Fuoco del Sud
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Fuoco del Sud

La ribollente galassia dei movimenti meridionali

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Fuoco del Sud

La ribollente galassia dei movimenti meridionali

About this book

C'è un "Fuoco del Sud" che arde sotterraneo e che potrebbe irrompere proprio mentre si celebrano i 150 anni dell'Unità d'Italia. Un "fuoco" tanto sofferto quanto ignorato. Si alimenta di centinaia di movimenti, associazioni, comitati, gruppi, intellettuali che un secolo e mezzo dopo chiedono ancòra rispetto per il sacrificio imposto al Sud nella nascita della nazione, che si battono per liberare il Sud dalla sudditanza subìta sull'altare del patriottismo e della retorica. Sono i "nuovi briganti" della comunicazione e dell'indignazione di cui il Sud ha bisogno. E che grazie anche alle moderne armi di Internet raccolgono e diffondono sia un ritrovato orgoglio meridionale, sia la rabbia per la storia taciuta dalle reticenze degli archivi e delle accademie. Con la denuncia delle clamorose responsabilità dei governi nel disegno preordinato e sistematico di un Sud da mantenere arretrato. Il libro è un viaggio giornalistico pieno di sorprese in questo "Fuoco del Sud" che annuncia una insurrezione non soltanto delle coscienze. Un racconto ribollente tra una serie di "non è vero", tutte le stazioni della "Via Crucis" del Sud e finalmente risposte alla domanda: che fare?

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Information

Arretrati minuto per minuto

Dare risposte uguali a bisogni diseguali può produrre grandi ingiustizie
Don Milani (sacerdote)
Uscito dalla porta, il tormentone del divario rientra però dalla finestra. C’era un divario economico fra Nord e Sud al momento dell’Unità? E se c’era, a vantaggio di chi era? Ma forse sono domande inutili. Perché, che ci fosse o non ci fosse, non era molto importante. Buttiamo a mare la battaglia dei Movimenti meridionali? Per i quali, a parte il distinguo prima visto di Dicè (Insorgenza Civile), il divario c’era, eccome. E a favore del Sud. Iannantuoni (Partito “per il Sud”): «Enorme. Ne parlano i documenti ministeriali italiani, i diari delle Borse europee, i bilanci degli Stati e quelli delle più grandi compagnie di import-export statunitensi, inglesi, olandesi, russe». Gulì (Movimento Neoborbonico): «A sfavore del Sud ci fu solo dal 1861 in poi, quando i primati borbonici divennero tutti negativi. Allora il Sud fu svuotato e le fabbriche scomparvero. Altrimenti mi si dovrebbe dire perché oggi non guidiamo auto marca Pietrarsa, che era la Fiat dell’epoca, o non usiamo saponi Bevilacqua, o non abbiamo orologi Marantonio, o non indossiamo maglioni Sava, o non utilizziamo lavatrici Armingaud». Zitara: «Argomento ritrito, almeno dal punto di vista industriale, navale, bancario. Semmai il Sud aspettava da oltre un secolo una profonda rivoluzione nelle campagne, che sistemasse i rapporti fra proprietà borghese e contadini. I Borbone non offrirono una soluzione. Sistemò tutto a suo modo il governo unitario, con la vendita di più di un milione di ettari di terre comuni, facendo cassa per due miliardi di lire-oro che dal Sud si trasferirono al Nord, ma privando il Sud dei capitali per ogni investimento». Ladisa e Romano (Partito “per il Sud”): «Per dirne solo una, si pensi che il Piemonte si prese le cassette della posta di Napoli perché non ne aveva».
Ma a favore della mancanza di un divario ci sono due autorevoli studi scientifici. Il primo citato dai Movimenti è del professore Vittorio Daniele, dell’università di Catanzaro, e del professore Paolo Malanima, pisano trapiantato a Napoli, direttore dell’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del Cnr (Consiglio Nazionale Ricerche). La loro conclusione, con tanto di grafici, dati, proiezioni (Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia 1861-2004 in «Rivista di politica economica» marzo-aprile 2007, tutto su Internet) è questa:
- il divario fra i territori, misurato col pil procapite, non esisteva prima dell’Unità o era molto modesto (e quanto a «feudalesimo residuo – sottolinea Malanima – di sicuro al Sud ce n’era meno che nel Giappone» poi diventato un gigante);
- la forbice a favore del Nord ha cominciato ad allargarsi con l’avvio della modernizzazione del Paese;
- il divario si è acuito durante il fascismo, ridotto col boom economico 1953-73, aggravato con la crisi degli anni ’90.
