Tangentopoli
eBook - ePub

Tangentopoli

  1. 196 pages
  2. English
  3. ePUB (mobile friendly)
  4. Available on iOS & Android
eBook - ePub

Tangentopoli

About this book

Vent'anni fa fu arrestato Mario Chiesa. Vent'anni fa chiuse i battenti la Prima Repubblica, rasa al suolo con modalità anomale da un gruppo di Pubblici Ministeri che assunse un ruolo rivoluzionario e moralizzatore. Con la complicità di giornalisti e avvocati. L'operazione fu sicuramente politica, non si sa bene quanto spontanea, quanto dovuta a norma di legge. I reati di finanziamento illecito sicuramente ci furono, come denunciò in Parlamento lo stesso Bettino Craxi. Sicuramente ci furono anche i casi individuali di corruzione. Ma il fenomeno "Mani pulite" fu una rivoluzione strabica e incompiuta, una vera guerra chirurgica in cui saltarono ruoli e regole. Ne uscirono con le ossa rotte la Dc e l'intero pentapartito, si salvò il Pci-Pds che pure partecipò al banchetto. La magistratura milanese si mangiò i piccoli imprenditori ma uscirono salvi la Fiat, De Benedetti e l'"Eni buona". Ci furono anche morti e feriti: 43 suicidi, tra cui Gardini che il Pool non volle interrogare da libero e Cagliari cui fu promessa una libertà che non arrivò. Fu giustizia?

Frequently asked questions

Yes, you can cancel anytime from the Subscription tab in your account settings on the Perlego website. Your subscription will stay active until the end of your current billing period. Learn how to cancel your subscription.
No, books cannot be downloaded as external files, such as PDFs, for use outside of Perlego. However, you can download books within the Perlego app for offline reading on mobile or tablet. Learn more here.
Perlego offers two plans: Essential and Complete
  • Essential is ideal for learners and professionals who enjoy exploring a wide range of subjects. Access the Essential Library with 800,000+ trusted titles and best-sellers across business, personal growth, and the humanities. Includes unlimited reading time and Standard Read Aloud voice.
  • Complete: Perfect for advanced learners and researchers needing full, unrestricted access. Unlock 1.4M+ books across hundreds of subjects, including academic and specialized titles. The Complete Plan also includes advanced features like Premium Read Aloud and Research Assistant.
Both plans are available with monthly, semester, or annual billing cycles.
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Yes! You can use the Perlego app on both iOS or Android devices to read anytime, anywhere — even offline. Perfect for commutes or when you’re on the go.
Please note we cannot support devices running on iOS 13 and Android 7 or earlier. Learn more about using the app.
Yes, you can access Tangentopoli by Tiziana Maiolo in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Historia & Historia italiana. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.

Information

Tangentopoli, impossibile uscirne

(senza il permesso del pool)

Ci hanno provato in tanti a trovare il sistema per uscire da tangentopoli. Invano. Bastonati, l’uno dopo l’altro, i governi con i loro decreti. Carta straccia. Infilzati come tordi i ministri della giustizia, da Martelli a Conso, da Biondi a Mancuso fino a Flick e Mastella. Nessuno, né i governi né i ministri guardasigilli, pareva mai esser legittimato. Gli unici a trovare il consenso partecipe dei magistrati furono i componenti di un singolare comitato composto da industriali, avvocati e gli stessi pubblici ministeri, che complottarono un giorno a Cernobbio, al consueto simposio dello Studio Ambrosetti, un appuntamento prestigioso cui partecipano ogni anno ministri, premi Nobel, imprenditori. In quella sede fu illustrato un progetto che pareva finalizzato solo a umiliare ancora la classe politica. E la classe politica si vendicò. Neanche quel progetto ebbe futuro. Il futuro vide cadere miseramente ogni tentativo di uscita da tangentopoli. Del resto a un certo punto, rasa al suolo la Prima Repubblica, spariti i partiti del finanziamento illecito e della «dazione ambientale», pareva non esserci più bisogno della soluzione politica per tangentopoli. Ma il pool di Milano non demordeva. Berlusconi non era ancora entrato in politica, e già il procuratore Borrelli lo invitava a non candidarsi. E cominciarono le inchieste «ad personam». A partire dal 1994, dalla corruzione alla mafia fino agli scandali sessuali, saranno tutte concentrate su un unico soggetto. E ancora oggi, benché Borrelli sia in pensione, Di Pietro un leader politico, D’Ambrosio senatore del Pd, Davigo in cassazione, la caccia continua. Con un particolare protagonismo di un pm donna, Ilda Boccassini, che in molti vedono come il vero successore di Tonino da Montenero.

