Rivista di Politica 2/2015
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Nicholas J. Spykeman. La politica di potenza e la guerra

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Nicholas J. Spykeman. La politica di potenza e la guerra

About this book

Il triangolo imperfetto. Russia, Turchia e Azerbaigian nello scacchiere caucasico - Marco Valigi, Carlo FrappiOltre la geopolitica: il realismo politico di Nicholas J. Spykman - Corrado StefanachiL'implosione delle élites democratiche: la solitudine al potere del leader politico - Antonio Campati Dalla Prima alla Seconda Repubblica: quanto ha contato la politica estera nella transizione italiana? - Emidio DiodatoLa vittoria dei Conservatori in Gran Bretagna: le conseguenze per il sistema politico inglese - Claudio MartinelliLe ambizioni della Cina in Asia centrale: diplomazia e affari - Alessandra CappellettiIl ritorno di Sarkozy e i nuovi scenari della politica francese - Michele Marchi

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CONGETTURE E CONFUTAZIONI

VicTory! Il Regno Unito dal
governo di coalizione
alla maggioranza conservatrice

di Claudio Martinelli
Pochi giorni prima del referendum indipendentista scozzese venne annunciato che la principessa Kate aspettava un secondogenito. Nell’imminenza delle elezioni parlamentari i sudditi di Sua Maestà hanno gioito per la nascita della royal babe, quarta pretendente al Trono nella linea di successione. Tra il serio e il faceto si potrebbe parlare di un’interferenza di Buckingham Palace nella politica britannica, tramite un richiamo ai valori conservatori di continuità del Regno incarnati dalla Monarchia. Ebbene, chi ventilasse, anche solo per gioco, una sorta di influenza della piccola Charlotte per spiegare la vittoria dei Tory di David Cameron alle elezioni di Westminster del 7 maggio 2015 sbaglierebbe di grosso. Le ragioni sono in realtà molto profonde e chiamano in causa esclusivamente fattori politici ed economici.
Questo rinnovo della Camera dei Comuni è arrivato al termine di una legislatura particolare sul piano costituzionale e di difficile interpretazione sul versante politico. Come è noto, le elezioni del 2010 avevano proposto una situazione di hung parliament con la conseguente impossibilità di formare un one party government: una condizione eccezionale e disagevole, considerata la generalizzata avversione dell’opinione pubblica britannica verso i governi composti da più partiti. Eppure, i Conservatori, partito di maggioranza relativa con 307 seggi su 650, scartata la scivolosa opzione del minority government, si rivolsero ai Liberal Democratici (forti di 57 seggi) per formare una coalizione che godesse della maggioranza assoluta. Tra le due formazioni politiche, però, le differenze programmatiche erano molto marcate e in campagna elettorale i due leader, Cameron e Clegg, non si erano risparmiati reciproci attacchi. Vi erano tutte le premesse perché si aprisse una legislatura instabile e conflittuale. E invece, a dispetto di tutti i profeti di sventura che già si agitavano, nel giro di pochi giorni venne trovato un accordo, redatto e pubblicato un dettagliato Coalition Agreement, e il nuovo governo Tory-Libdem iniziò ad operare. Sui temi politico-istituzionali l’Accordo presentava notevoli motivi di interesse e disegnava un processo di riforme particolarmente incisivo. Nick Clegg, pur conscio della condizione di junior partner del suo partito, ottenne l’inserimento di diversi punti strategici. Innanzitutto venne sancito l’impegno dei due partiti a sostenere l’iter parlamentare di una legge istitutiva di un referendum sul sistema elettorale. Gli elettori sarebbero stati chiamati a decidere se mantenere il sistema plurality FPTP, ovviamente difeso dai Conservatori, o introdurre l’Alternative Vote System, caldeggiato dai Libdem perché più favorevole al conseguimento di un’adeguata rappresentanza parlamentare da parte del terzo partito dello schieramento. La consultazione referendaria, tenuta il 5 maggio 2011, vede prevalere una maggioranza schiacciante a favore del mantenimento (67%): i Tory esultano, i Libdem accusano la sconfitta ma la coalizione non si spacca perché tutte le forze politiche accettano serenamente il responso popolare.