Del luglio 2010, invece, lo studio (Attraverso la lente di ingrandimento: aspetti provinciali della crescita industriale nell’Italia preunitaria in «Quaderno di storia economica di Bankitalia» n. 4, luglio 2010) del professore Stefano Fenoaltea, docente di Economia Applicata all’università Tor Vergata di Roma, e di Carlo Ciccarelli, dottore di ricerca in Teoria Economica e Istituzioni nella stessa università. Simile risultato: «L’arretratezza industriale del Sud non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria». Tanto che ancòra dieci anni dopo, nel 1871, nonostante lo smantellamento dell’apparato industriale delle Due Sicilie, la guerra civile e la paralisi, il tasso di industrializzazione della Campania era all’1,01 per cento, con Napoli all’1,44 per cento (più di Torino che era all’1,41 per cento, Liguria l’1,48 per cento, Lombardia l’1,37 per cento, Piemonte l’1,13 per cento, Emilia lo 0,85 per cento). Dati precipitati per il Sud quarant’anni dopo l’Unità, nel 1911, con la sola punta della Campania allo 0,93 per cento (Napoli l’1,32 per cento) ma Lombardia l’1,67 per cento, Liguria l’1,62 per cento, Piemonte l’1,30 per cento (anche se solo nel 1921 si parlò esplicitamente di «ritardo di sviluppo», cioè 60 anni dopo: il che vuol dire che il Sud al momento dell’Unità non doveva stare così male).
Ma non ci sono solo gli studiosi. I Movimenti citano una dichiarazione molto significativa: «Prima di essere unificato, il Sud vantava un molto evoluto sistema finanziario, era a ridosso della rivoluzione industriale. I titoli delle Due Sicilie erano trattati nelle principali piazze finanziarie d’Europa. Non solo vasti settori dell’agricoltura meridionale competevano direttamente sul mercato internazionale, ma le manifatture tessili e meccaniche, i cantieri e le ferrovie delle Due Sicilie erano un forte incubatore di sviluppo industriale. Poi è venuta l’“unificazione” che ha annichilito la società meridionale e di riflesso e per conseguenza ha interrotto il suo processo di sviluppo». Si potrebbe pensare a un brigante se a dirlo non fosse stato nientemeno che Giulio Tremonti, valtellinese, superministro dell’Economia, l’11 settembre 2004, presentando per la prima volta la Banca del Sud, in coincidenza con l’inaugurazione della Fiera del Levante di Bari. Il quale Tremonti, cinque anni dopo, 15 ottobre 2009, aggiunse: «Da un giorno all’altro Napoli si ridusse, da grande capitale europea, a prefettura sabauda. Eliminate le vecchie strutture politiche centrali, il Mezzogiorno si trovò nel vuoto: senza il suo baricentro, sotto un centro che per decenni sarebbe stato remoto e alieno quando non ostile. Senza più una sua guida, sotto una guida esterna, l’economia meridionale si fermò. Le classi lavoratrici restarono sulla terra. O furono poi spinte all’emigrazione». Ulteriore appendice: l’Unità fu fatta «non col rispetto della realtà del territorio, ma con le baionette» (come risulta da documenti di «straziante interesse»). Bravo Tremonti.
Napoli, rileva a sua volta Bevilacqua, «perse la cura ravvicinata dei propri affari. E non è certo senza significato che, dall’Unità fino al 1876, per più di nove anni su quindici, i presidenti del Consiglio italiani furono di origine piemontese». E gli stessi «gruppi dirigenti meridionali al vertice dello Stato non avevano allora idee chiare sui problemi economici e sociali di quelle regioni». Meglio: le avevano ma badavano ai loro interessi.