Il «colpo di spugna» di Conso

I primi a cercare una soluzione furono il presidente del Consiglio Giuliano Amato e il suo guardasigilli Giovanni Conso, gli ultimi governanti della Prima Repubblica. Conso era il ministro cattolico alla Giustizia, che aveva sostituito il socialista Claudio Martelli quando questi fu raggiunto da un avviso di garanzia. Secondo quanto dicono le cronache del tempo, il decreto «Conso» era stato concordato con il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Lui in seguito smentì, come si fa nelle situazioni spiacevoli o imbarazzanti. Ma inizialmente pareva non ci fosse niente di imbarazzante, quanto piuttosto di urgente. Il Parlamento era bloccato da un anno, decimato dagli avvisi di garanzia e dalle richieste di autorizzazione a procedere. Si erano già dimessi due segretari di partito, il socialista Bettino Craxi e il repubblicano Giorgio La Malfa. C’erano stati i primi suicidi, tra cui quello del deputato Sergio Moroni che aveva molto colpito i parlamentari, tanto che il presidente della Camera Giorgio Napolitano aveva letto in aula la sua lettera d’addio con la voce rotta di pianto. Poco tempo prima Craxi aveva sillabato con fermezza in aula: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», chiamando in causa tutti i partiti sui finanziamenti illeciti e illegali.
Il progetto del decreto «Conso» era molto semplice e molto sensato, e dava una via d’uscita per evitare il carcere preventivo, la vera ingiustizia di quegli anni. Il 5 marzo 1993 il Consiglio dei Ministri vara la soluzione politica per tangentopoli. Depenalizza il reato di finanziamento illecito ai partiti, prevedendo sanzioni amministrative con la restituzione triplicata delle tangenti e l’interdizione dai pubblici uffci per un periodo che va dai tre ai cinque anni. Ma istituisce anche una sorta di patteggiamento allargato per i reati di corruzione e concussione, con sconti di pena che possono far evitare il carcere.
Un bel sospiro di sollievo per le centinaia di parlamentari che vivevano con terrore la possibilità che la legislatura (del resto ormai decotta) terminasse, che si sciogliessero le Camere e che per loro scattassero le manette. Il decreto fu inviato al Quirinale per la firma del Presidente. Che il testo fosse stato concordato e limato era nelle cose, e anche nelle abitudini, forse più nella Prima che nella Seconda Repubblica. Accadde però quel che non sarebbe dovuto accadere, ma che da allora in avanti accadrà sempre. Forte di quel consenso popolare che i funzionari dello Stato non dovrebbero cercare né avere, intervenne la magistratura, arrogandosi il diritto di bloccare una legge dello Stato. Cosa che avvenne.