Inoltre, di lì a qualche mese, Clegg incasserà un successo di portata storica trasformando in legge un punto qualificante del Coalition Agreement, ovvero il Fixed-term Parliament Act 2011. Il combinato disposto del Septennial Act 1715 e del Parliament Act 1911 qualificava solo come durata massima il periodo di cinque anni per ciascuna legislatura. Di conseguenza, il Parlamento britannico non aveva mai avuto una durata prefissata. Questa peculiare caratteristica costituiva la base logico-giuridica su cui si era andato formando per via consuetudinaria il potere del Primo Ministro di “consigliare” al Sovrano lo scioglimento anticipato della Camera dei Comuni, prerogativa utilizzata più volte sia dai Premier conservatori che laburisti. Ebbene, la nuova legge cancella questa opportunità per il Primo Ministro e contempla lo scioglimento anticipato solo in due situazioni, entrambe riconducibili all’attività parlamentare: una espressa mozione di “autoscioglimento” votata dai 2/3 dei deputati, oppure la mancata approvazione da parte della Camera dei Comuni di una mozione di fiducia verso un nuovo Esecutivo entro 14 giorni dall’apertura di una crisi di governo. Si tratta di una modifica di rilievo ad uno dei tratti fondamentali del tradizionale modello Westminster, animata dalla finalità di riequilibrare i rapporti di forza tra Parlamento e governo.
Specifiche previsioni del Coalition Agreement hanno dato frutti importanti anche sul piano dell’accountability della classe politico-parlamentare. Negli ultimi mesi sono state approvate due leggi sui Pari del Regno che prevedono, tra l’altro, la loro decadenza se condannati a pene superiori a un anno o nel caso in cui non partecipino ad un’intera sessione di lavori, nonché la possibilità di contemplare nel regolamento della House of Lords la sospensione temporanea o l’espulsione definitiva a seguito di una cattiva condotta disciplinare. E infine, una legge recentissima ha introdotto per i membri dei Comuni una circostanziata procedura di recall, a seguito di condanne penali o sanzioni disciplinari. In questi casi la procedura si conclude con una suppletiva (by-election), a cui può candidarsi anche il “richiamato”, che così si potrà sottoporre al giudizio del corpo elettorale della sua constituency.
Ma la scorsa legislatura ha segnato risultati notevoli anche in tema di diritti civili, con l’estensione agli omosessuali del diritto matrimoniale, e soprattutto in campo economico, con l’uscita definitiva della Gran Bretagna dalla crisi finanziaria aperta nel 2007-2008 e la realizzazione di tassi di crescita che hanno sfiorato il 3% annuo: un autentico miraggio per parecchi governi continentali.
Sulla base di questo background si apriva una campagna elettorale molto tesa ma combattuta dai partiti soprattutto sul terreno dei programmi e degli strumenti per raggiungere gli obiettivi fissati da ciascuna forza politica nel proprio Manifesto elettorale. Gli argomenti più dibattuti sono stati di gran lunga quelli legati ad economia e welfare: sviluppo, lavoro, sanità, casa. I Laburisti hanno puntato quasi tutto sulle politiche redistributive, mentre gli autonomisti scozzesi dell’Snp hanno coniugato la tradizionale impostazione socialdemocratica con le rivendicazioni nazionaliste della loro terra. Nel campo della destra populista lo Ukip di Nigel Farage ha soffiato sui problemi dell’immigrazione come grimaldello per attrarre i voti antieuropeisti. Al centro, i liberaldemocratici non sono apparsi in grado di proporre un’identità precisa che li rendesse appetibili, schiacciati dall’ondata nazionalista in Scozia, loro importante bacino elettorale, e da un’alleanza di governo mai completamente accettata dal proprio elettorato. Dal canto loro i Conservatori hanno rivendicato i successi della passata legislatura cercando nel contempo di presentarsi come “partito della nazione”, cioè attento agli interessi di tutte le componenti sociali e nazionali.
Tutti i sondaggi pre-elettorali preventivavano un testa a testa Tory-Labour con percentuali oscillanti tra il 34 e il 36% dei voti, utili solo per il raggiungimento di una maggioranza relativa dei seggi. Ma anche nel Regno Unito i sondaggi elettorali, come più volte accaduto in Italia e recentemente anche in Israele, hanno clamorosamente sbagliato proprio la previsione più importante. Il 36,9% dei consensi è risultato sufficiente ai Conservatori per ottenere 331 seggi, dunque l’agognata maggioranza assoluta per governare da soli, mentre i Laburisti, fermi al 30,4%, hanno saputo conquistarne solo 232. Grande sorpresa di tutti quei commentatori, al di qua e al di là della Manica, che nelle settimane precedenti si erano esercitati con le alchimie delle alleanze di governo, prospettando tutto e il contrario di tutto: riproposizione della coalizione Tory-Libdem; sterzata a sinistra con un’alleanza Laburisti-Snp; svolta a destra con un accordo anti-UE Conservatori-Ukip, e via alambiccando.
