Francesco di Paola, un eremita nel mondo
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Francesco di Paola, un eremita nel mondo

About this book

In un periodo di grande dissoluzione fuori e dentro la Chiesa, un'epoca di preti e religiosi che vivevano negli agi e nei lussi incuranti del Vangelo, Francesco di Paola sceglie il ritorno alle origini, votandosi all'isolamento come gli antichi padri del deserto per vivere il solo a solo con Dio. Un ritiro non fine a se stesso, tuttavia. Ben presto, infatti, la grotta di Francesco viene "assediata" da frotte di persone desiderose di aiuto, di conforto, di confronto. Francesco accetta l'arrivo della gente e a tutti dona il suo amore, compiendo anche prodigi, sempre nel nome della carità. Ben presto altri eremiti si uniscono a lui. E da Paola la sua comunità si espande, prima in Calabria, poi in Sicilia, infine in altri posti in Italia e poi oltre i confini, chiamato come consigliere dal re di Francia. Il suo segreto fu solo e soltanto uno: credere nella possibilità di realizzare ciò che il suo cuore gli diceva fosse buono e giusto. Credere in se stesso, nelle proprie possibilità e nella potenza disarmante dell'amore. Nulla è impossibile per chi crede nell'amore. Questo il messaggio che la vita di Francesco di Paola comunica a tutti ancora oggi. Non ci sono limiti, barriere, per chi sceglie l'amore.