La magistratura si concretizzò nella persona del procuratore capo della Repubblica di Milano, Saverio Borrelli, il quale impugnò un foglietto, si affacciò ai nostri televisori, entrò tranquillamente nelle nostre case e manifestò il proprio dissenso. L’uomo non era uso a tanta pubblicità, fino al 1992 pareva sobrio e schivo, poco incline all’esibizionismo, per censo e abitudini. La cronaca, più che la storia, cambiò anche lui. Quando il suo viso preoccupato raggiunse le case degli italiani, il decreto «Conso» era già morto. Tanto morto che il presidente Scalfaro, con coraggio e sprezzo del pericolo, non lo firmò. Il governo e il Parlamento avrebbero potuto infschiarsene e ripresentarlo, ma non lo fecero. Non per rispetto alla più alta carica dello Stato, ma per paura di un gruppo di funzionari, di cui Borrelli era il capo, che lavoravano al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano.
Ognuno fece il proprio gioco, in quei giorni. I magistrati di Milano, che pure avevano lasciato intendere, sia sui giornali, che a voce a qualche messaggero del governo, di essere disponibili a una soluzione, lanciarono il loro niet a reti unificate con le parole stizzose di Borrelli:
Abbiamo appreso che le iniziative del Governo sarebbero state giustificate sulla base di nostre dichiarazioni. Ma in realtà le nostre opinioni [...] sono di natura, portata e significato esattamente opposti rispetto al senso dei provvedimenti adottati.
Ancora più secco il procuratore aggiunto D’Ambrosio: «La classe politica responsabile di un sistema di tangenti ha deciso di assolvere se stessa»1.
Contò molto, in quei giorni, l’opinione pubblica, che i magistrati prima indirizzarono e poi cavalcarono al galoppo. Qualunque soluzione veniva vissuta come un affronto personale al pool di Milano. Quasi si volesse procedere a un’assoluzione di massa. E i «fiaccolatori» erao sempre pronti a fare il girotondo intorno al Palazzo di giustizia. Il presidente Scalfaro, un po’ per prudenza «un po’ per non morir», giocò una partita in proprio, cominciando a sperimentare quel ruolo di «arbitro centroavanti» di cui sarà campione massimo durante il successivo governo Berlusconi.
La stampa fece la sua parte. Il decreto fu battezzato «colpo di spugna», o anche «salva ladri», pur se questo termine risuonerà ben più alto quando, un anno e mezzo dopo, vedrà la luce il decreto «Biondi». Anche questo morirà in culla dopo un’esibizione televisiva del pool. Ma intanto, i quotidiani di proprietà Fiat e De Benedetti, otre a quello organico all’unico partito che si salverà, «l’Unità» del Pci-Pds, avevano cominciato il loro battage. Soltanto anni dopo, alcuni di quei direttori che fecero precise campagne politiche allo scopo di smantellare l’assetto di governo e aprire la strada alla «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto e D’Alema, confessarono. Uno per tutti: «Ci bastò scrivere decreto salva ladri – dirà Antonio Polito, allora caporedattore di «la Repubblica» – e il gioco era fatto: interpretammo e indirizzammo l’opinione pubblica»2. «Indirizzammo», parola chiave. Le manifestazioni intorno al Palazzo di giustizia continuarono e si moltiplicarono. Il cerchio si chiudeva: i pubblici ministeri bucavano la tv dicendo che non potevano più lavorare, i giornali degli industriali patteggiatori e della sinistra scrivevano la parola «ladri», la gente andava in piazza, il Presidente della Repubblica non firmava.
Il gioco si è da allora ripetuto diverse volte, all’infinito, e continua ancor oggi.

