De Gaulle
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Charles de Gaulle è stata una delle figure preminenti del Novecento. L'unico uomo dello scorso secolo che ha avuto la capacità di salvare il proprio Paese dall'abisso in ben due occasioni: dopo la disfatta del 1940, quando decise di non rassegnarsi alla sconfitta rappresentando la dignità e le ambizioni della patria in esilio; al tempo della crisi algerina, disinnescando una guerra civile ormai sul punto di esplodere. Gaetano Quagliariello, su di lui e sul fenomeno del quale fu iniziatore – il gaullismo– ha scritto una fondamentale monografia nel 2003 (De Gaulle e il gollismo, Il Mulino, Bologna). È poi tornato sull'argomento nel corso degli anni, con opere pubblicate in italiano e in francese. In questa nuova edizione del suo lavoro, interamente riveduto, aggiunge alla sua riflessione un aspetto del tutto inedito: interpretare il gaullismo anche in virtù di una comparazione possibile tra Italia e Francia del secondo dopoguerra, che evidenzi somiglianze e diversità, a partire da una visione unitaria della storia nazionale dei due Paesi. In questo solco, egli ripercorre in particolare la parabola e il peso del partito politico e analizza il rapporto con l'elemento carismatico. Ne scaturisce una lettura che porta la storia ad attualizzarsi e a proporsi con ancora più forza come "maestra di vita", in grado di dispensare consigli e ammonimenti per il presente e per le scelte fondamentali alle quali ci chiama.

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Lo strappo

Insomma, ha avuto luogo una rivoluzione che della legalità ha rispettato solo la lettera. È stato questo il vero significato del 13 maggio. Bisogna prenderne atto. Ma questa rivoluzione, come è accaduto altre volte nella nostra storia, è stata canalizzata, digerita per così dire, essendosi svolto quasi tutto secondo le previsioni. L’estrema destra e l’estrema sinistra ne risulteranno egualmente frustrate. Il paese, però, va avanti senza rotture fatali, per essersi affidato all’arbitraggio non di un avventuriero ma di un uomo onesto.
A. SIEGFRIED, De la IVe à la Ve République au jour le jour, Grasset, Paris 1958.