Un unico punto veniva dato per certo, e cioè la riproposizione della situazione di hung parliament. E invece: maggioranza assoluta ai Conservatori, bruciante sconfitta dei Laburisti, boom degli scozzesi che nel loro territorio si aggiudicano 56 seggi su 59 (con un incremento di 50 rispetto al 2010), crollo verticale dei Libdem che si fermano a 8 seggi, uno solo per lo Ukip nonostante il 12,6% dei voti. Ne sono conseguite le dimissioni immediate di Miliband, Clegg e Farage, nonché la rapida formazione del secondo governo Cameron, la cui compagine ministeriale è stata costruita con un abile dosaggio di tutte le variegate componenti del Partito conservatore.
Di fronte ad un esito così clamoroso si impone qualche considerazione sul sistema politico del Regno Unito e sulle avvertenze necessarie quando ci si propone di interpretarlo, avvertenze evidentemente non tenute nel dovuto conto da parte di troppi analisti.
All’indomani delle elezioni europee del 2014 che avevano visto l’esplosione dello Ukip, l’irrompere sulla scena del suo leader e dei due temi cruciali dell’Europa e dell’immigrazione, da più parti era stato cantato il de profundis per il bipartitismo britannico: il destino dell’Isola sarà di assomigliare sempre più ad alcuni frammentati sistemi europei, dovrà rassegnarsi alla consuetudine dei governi di coalizione e a subire l’influenza determinante dei partiti estremisti, l’instabilità politica regnerà sovrana.
Tutte queste previsioni, però, scontavano alcuni evidenti difetti, tipici di chi guarda alle cose britanniche con le lenti di ingrandimento che si usano per i sistemi politici continentali, come per esempio quello italiano.
Intanto bisogna ribadire che in Gran Bretagna le elezioni europee non fanno testo per almeno due motivi. Il primo riguarda il sistema elettorale. L’adozione di un sistema proporzionale, principio richiesto agli Stati-membri dalle regole comunitarie, cambia la percezione del cittadino medio che, sentendosi in “libera uscita”, vota con l’intenzione di lanciare moniti e messaggi ai partiti tradizionali più che per eleggere i propri rappresentanti in un’assemblea che avverte come lontana e di cui gli importa ben poco.
Il secondo, invece, chiama in causa proprio lo specialissimo rapporto che i britannici, e gli inglesi in particolare, hanno da sempre con il Parlamento di Westminster, con la sua storia, tradizione e funzione costituzionale. L’opinione pubblica in questi ultimi anni è risultata certamente turbata dai non pochi scandali che hanno toccato membri di questa istituzione (oltre che del governo), soprattutto relativamente allo spinoso tema dei rimborsi spese. E tuttavia questo rapporto non ha vacillato più di tanto, anche grazie alle contromisure, legislative e regolamentari, adottate dalla stessa istituzione. In realtà, non si riflette mai abbastanza sulle implicazioni dell’assenza di una Carta costituzionale, scritta e rigida sul modello europeo continentale o Nordamericano: il Parlamento è l’incarnazione, ideale e materiale, della British constitution, del suo moderno sviluppo in senso democratico, dei suoi concreti meccanismi di funzionamento, alcuni ormai disciplinati per legge ma altri lasciati ancora in buona misura alle constitutional conventions sedimentate con il tempo. Questo modo di concepire la costituzione e le sue istituzioni fondamentali genera nell’elettore una mentalità fortemente radicata, cioè la convinzione che il voto sia il primo anello di una catena su cui si fonda la forma di governo parlamentare: voto popolare, scelta di un partito e di un programma per la legislatura, indicazione alla Regina di un leader da nominare Primo ministro e, contestualmente, di un partito di opposizione che formi lo shadow cabinet. In questo contesto l’elettore è cosciente di essere un tassello fondamentale degli equilibri e delle dinamiche costituzionali ed è pienamente consapevole che la competizione che si svolge all’interno di ogni collegio (non a caso chiamato constituency, ovvero parte costitutiva della costituzione britannica) contribuisce a determinare lo spartiacque tra vincitori e sconfitti. Dunque è animato da una spiccata propensione a non disperdere il voto, tendendo a farlo convergere su partiti e candidati che hanno concrete speranze di conquistare il seggio e, in proiezione nazionale, la maggioranza parlamentare e il governo del Paese. In virtù di queste considerazioni si spiega meglio sia l’attaccamento al tradizionale maggioritario secco dimostrato in occasione del referendum...

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  4. Numero 2 Aprile-Giugno 2015