Il decreto «salva ladri» di Biondi

1994: era passato un anno e pareva un secolo. Ero di nuovo in Parlamento, con Forza Italia, una scelta che avevano fatto anche i radicali e gran parte di un mondo politico che non esisteva più, quello del pentapartito: gruppi sciolti e singoli democristiani, socialisti, socialdemocratici, liberali, repubblicani cercavano una nuova casa. Dalle macerie della Prima Repubblica erano emersi, eterni impuniti, pur colpevoli di finanziamento illegale e di corruzione come gli altri, solo i comunisti. Non si chiamavano più Pci, ma Pds, poi Ds, oggi Pd. Ma erano sempre loro. Tranne Achille Occhetto, l’unico della famiglia che chiese scusa agli italiani, i dirigenti eredi di Togliatti sono sempre rimasti al loro posto. Le stesse persone, le stesse facce.
Il 28 marzo 1994 Silvio Berlusconi vince le elezioni, accompagnato dal gioioso grido di benvenuto del procuratore capo di Milano Saverio Borrelli: «Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». Nella divisione della guerra chirurgica tra imprenditori buoni e cattivi, Berlusconi era stato già catalogato tra questi ultimi. Le inchieste del 1992-93 avevano già lambito la Fininvest, azienda di famiglia, ma pochi se ne erano curati, sicuramente non la stampa. Anche l’arresto di Aldo Brancher, braccio destro di Fedele Confalonieri alla Fininvest e che io avevo incontrato a San Vittore, era passato alquanto inosservato. Berlusconi non aveva capito (o non lo aveva manifestato) che la Procura di Milano gli aveva mandato un messaggio piuttosto esplicito.
Eppure l’intervista di Borrelli al «Corriere della Sera» era del 20 dicembre 1993, quando le voci di un ingresso in politica di Silvio Berlusconi sono insistenti. Il Procuratore capo di Milano comincia a mettere le mani avanti, pur se il Cavaliere di Arcore viene irriso e valutato dai sondaggi come uno che sarebbe potuto arrivare al massimo al 6%. Borrelli dice chiaramente: «Tiratevi da parte [...] prima che arriviamo noi». Noi chi? Noi magistrati, ovvio. Ma non solo. Quel «noi» è ambientale, è un mondo che parte da lontano, da quel comitato che si esibì all’incontro dello Studio Ambrosetti, che si immerge in quell’area cattolica di cultura dossettiana da cui proviene anche Romano Prodi. È il mondo degli impuniti di tangentopoli: politici, finanzieri, imprenditori, avvocati, giornalisti. Il mondo delle «mani pulite». Ieri avversari di Andreotti e Craxi, oggi di Berlusconi.
Quel che succede, prima delle elezioni, a Berlusconi e alla sua creatura politica ancora in fasce, Forza Italia, che poi diventerà il primo partito italiano, è da libri di storia. Mentre a Milano i magistrati si danno già da fare, cercando di arrestare il fratello Paolo, perquisendo Publitalia (la concessionaria di pubblicità della Fininvest) e chiedendo le manette per Marcello Dell’Utri, la tragicommedia viene sfiorata in un’altra parte d’Italia, tra Palmi e Roma. Un magistrato che conduceva un’inchiesta sulla massoneria, la dottoressa Maria Grazia Omboni, mandava la polizia giudiziaria nella sede romana di Forza Italia a controllare gli elenchi degli iscritti. E a Milano altri agenti cercavano altri elenchi, quelli degli iscritti ai club. Mancavano quattro giorni alle elezioni. La macchina era stata messa in moto.
È in questo clima, creatosi prima ancora delle elezioni del 27 e 28 marzo, che nasce, nell’estate del 1994, il decreto «Biondi». Alfredo Biondi, liberale vero, era il guardasigilli del governo Berlusconi. Il suo provvedimento non è fratello siamese di quello voluto dall’ultimo ministro della Prima Repubblica, Giovanni Conso, ma ne è parente stretto. È di nuovo un tentativo di autodifesa di un mondo politico ancora debole, privo degli anticorpi atti a fronteggiare l’assalto della corporazione giudiziaria. La data è quella della presa della Bastiglia, il 14 luglio. Non sempre porta fortuna. Che il decreto fosse solo autodifesa o anche una sacrosanta questione di principi, ormai poco importa. Probabilmente nelle intenzioni era un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma era giusto e giuridicamente fondato. Io personalmente l’ho votato e lo rivoterei oggi.