Dicono Ladisa e Romano: «Avvenne per Napoli ciò che avverrebbe oggi per Roma se non fosse più capitale: perse ministeri, burocrazia statale, ambasciate. Con la rovina delle mille aziende fornitrici. Napoli perse anche l’esercito, la Zecca, la Stamperia nazionale. E la Corte. Ci furono centinaia di migliaia di disoccupati e sbandati, con grave tensione sociale». Ma visto che abbiamo parlato di un ministro, i Movimenti ne segnalano pure un altro, quello alla Trasparenza amministrativa, Renato Brunetta, veneziano. Il quale nel suo recente Sud. Un sogno possibile (Brunetta, 2009) scrive fra l’altro: «Chi ritiene che la meridionalità sia una specie di marchio d’inferiore qualità, o d’autoctona particolarità, dimentica molte pagine di storia». Pagine di storia che i Movimenti segnalano ancòra in Bevilacqua: «Al momento dell’Unità d’Italia, le distanze fra il Nord e il Sud, sul piano della struttura industriale, non erano così rilevanti come lo sarebbero diventate in seguito». Anche perché «lo squilibrio, grave ed evidente, era fra l’Italia e i grandi Paesi europei ormai in piena industrializzazione, mentre le disparità quantitative Nord-Sud erano contenute entro un ambito modesto: quello di un Paese che sul piano dello sviluppo industriale appariva ancora complessivamente arretrato» (Pino Aprile fa rilevare che se qualcuno parla di Napoli pezzente, deve ricordare che era anche il tempo della Parigi de I Miserabili di Victor Hugo e della Londra di David Copperfield e Oliver Twist).
Di «pretesa arretratezza e miseria delle Due Sicilie al momento della caduta» scrive Guerri. Con l’aggiunta che «i governi “piemontesi” postunitari acuirono il divario economico, sociale e culturale fra Nord e Sud» ed è «troppo facile, e comodo, accusare i Borbone e il carattere dei meridionali, portato a eccessi di pennichelle, se non di ozio quotidiano». Addirittura lo storico tutt’altro che meridionalista e campione risorgimentale Ernesto Galli della Loggia si spinge ad ammettere quanto sia «doveroso riaprire una nuova analisi del Risorgimento a condizione però che non si delegittimi lo Stato unitario» (il quale, senza verità, si delegittima da sé). E infine il ragionamento della Di Ciommo. La quale ricorda la tesi dei meridionalisti classici (Nitti, Salvemini, Gramsci): inesistenza di disuguaglianze profonde. Segnala all’opposto la tesi di un altro meridionalista (Giustino Fortunato) sulla «inferiorità strutturale (clima ostile, povertà delle risorse, lontananza dal centro dell’economia europea, durezza delle dominazioni straniere)» del Sud. Arriva alla posizione mediana di chi esclude che il progresso debba seguire lo stesso percorso in zone diverse, ritenendo che l’economia meridionale ha semplicemente avuto appunto un suo andamento particolare. E aggiunge che tutto ciò dimostra l’infondatezza del «mito dell’arretratezza e dell’immobilismo» che vede il Sud sempre come «un’area bloccata». La conclusione è che «il complesso di questi elementi ha indotto ragionevoli dubbi» sul fatto che il Sud fosse così indietro: andava come «l’Italia nel suo complesso». E il divario produttivo col Centro Nord, «pur assai consistente per alcune aree e alcuni settori», non era «né incolmabile né assoluto».