IL LABORATORIO DELLO STORICO

Il 13 maggio 1958 la rivolta di Algeri aprì la crisi finale della IV Repubblica: in meno di un mese la Francia assistette al ritorno di de Gaulle al potere; in poco più di sei mesi all’approdo alla V Repubblica. Per lo storico dell’età contemporanea la ricostruzione di questi eventi ha rappresentato – e continua a rappresentare – un vero e proprio laboratorio.
Tutti coloro che si sono impegnati a ricostruire questo passaggio cruciale della storia francese si sono imbattuti in un problema preliminare: determinare se il 13 maggio e gli avvenimenti che a esso seguirono siano stati il frutto di un complotto, ovvero l’esplosione di un moto spontaneo partito dalla piazza principale di Algeri. La questione attraversa tutta la vastissima produzione sull’argomento e quasi nessuna delle opere che videro la luce a pochi mesi di distanza dai fatti esaminati sostiene la natura spontanea degli avvenimenti di maggio1. Quest’acquisizione originaria è andata consolidandosi nelle ricostruzioni posteriori. Gli archivi, le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, l’accumularsi delle memorie hanno fatto emergere sempre più chiaramente la preparazione che vi fu dietro la presunta degenerazione della manifestazione, che portò i rivoltosi di Algeri a formare un Comitato di salute pubblica, in aperto dissidio con il potere centrale2.
Per lo storico, però, è proprio a questo punto che si pone il primo problema metodologico. Dopo aver accertato che la rivolta del 13 maggio 1958 non fu un moto spontaneo, resta da determinare il rapporto tra i progetti insurrezionali e il reale svolgimento degli avvenimenti che portarono all’abbattimento della IV Repubblica. Negare la spontaneità di un sommovimento di folla, infatti, non equivale ad accreditare sic et simpliciter la tesi del complotto. Nei primi contributi sull’argomento, anche in questo caso, è possibile rintracciare indizi utili per orientarsi. La pubblicazione «a caldo» delle memorie di alcuni dei principali «cospiratori» – al tempo ritenuti deus ex machina – evidenzia tutta l’incertezza e perfino l’improvvisazione che, nella realtà, vi furono nei loro comportamenti3. L’ampiezza dello spazio da riservare all’imprevisto e all’imponderabile è confermata dal fatto che anche i più affezionati sostenitori della tesi del complotto hanno presto cominciato a declinare al plurale le loro argomentazioni: non vi sarebbe stato un solo complotto ma diversi piani eversivi, che in alcuni casi si affiancarono, in altri si sovrapposero, altre volte ancora si elisero4. Questi piani, inoltre, avrebbero interagito con le decisioni e le azioni di altri soggetti, che in quelle circostanze si mossero al di fuori di scenari precedentemente immaginati: sia quanti «subirono» il 13 maggio, cercando di controllarne e di limitarne gli effetti; sia quanti provarono a sfruttarne la deriva per cogliere obiettivi sostanzialmente differenti da quelli dei «cospiratori».
Accertata l’impossibilità per lo storico di pensare che la preparazione di un evento ne racchiuda in sé gli esiti, si pongono problemi ulteriori. Poiché non ogni progetto di superamento del regime vigente può essere ritenuto di natura eversiva, è necessario dunque precisare il confine tra lecito e illecito: preoccupazione senz’altro fondata, se si evita di spingerla fino all’eccesso di voler tutto giudicare e classificare. Va preso atto che quest’operazione, usando il metro della storia, non possa essere compiuta con precisione e, soprattutto, fino in fondo. Non si intende con ciò giustificare, alla luce di una presunta ragione della storia, qualsiasi azione legittimata a posteriori dall’ottenimento dell’obiettivo perseguito. Si tratta, piuttosto, di considerare che, nel corso delle crisi finali di regime, la zona grigia comprendente i comportamenti in bilico tra legalità e illegalità risulta sempre estremamente affollata. L’indeterminatezza dello Stato di diritto caratteristica dei sistemi politici in crisi, interagendo con una più complessiva situazione di incertezza, incoraggia inevitabilmente atteggiamenti psicologici indefiniti e attendisti. E questa realtà si presenta particolarmente complessa ed inafferrabile in quei casi nei quali – come nel maggio del 1958 in Francia – la transizione si compie al di fuori di un vero e proprio colpo di Stato. Solo quest’ipotesi estrema, infatti, propone l’immagine di un confine netto ed evidente: la rottura violenta della sostanza e della forma della legalità, allo scopo di affermare un nuovo e diverso ordine statuale. Essa, inoltre, costringe gli attori politici a disporsi o da una parte o dall’altra del confine, a difesa o del vecchio sistema o del nuovo. Come si vedrà, non fu questa l’ipotesi che si concretizzò nel maggio 1958, con la conseguenza che non tutti i comportamenti dei suoi protagonisti possono essere incasellati utilizzando i concetti di legalità e illegalità.