Ero stata eletta quell’anno presidente della Commissione giustizia della Camera, con alle spalle una stagione di leggi speciali, a causa del terrorismo e dell’acuirsi delle stragi di mafia, culminate negli assassinii di Falcone e Borsellino. Leggi speciali che io e pochi altri avevamo combattuto in Parlamento, nell’estate torrida del 1992. Così, quando il ministro Biondi presentò il decreto che interveniva sulla custodia cautelare, sull’annoso rapporto tra accusa e difesa nel processo e sulla riservatezza delle indagini, per noi garantisti era parso un soffio di aria pura: finalmente una legge non emergenziale che si poneva dalla parte dei diritti dei cittadini.
Una riforma che andava fatta e basta. Era tempo di uscire dalla logica delle leggi speciali e repressive che vanificavano lo spirito accusatorio del nuovo codice del 1989. Non la pensavano così molti altri parlamentari, anche di maggioranza, ipersensibili rispetto a un’opinione pubblica abilmente manovrata da gruppi piccoli ma rumorosi come La Rete di Leoluca Orlando e la rivista «Società civile», su cui scriveva anche il pm del pool Gherardo Colombo. Il decreto «Biondi» era sacrosanto ma cadde rovinosamente, perché la Lega già minacciava quella crisi di governo che lei stessa porterà a compimento pochi mesi dopo, alla fine del 1994. E perché Roberto Maroni, anche allora ministro dell’Interno, dopo aver co-firmato e quindi votato in Consiglio dei Ministri il decreto, fece quello che il suo collega Biondi, sempre arguto, chiamerà il «disconoscimento di paternità». Non farà una gran figura, visto che il decreto si chiamava «Biondi-Maroni». Pure lui disse che non l’aveva visto o che gliene avevano mostrato uno diverso. Più semplicemente ne aveva forse sottovalutato l’impatto che avrebbe avuto sugli intoccabili magistrati di Milano e sui loro ammiratori, i «fiaccolanti».
Il decreto era composto di 15 articoli e si divideva in tre parti. La prima riguardava la custodia cautelare e interveniva a correggere le storture delle leggi speciali, pur mantenendo quella filosofia del doppio binario che secondo me presenta qualche profilo di incostituzionalità. La tipologia dei reati era suddivisa tra quelli per cui rimane obbligatoria la custodia in carcere, quelli per cui è consentita e quelli per i quali è vietata. Tra questi ultimi c’erano anche la corruzione e la concussione. Ci sono poi un rafforzamento dei diritti della difesa e il segreto sull’informazione di garanzia o sui suoi contenuti fino alla fine delle indagini.
Nel giro di poche ore gli uomini del pool erano già in televisione a reti unificate ad annunciare le proprie dimissioni. Mai si era visto qualcosa di così violento, neanche ai tempi del decreto «Conso». Perfetta la scenografia: scamiciati, le barbe lunghe, i capelli arruffati, gli occhi rossi. I quattro, Di Pietro, Colombo, Greco, Davigo, parevano usciti da un ring. Quattro pugili suonati che recitano in un filmino in bianco e nero del neorealismo postbellico. Nel corridoio il regista, il procuratore capo Borrelli, fa la recita di quello che tira la giacca ai «suoi ragazzi» perché non se ne vadano. Di Pietro ha in mano un foglietto, opportunamente stropicciato, intriso del sudore dei giusti.
«Scusate – sussurra, gli occhi ben fissati nella telecamera – sono emozionato». Emozionato o no, spara a zero, non distogliendo mai lo sguardo, una caratteristica che manterrà anche negli anni successivi, dall’operatore tv: «Quando la legge, per evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità, diviene molto diffcile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia». Sono le otto di sera, e l’orario delle finte dimissioni, guarda caso, coincide con quello dei principali telegiornali. Berlusconi ha insegnato qualcosa anche a loro. Dopo una pausa a effetto, Di Pietro cala l’asso:
Abbiamo pertanto informato il Procuratore della repubblica della nostra determinazione di chiedere al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico, nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone.