Poi però i Movimenti ribadiscono la rapina che le Due Sicilie subirono al momento dell’annessione e cui si è accennato. Non solo il mitico tesoro del Banco di Napoli, cioè i 443 milioni di lire-oro (sui 664 di tutta l’Italia unita), quasi la metà dello spaventoso deficit del Piemonte: una cifra che oggi, ha calcolato Gulì, equivarrebbe a 200 miliardi di euro, cui bisogna aggiungere le ricchezze personali del re e gli interessi da allora, conclusione 500 miliardi, che diventano mille con tutte le altre razzie. Cioè, dice Aprile, 350 questioni meridionali risolte. Il tutto senza calcolare le rapine di criminalità comune, con le quali si arriva a 1500 miliardi. Bastano pochi esempi per capire l’aria, come fa Di Fiore. Quando Francesco II abbandonò Napoli per evitare spargimenti di sangue e distruzioni, era convinto che sarebbe tornato presto. Lasciò argenterie, ori, vestiti, biancheria, così come fece la regina Maria Sofia, «sdegnando di serbare per me una tavola, in mezzo al naufragio della patria». Gli misero al riparo a Capua solo opere d’arte cui teneva particolarmente: due Van Dyck, un Raffaello, un Giulio Clovio. Contrariamente al padre Ferdinando II che aveva depositato i suoi ducati alla Banca d’Inghilterra (la nemica Inghilterra), Francesco aveva deciso di mantenere i suoi capitali al Banco di Napoli come gesto «patriottico». Tutto sparito con l’arrivo dei garibaldini. E le orgogliose ordinate finanze del Regno in due settimane allo sfascio, certificato dallo stesso sconvolto inviato di Cavour, il viceconsole Francesco Astengo.
Ma fu soltanto un assaggio di fronte all’immane rapina non soltanto al re, ma a tutto il Sud. Scrive Aprile: «Non sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate) per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati». Per non parlare dei saccheggi che seguirono a ogni operazione militare contro i briganti per cinque anni. Aggiunge Gulì (Gulì, 1998) che la maggior parte delle aziende che lavoravano per lo Stato persero le commesse (dirottate al Nord, come gli impianti: la spina dorsale della bresciana Lumezzane fu la Mongiana); le fabbriche coinvolte chiusero e si sparò sui dipendenti che protestavano: dall’acciaio alla Zecca, dalla cantieristica all’edilizia, dall’abbigliamento alle ferrovie. Con un’ondata di fallimenti e decine di migliaia di lavoratori in miseria: «delle 600 locomotive occorrenti alle ferrovie italiane, solo un centinaio fu ordinato a Pietrarsa; alle gare di appalto per i servizi postali marittimi, nessuna compagnia di navigazione meridionale fu invitata, facendo vincere quella Rubattino ligure che aveva favorito Garibaldi». E ancòra Aprile: «Le epurazioni per sospetta nostalgia borbonica buttano in strada migliaia e migliaia di impiegati pubblici, giudici, professori e docenti universitari, militari, professionisti. Persino il latte delle poppe terrone divenne inadatto e si fecero arrivare dal Nord le balie per i neonati orfani di Napoli», chissà se per migliorarne la razza, commentano Ladisa e Romano. Arrivarono dal Nord anche i manovali per stendere il brecciame ferroviario, pagandoli il doppio dei napoletani (Zitara). Ma soprattutto furono mandati al Sud gli impiegati pubblici più incapaci e disonesti, trasferiti per punizione, e messi insieme ai più servili del posto in una pletora paurosa di personale che fece saltare gli accorti bilanci precedenti, altro che giorni nostri. E che lasciarono in eredità una tradizione di cattiva amministrazione (poi addebitata al Sud come «borbonica») di cui il Sud non ha più smesso di soffrire. E si ebbe il coraggio di parlare, dice Nitti, di «burocratismo» meridionale.
Da allora cominciò la «soluzione finale» per il Sud, testimoniata in maniera impressionante dallo storico dell’economia Luigi De Rosa (De Rosa, 2005), il cui studio particolareggiato e capillare non è mai stato confutato da nessuno. E per il quale Dicè eccepisce semmai che se al posto di Sud come «provincia subordinata» avesse scritto «colonia», il testo sarebbe stato ugualmente valido «senza dover modificare una virgola». Il De Rosa è una sorta di «libretto rosso» dei Movimenti meridionali già dalla prima riga: «Nel corso della storia italiana post-unitaria – dal 1861 ai giorni nostri – diversi sono stati i modelli di sviluppo economico perseguiti dai governi che si sono succeduti. Ma una caratteristica sembra accomunarli tutti: sono stati concepiti ed eseguiti secondo gli interessi della parte più progredita del Paese e imposti alla parte più debole non solo senza coinvolgerla nelle scelte, ma senza nemmeno prepararla alle conseguenze negative che tali scelte avrebbero potuto per essa comportare». Con l’aggravante che il Sud è stato costretto «ripetutamente a interrompere l’opera che gli era stata in precedenza assegnata, per intraprenderne un’altra», e senza che si tenesse «in alcuna considerazione il danno che il repentino e radicale mutamento di rotta avrebbe procurato alla vita economica e sociale della provincia». Commenta ancòra Aprile: «Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mezzo, incluse le leggi. Il Sud fu unito a forza, svuotato dei suoi beni e soggiogato per consentire lo sviluppo del Nord. La Questione meridionale non resiste “malgrado” l’Italia unita, ma sorse da quella e dura tuttora, perché è il motore dell’economia del Nord».
