie e serrata l’uscita partì sotto un cielo stellato per assistere al sacro mistero. Ad accompagnare il lieto evento si aggiunse un’imprevedibile e fitta nevicata che rese la santa replica simile al vero. All’alba la coltre aveva raggiunto altezze spropositate, i torrenti erano in piena e il pio conduttore di armenti rimase bloccato in paese, e così il giorno appresso e quelli successivi sino a San Silvestro. Se fossero state nel recinto, le capre, salendo sulla neve avrebbero agevolmente scavalcato lo steccato e trovato qualcosa da mangiare, fossero state anche le cime degli alberi. Quando il peggio era ormai prossimo e le bestie si strappavano a morsi l’un l’altra la lana di dosso in mezzo a lugubri belati, attraverso un buco, scavato prima sotto la neve e dopo fra la porta e la terra, apparve un lupo che condusse in fila indiana il gregge fuori dalla trappola mortale. Il capraio devoto, arrivato a rischio della vita, trovò le capre che pascolavano tranquille, brucando le cime dei lecci divenuti bassi cespugli. Da quel giorno nel casale ci entrarono solo se trascinate a forza, il pastore di certo non vide il lupo, ma fu testimone oculare della galleria, e intorno al casale vi era un via vai di orme che sembrava il convegno di tutti i lupi della montagna».
L’amico di Sante e Anna era consigliere comunale, e noto professionista, a Milano. Un socialista liberale, degli inizi, e non un bacchettone moralista. Naturalmente non facemmo mai discorsi strani, non si videro mai armi o altro, certo non era uno stupido e sicuramente intuì che le quattro caciotte prodotte non erano sufficienti al nostro tenore di vita che, se non lussuoso, era sufficientemente dignitoso. Aveva uno spirito libero e si godette in pieno la vacanza. I calabresi, ci spiegò, costituivano, ormai, una parte consistente dell’elettorato milanese e una sana curiosità lo spingeva a conoscerli. Gli facemmo esplorare la montagna, con Luciano attaccato al fianco, contento di aver trovato una spugna come lui, che non finivi una risposta e già ti appioppava un’altra domanda.
Non gli sfuggiva nulla. Quando vide che per la terza volta avevamo deposto un sasso sul terzo cumulo di pietre incontrato sul nostro cammino, si fermò. Di solito, qualsiasi cosa si incontrava, si vedeva o si faceva, trovava Luciano pronto alla spiegazione. La ripetizione di quel gesto, privato della motivazione, lo convinse, all’inizio, che si trattasse di un atto condizionato, ripetuto per abitudine e non per cognizione.
Dovette insistere perché Luciano gli spiegasse il significato.
Non era un gesto condizionato, ogni volta che cambiava il versante della montagna che si stava attraversando, ci si imbatteva in un ordinato monticello di pietre. I pagani di un tempo a ogni incontro vi appoggiavano sopra, in dono, un sasso, per placare gli spiriti dei boschi e chiedere protezione per il viandante. Dall’altezza del cumulo si intuiva il numero delle persone, devote, che erano passate da lì. Dal muschio che ricopriva gli ammassi, sormontati da pochi sassi puliti, era chiaro che il culto sebbene agli sgoccioli veniva praticato ancora da pochi, ostinati, seguaci. La presenza di quei simulacri pagani in quel sentiero aveva una valenza particolare, e maggiore, rispetto ai tantissimi cumuli, che pur sommersi dal muschio vegliavano il cammino in tutti i sentieri più antichi della montagna. Quello che stavamo calpestando era il passo del Santo, protettore, insieme agli Dei pagani dei pastori, di quelle terre. E su questo culto non ammettevamo ironia, eravamo osservanti quanto i nostri antichi padri.
Quando arrivarono i monaci basiliani, intorno all’anno Mille, le ...