Il secondo colpo di teatro si verificherà nel giro di poche ore, quando a «ciò che la legge impone» sarà data esecuzione immediata. Con grande scandalo dei cittadini per bene, i «corrotti» saranno tutti scarcerati. Così negli stessi telegiornali della sera tutta Italia ha potuto vedere in sequenza, prima i quattro eroi, affaticati e tristi, costretti a cambiare lavoro per via del decreto «Biondi», e subito dopo gli effetti scandalosi dello stesso decreto, i «ladri» che lasciavano la prigione. I furbi pm di tutta Italia scarcerarono subito tutti, per suscitare indignazione e rabbia tra i cittadini. Particolari proteste suscitò, all’uscita del carcere partenopeo di Poggioreale, la scarcerazione di De Lorenzo, l’ex ministro alla Sanità, liberale, considerato più corrotto degli altri perché aveva avuto a che fare con la salute dei cittadini.
Ci furono manifestazioni in tutta Italia, non significative per numero di partecipanti (a Milano non più di 400 persone) quanto per visibilità mediatica. Ci furono episodi spiacevoli: ministri e sottosegretari inseguiti nelle vie del centro di Roma da personaggi che urlavano «Ladri! Corrotti! Amici dei mafiosi!». Venivano presi di mira il sottosegretario Contestabile e il ministro Giuliano Ferrara, che camminavano tra la Camera e il Senato con un codazzo di indemoniati che li seguivano e insultavano. Il ministro Biondi non poteva quasi uscire di casa. A Genova, nella sua città, qualcuno si era impadronito del suo numero di telefono e, non trovandovi il guardasigilli, infieriva sulla moglie Giovanna, una signora per bene, spiegandole quanto il suo mestiere più adeguato sarebbe stato sul marciapiedi.
I quotidiani paiono diventati gli house organ della Procura di Milano, inondati come sono di dichiarazioni tra lo sconsolato e l’ironico dei diversi pm. La frase più gettonata sarà: «Mani pulite è finita». Borrelli addirittura dirà: «Si dice che il governo voglia riequilibrare i ruoli di difesa e accusa, io mi auguro che il prossimo passo non sia consentire agli avvocati di incarcerare i Pm». Non una gran battuta (i magistrati non sono mai stati campioni in ironia), cui facilmente si obbiettò che con il decreto «Biondi» potevano stare tranquilli, le nuove norme sarebbero state anche a loro vantaggio, qualora fossero stati inquisiti. Ma loro continuano a recitare a soggetto. Il pool di Milano sa benissimo come toccare le corde più sensibili dell’opinione pubblica: anche chi ha le mani sporche, vuole sempre che gli altri le abbiano pulite. Inoltre la grancassa della stampa di proprietà degli imprenditori impuniti è sempre lì, pronta con il suo servilismo interessato.
Quel che nessuno ricorda mai di quella vicenda su cui pure si è scritto molto, è che, dopo che il decreto «Biondi» sarà ghigliottinato come tutto ciò che l’aveva preceduto e che seguirà, nessuno di coloro che erano stati scarcerati tornerà in galera. Forse le manette non erano poi così indispensabili come volevano far credere i magistrati? A questa domanda nessun magistrato darà risposta. Né l’opinione pubblica si ricorderà di sollecitare il ritorno delle manette. Che non vedremo più in nessuna trasmissione tv. C’è quanto basta per dimostrare una volta di più come, non appena ottenuto il risultato politico e mediatico, le esigenze giudiziarie passano in secondo piano. Se, per fare l’esempio che aveva destato maggiore scandalo, l’ex ministro De Lorenzo era davvero un delinquente, perché rimaneva a piede libero?
Il destino del decreto «Biondi» era segnato, anche se il governo non ne parve da subito consapevole. Due grandi saggi come Marco Pannella e Francesco Cossiga videro il buio all’orizzonte e diedero qualche buon consiglio. Il Segretario radicale, pur apprezzando il decreto, nato del resto nel solco di tante sue battaglie, mise in guardia: «Corruzione e concussione non possono essere considerati come reati minori». E Cossiga, in una lettera aperta a Berlusconi pubblicata dal «Corr...

Table of contents

  1. Tangentopoli
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione
  5. Milano, i suoi Palazzi: Palazzo Marino, Palazzo di giustizia, Arcivescovado, Assolombarda, San Vittore
  6. I partiti e la guerra chirurgica: i puniti e gli impuniti
  7. Imprese e imprenditori: puniti (vivi o morti) e impuniti
  8. Tangentopoli, impossibile uscirne (senza il permesso del pool)
  9. Le loro prigioni
  10. Le assoluzioni (politiche) «post mortem»
  11. Il circo mediatico-giudiziario
  12. Mani politiche
  13. L’inizio, tra dietrologie e realtà
  14. Note