Eppure, De Rosa crede a un divario a favore del Nord al momento dell’Unità, quindi i Movimenti lo definiscono tutt’altro che «neoborbonico». Se i Borbone, rileva lo storico, avessero avuto una politica «meno protezionistica, meno politicamente angusta e più, invece, di accorto “deficit spending”, che invece il conte di Cavour perseguì con determinazione», se «si fossero preoccupati meno del pareggio del bilancio e della intangibilità della loro moneta d’argento, e più dello sviluppo delle infrastrutture del Regno, quello squilibrio sarebbe stato forse meno marcato». Come dire, i Borbone dovevano essere più «keynesiani». Invece, grazie ai loro conti in regola («fino alla superstizione», commentano la Misuraca e Grasso del Brigantino), il Piemonte non ebbe difficoltà a scaricargli addosso il suo debito pubblico. E ad «appropriarsi della riserva d’argento che garantiva il valore del ducato, imponendo al quale l’equivalente di 4,25 lire gli portò via quasi il 100% del potere d’acquisto». Questa posizione di De Rosa è addirittura comoda, alla luce di quanto vedremo, perché i Movimenti sgomberino dialetticamente il campo da un’irrisolta polemica che è fra i primi veleni del dibattito sull’Unità.
Scontato che l’Unità si dovesse fare, benché anche i più convinti risorgimentali abbiano dubbi sul modo in cui fu fatta. Mettiamo anche che il Sud fosse indietro rispetto al Nord. E consideriamo una balla l’estremismo mistico di chi afferma che il Regno delle Due Sicilie fosse un paradiso. Il risultato non cambia. Perché non solo il nuovo Stato non fece nulla, anzi fece il contrario, per ridurre questo divario, ma tutta la sua politica lo aggravò portandolo, appunto, fino ai nostri giorni. Scrive Ressa: «fu messo in opera un preciso disegno dei “vincitori sul campo”: l’asse Torino-Milano-Genova doveva avere il monopolio dell’industria italiana, con un ruolo prevalentemente agricolo e di fornitore di manodopera a poco prezzo al Sud». Un accordo, aggiungono Ladisa e Romano, «fra i poteri economici forti del Nord e gli agrari del Sud, con lo Stato grande mediatore» (tesi anche di Brunetta: «Un affare coloniale, con l’esplicita alleanza fra il capitale degli invasori e il patrimonio dei possidenti colonizzati»).
I Movimenti ricordano che nel 1875 Pasquale Villari, napoletano emigrato a Firenze, nelle sue Lettere meridionali scrisse che così a governare il Sud non era sorta «una nuova classe media, ma erano rimasti i proprietari terrieri, vecchio ceto padronale miope, arroccato nella difesa e gestione dei propri interessi, vero schermo fra i ceti popolari e il potere governativo». Così, dice De Rosa, all’ansia del Piemonte «di uscire rapidamente dallo stato di bancarotta» e all’impazienza del Nord «di assicurarsi subito un mercato addizionale per il collocamento dei suoi prodotti», il Sud «non seppe opporre le aspettative e gli ideali dei suoi patrioti, che pure avevano sofferto il carcere, l‘esilio e anche la morte per la causa nazionale». Per giunta «assumendosi la responsabilità di non aver contribuito a creare un’effettiva ed efficiente patria italiana».