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Information

XVII

Aveva relegato i famigliari ad Amboise, il re di Francia, e viveva da solo nel grande castello di Tours. Era cresciuto ed era vissuto col sospetto sempre presente che chiunque potesse cospirare contro di lui; non si fidava nemmeno di moglie e figli.
La reggia di Tours era divenuta nel tempo sempre più una fortezza inespugnabile. Un grande fossato separava il castello dalla città, i diversi ponti levatoi venivano aperti esclusivamente in alcuni momenti della giornata. Ogni merce che entrava era attentamente vagliata. Al suo interno, stanze dorate e in gran parte vuote custodivano l’anziano monarca insieme a pochi servi e a qualche soldato.
Il re era da tempo malato. Nel castello erano giunti ogni sorta di guaritori, anche diversi maghi. Nessuno, tuttavia, era stato capace di recargli anche il minimo sollievo, nemmeno un cenno di guarigione. Il suo corpo era sempre più in disfacimento. Francesco era atteso come l’ultima possibilità di salvezza, un’àncora a cui attaccarsi sperando nel miracolo.
Il re viveva ormai concentrato solo e soltanto sulla sua malattia. Gli interessi del popolo, le sofferenze della gente attorno a lui erano stati dimenticati. Tutto doveva ruotare attorno alla sua persona, e soprattutto attorno alla sua agognata guarigione.
Quando i messaggeri gli comunicarono che l’eremita era alle porte del castello, il monarca indossò il suo mantello d’ermellino e, seguito da uno stuolo di dignitari, uscì dalle mura per incontrarlo. L’accoglienza era stata predisposta in un grande piazzale antistante il maniero. Vi erano schierati il clero secolare e regolare, cavalieri, soldati e tanta gente comune che voleva vedere di persona l’attesissimo taumaturgo. La sua fama da tempo era giunta non solo a Tours, ma anche fino a Parigi e oltre.
Francesco avanzò coi suoi frati camminando lentamente, la lunga tunica lisa che svolazzava. Sembrava un antico profeta che va incontro a un destino ignoto, ma nello stesso tempo non temuto. Aveva una forza interiore, anche nella postura, che emanava autorevolezza, consapevolezza dei propri mezzi. Già dal suo incedere esprimeva una energia interiore non comune, fuori dall’ordinario. Il re gli si fece incontro in tutta la sua magnificenza, ma quando fu a un passo da lui fece un gesto inatteso. Si gettò in ginocchio e, senza alcun preambolo, supplicò l’eremita così: «Ti scongiuro, allungami la vita, salvami dalla malattia», disse. Tutti si stupirono. Mai avevano visto il re in ginocchio, mai l’avevano visto così ossequioso e dimesso.
Temeva la morte, il re. E innanzi a Francesco fu la sua paura a prendere il sopravvento. Ma insieme s’intravedeva nella sua supplica anche una sorta di pretesa che suonava più o meno così: «Te lo chiedo subito, senza indugi, perché sono il re e posso ottenere ciò che voglio». C’era in lui sottomissione, certo, ma anche rabbia: si era inginocchiato per raggiungere il più velocemente possibile il suo scopo, non per altro.
Francesco non si era preparato una riposta. Sapeva che era stato chiamato lì per guarirlo, ma come sempre lasciò che gli eventi accadessero e nello stesso tempo si affidò alla sapienza che albergava nel suo intimo per trovare le parole giuste da dire. Fece un lungo respiro e sorridendo rispose: «Sire – replicò – non è in mio potere fare ciò, ma pregherò per voi».
Luigi XI non rispose, ma certo quelle parole lo stupirono e insieme lo ferirono. Aveva pensato che Francesco l’avrebbe guarito all’istante, con un semplice gesto della mano, con una sua parola. E invece non fu così. L’eremita comprese soltanto che in quel momento non doveva rispondere altro. Innanzi a sé non aveva che un uomo abituato a pretendere, una persona probabilmente molto lontana da Dio, a dispetto della nomea di sovrano cattolicissimo. Con ogni probabilità il suo compito non era di guarirgli il fisico, ma l’anima. E in ogni caso era doveroso prendere tempo, capire bene con chi esattamente aveva a che fare prima di agire. E poi c’era un altro fatto: prima di ogni guarigione Francesco usava ritirarsi sempre in preghiera. Lì trovava l’ispirazione su cosa fosse giusto o non giusto compiere. Così aveva fatto a Paterno, poi in Sicilia, a Napoli. Anche le guarigioni sul suolo francese erano state precedute da giorni di preghiera in barca, durante la lunga navigazione. Arrivato a Tours, invece, il re non gli aveva dato nemmeno il tempo di respirare. Mentre quel tempo aveva bisogno di prenderselo, di ritagliarselo.
L’eremita e i suoi frati vennero sistemati in alcune stanze del castello. Anche per loro, in sostanza, iniziava un periodo di reclusione, chiusi nella fortezza insieme al vecchio re. Francesco non conosceva la lingua del posto. Per questo gli venne affiancato un interprete, un certo Ambrogio Rambault. Questi divenne presto un suo ammiratore. Tanto che quando successivamente, sotto il re Carlo VIII, venne dispensato dal suo servizio e ridotto in strettezze, l’eremita scrisse al re una lettera in cui cercava di intercedere per lui. «Egli ha fatto e continua a fare molti buoni servigi alla nostra religione – scrisse Francesco – e il vostro defunto genitore mi parlò di lui con intenzione di tenerlo quale interprete per il mio idioma italiano, ch’ei sa parlare e scrivere, come sa fare benissimo anche in latino. Voi, per favore, a me e alla mia religione, lo terrete come raccomandato in modo particolare, facendolo fruire d’un impiego o d’altro, che vi piacerà ordinare; e così farete bene e carità, e mi obbligherete ancora a pregare sempre più Iddio per la vostra prosperità».