Una recente pubblicazione, basandosi su un’ampia documentazione, ha sostenuto che per il 13 maggio si può parlare di «colpo di Stato democratico»: un modo per significare la fortissima pressione esercitata, attraverso progetti eversivi, sulle istituzioni legali, impossibilitate in realtà a esprimersi liberamente. La salvaguardia delle forme democratiche, in altri termini, avrebbe coperto un passaggio di regime avvenuto sotto la minaccia decisiva di un’azione violenta e dell’utilizzo delle armi5. La definizione non è nuova. Nel corso della crisi di maggio, essa fu lanciata dalla «Pravda» e ripresa dal Pcf6. In ambito storiografico, inoltre, il problema echeggia quello posto dal rapporto che si stabilì in Italia tra la marcia su Roma dell’ottobre 1922 e gli esordi del regime fascista. Nonostante che il libro in questione contribuisca a far comprendere quanto, nella Francia del 1958, si fosse giunti vicino al punto di rottura della legalità, l’ossimoro da esso proposto sconta una dose eccessiva di ingenuità illuministica. Le moderne teorie della democrazia sostengono che, in realtà, nessuna assemblea parlamentare è in grado di assumere decisioni in piena libertà, sfuggendo alla pressione esterna. Anche per questo nei regimi democratici la forma è considerata sostanza, e fino a quando il condizionamento non giunge a violare non solo la sostanza, ma pure la forma della legalità istituzionale appare quantomeno improprio parlare di colpo di Stato7. Nel caso in questione, inoltre, vi sono altri elementi dei quali tenere conto. Si vedrà in seguito che già prima del 13 maggio furono in molti, al fine di esercitare la pressione decisiva, a trascendere i limiti della legalità formale, dalla parte della rivolta ma anche, in alcuni casi, dalla parte dello Stato. I comportamenti illegali furono così diffusi, numerosi e prolungati nel tempo che anche per questo non poterono coordinarsi in un complotto preordinato con un obiettivo prestabilito. Tutto ciò contribuì, paradossalmente, a far sì che i poteri legali della Repubblica – il Presidente Coty, il governo guidato da Pflimlin, il Parlamento – restassero sostanzialmente liberi nelle loro determinazioni. Essi avrebbero potuto anche scegliere in modo differente da quanto fecero, e con ogni probabilità il colpo di Stato si sarebbe realizzato. La pressione esercitata dagli avvenimenti su di loro è indiscutibile. Non per questo, però, i loro atti di responsabilità tesi a evitare conseguenze possibili – e, dunque, per loro stessa natura incerte – vanno considerati come scelte rese obbligate da costrizioni insuperabili.
Quanto si è fin qui sostenuto autorizza una prima conclusione. Colui il quale si trova ad analizzare un processo di transizione tra due differenti regimi politici non può fare a meno di guardare all’esistenza di eventuali complotti, di piani e progetti cospirativi. La sua attenzione, subito dopo, dovrà però concentrarsi sulle conseguenze non intenzionali delle azioni poste in essere, più o meno consapevolmente, da una pluralità di attori, alla ricerca di finalità e sbocchi tra loro diversi. Quel che maggiormente conta, per lo storico, è ricostruire il processo di interazione tra i concreti atti di differenti individui. A questo scopo, in primo luogo egli dovrà prendere in considerazione i progetti e gli obiettivi dei vari attori, nonché le strategie applicate per affermarli. Quindi, dovrà spiegare il perché del fallimento dei piani intenzionali, e quali conclusioni siano derivate dalle loro interazioni. Per tale ragione, la stessa metafora dello scacchista non è adeguata a cogliere la complessità e la peculiarità del processo storico nei periodi di crisi acuta. Affermare che ogni attore, nel determinare i propri comportamenti, deve prima valutare la disposizione dei pezzi sullo scacchiere politico, nonché tenere conto delle mosse degli avversari, significa, infatti, utilizzare il senno di poi per razionalizzare un processo che, nella realtà, si presenta più complesso e meno controllabile. A differenza che nel gioco degli scacchi, nelle fasi di grave crisi politica i giocatori sono più di due. Le loro mosse avvengono senza un ordine prestabilito e senza necessariamente scontare la conoscenza di quelle degli avversari. Ognuno può sapere su quale casella intende collocare il pezzo utilizzato, ma nessuno può avere la certezza che esso raggiungerà effettivamente la collocazione scelta. Infine, i risultati della partita possono essere più di due, e fino a quando la situazione politica non si consolida la rivincita resta sempre in agguato.
I fatti francesi successivi al 13 maggio rendono ragione di queste considerazioni. La storiografia, in particolare, ha spesso presentato de Gaulle come un freddo calcolatore, in grado di vincere la partita decidendo i tempi delle sue mosse8. Questo modo di rappresentare gli avvenimenti ha ridotto artificial...

Table of contents

  1. De Gaulle
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione. Quel che de Gaulle mi ha insegnato sulla storia d’Italia
  5. De Gaulle, la guerra e la politica
  6. Il gollismo al tempo della Guerra fredda
  7. De Gaulle - Mendès France e la sfida del carisma
  8. Il «deserto» del Generale e le «oasi» dei gollisti
  9. Lo strappo
  10. Le tre emergenze della transizione
  11. Dalla transizione al consolidamento
  12. Le ombre della grandeur
  13. L’Epilogo