Ciò che avvenne da allora è una sequenza incredibile di «colpi durissimi» al Sud, come le stazioni di una Via Crucis. Sequenza nella quale, dopo tanto tempo, c’è ancòra ogni risposta, una dopo l’altra, ai problemi attuali del Sud. E risposta punto per punto alle accuse che gli si rivolgono.
Prima stazione della Via Crucis: le tasse («Gesù è flagellato, deriso e condannato a morte»).
La prima decisione dell’Italia unita fu l’imposizione di una fiscalità feroce in un Sud che praticamente non aveva mai avuto tasse (solo cinque, due su immobili e terreni, più bolli, tabacco e lotterie). Gulì ha calcolato che quelle nuove furono addirittura 37. Compresa una tassa di guerra per far pagare al Sud la conquista che aveva subìto (7.905.607 lire come «spese per la spedizione di Garibaldi», rogito del notaio Gioacchino Vincenzo Baldioli: equivalenti a 30 milioni di euro). Ma Torino parlava di rimborso spese per avervi liberato, «sacrificio» non richiesto. Con l’aggravante, rileva Ressa, che le imposte indirette furono quantitativamente il doppio di quelle dirette, gravando quindi sui consumi dei redditi più bassi. I quali furono ulteriormente danneggiati perché le imposte dirette vennero applicate col criterio della «proporzionale secca», cioè non erano progressive. Così le classi agiate pagavano quanto quelle meno agiate: i ricchi vivevano sulle spalle dei poveri. E il Nord sulle spalle del Sud. Altro esempio l’imposta fondiaria, calcolata da Nitti (in base agli Archivi del Regno): nel 1866 il Sud ne pagava 70 milioni contro i 52 milioni del Nord (con «amenità» di aliquote per ettaro dell’8,8 per cento in Lombardia e Veneto, del 15 per cento in Calabria, del 20 per cento in Sicilia, e stesse disparità nella sovrimposta comunale). E ciò nella «presunzione», in attesa di accertare la situazione dei valori catastali, che il Nord fosse più gravato fiscalmente del Sud (Servodio, 2002). La «provvisorietà» durò 40 anni.
Stessa musica per l’imposta sulla proprietà edilizia: il Sud pagava più del Nord. Giustificazione: siccome la massa dei contadini del Nord risiedeva in campagna e quella del Sud nei borghi rurali, le case al Nord rientravano nei fondi rustici e quindi nell’imposta fondiaria, al Sud erano invece considerate addirittura fabbricati. Eppure, commentano Ladisa e Romano, si diceva che il Sud del 1860 fosse molto più povero del Nord: per le tasse improvvisamente diventa ricco? Fatti tutti i conti, l’ingiustizia fiscale costò al Sud 100 milioni all’anno: Nitti e Servodio calcolano che, ancora nel 1901, il Sud produceva il 22-23 per cento del reddito nazionale ma pagava imposte per il 35-37 per cento. Al Sud c’erano naturalmente molte più espropriazioni per il mancato pagamento delle tasse.
Non diversamente la spesa pubblica, non solo degli esordi dell’Unità: mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 per quelli del Sud (Lorenzo Del Boca). Così come avvenne per gli aiuti ai comuni piccoli e a quelli poveri tra 1876 e 1886: per due terzi al Nord e per un terzo al Sud perché al Sud c’erano comuni più grandi e popolosi e automaticamente definiti più ricchi. Scrisse Zitara (Zitara, 2001): «È grazie a una interminabile messe di leggi come questa che, dal 1860 al 1998, lo Stato spende in Campania 200 volte meno che in Lombardia, 300 volte meno che in Emilia, 400...

Table of contents

  1. Fuoco del Sud
  2. Colophon
  3. Indice
  4. La disunità dell’Italia unita
  5. Dateci i «nuovi briganti»
  6. La Bugia Risorgimentale
  7. Tutto il Sud al muro
  8. Come si crea un Inferno
  9. Acqua santa e acqua salata
  10. Arretrati minuto per minuto
  11. Alla caccia del «Che fare»
  12. Grideranno le pietre
  13. Ringraziamenti
  14. Bibliografia