In ogni caso, i primi giorni a corte non furono facili per i frati. Le stanze erano vicine a dove viveva il re tanto che Francesco e i suoi erano continuamente disturbati. Il proposito di vivere a corte come se fossero in un eremo non era facile da perseguire. Del resto lo stesso Francesco aveva predetto tutto: «Andremo in un paese dove non capiremo la lingua di chi l’abita, né loro la nostra», disse prima di partire anche per voler rimarcare una certa distanza che inevitabilmente avrebbero vissuto una volta arrivati.
Tutti comunque, nonostante la fatica, accettarono la nuova condizione di vita con fiducia nel presente e nel futuro.
Oramai Francesco aveva compreso che il suo era un eremitaggio particolare, fatto di adattamenti alle circostanze esterne, l’equilibrio fra dentro e fuori, fra ritiro e vita attiva, un qualcosa da riformulare ogni volta strada facendo. Viveva con una regola precisa, ma senza ch’essa fosse un idolo. Sapeva adattarla alle circostanze senza tradirla, insomma. Questo uno dei suoi segreti, della sua forza.
Il re faceva visita a Francesco ogni giorno. Il suo scopo era soltanto uno: ottenere il miracolo della guarigione. Gliene parlava sempre, di continuo, senza sosta. Cercò anzitutto di amicarsi l’eremita con doni d’ogni sorta: limoni e arance, pere moscatelle e pastinaca. Sapeva che Francesco non mangiava né carne né pesce. Cercava così di portargli esclusivamente il cibo che poteva mangiare offrendoglielo in abbondanza.
Beninteso, Francesco non era di per sé contrario a concedere al re il miracolo da lui richiesto. Tuttavia, ripeteva sempre, non dipendeva da lui. Nei momenti di ritiro e silenzio pregava Dio, chiedeva consiglio. E gli parve sempre che la cosa non fosse nella volontà superiore.
Che il tema degli incontri fosse principalmente la richiesta del re del miracolo era cosa che divenne presto nota anche fuori le mura del castello. Non a caso, in un dramma di Casimir Jean François Delavigne intitolato «Luigi XI», il re venne presentato mentre in ginocchio supplica Francesco così: «Dieci anni, padre mio, ottenetemi almeno dieci anni, e io vi colmerò di onori e ricchezze. Guardate: io porto addosso le reliquie di tutti i santi: se col vostro potere celestiale otterrò questi… venti anni, rivolgerò al Sommo Pontefice tali e tante istanze, da farvi collocare accanto ad essi. Che dico, accanto? Sopra, sopra assai di essi. Al vostro nome farò erigere basiliche: farò rinchiudere in urne di diaspro e di oro le vostre reliquie… Ma venti anni per tante ricchezze e tanti onori son toppo pochi. Deh, fate un miracolo più grande! Impetratemi che questi giorni ringiovaniti si prolunghino per vostro mezzo quanto più possibile. Ah, un miracolo, o padre! Fatemi vivere! Prolungatemi la vita!».
Francesco ascoltava in silenzio le richieste del sovrano, sempre ricordandogli che non era in suo potere fare o non fare miracoli. L’eremita cercava anche di usare il tempo dei colloqui a tu per tu per parlare d’altro, ad esempio delle richieste che il Papa e il re di Napoli desideravano egli esprimesse al re di Francia. Si adoperò in tale senso, tanto che a Ferrante scrisse una lettera nella quale gli diceva che il re di Francia era disposto ad appoggiarlo in una eventuale guerra contro i turchi. E parimenti si mosse anche per le richieste del Papa. La sua azione diplomatica improvvisata era efficace e insieme paziente. Chiedeva senza esigere, riportava le richieste altrui senza accampare pretese. E otteneva.
Tuttavia, più passavano i giorni più il re si mostrava inquieto. Il miracolo richiesto, infatti, non arrivava. Così un giorno il monarca prese carta e penna e scrisse al Papa mostrandogli un disappunto e una impazienza che innanzi a Francesco non aveva il coraggio di esprimere. Anzi nascondeva davanti a lui questi sentimenti. Sisto IV non tardò a rispondere. Mandò al re due lettere. In una intimava a Francesco di porre in opera ogni altro espediente che potesse in qualunque modo contribuire a farlo guarire. Nell’altra aggiunse anche la minaccia della scomunica se non avesse obbedito. Scrisse al re che scegliesse lui quale delle due lettere far leggere all’eremita.
Francesco non si scompose, continuò la sua vita di silenzio, astinenza e preghiera. Riceveva il re come se nulla fosse, consapevole che l’agognato miracolo non dipendeva da lui.
Il re andò allora oltre. Iniziò a spiare Francesco, cercando di capire se veramente fosse un uomo di Dio e non piuttosto un imbroglione. Non ottenendo la tanto desiderata guarigione voleva coglierlo in fragrante, denunciarlo come impostore. Lo fece spiare giorno e notte, cercando di trovare in qualche suo gesto o atteggiamento qualcosa che non andasse. Gli appostamenti degli uomini al suo servizio durarono giorni e notti incessantemente, ma il resoconto era sempre il medesimo: Francesco digiunava e pregava, nulla di più.
Il re non si diede per vinto. Iniziò a mandargli cibo in abbondanza, in particolare del pesce. L’eremita, tuttavia, rispediva ogni volta le pietanze indietro. Disse che i suoi confratelli di pesce ne mangiavano soltanto saltuariamente. Mentre lui, a parte quando era malato, non ne mangiava mai. Mostrò con questa risposta la sua flessibilità anche rispetto ai suoi confratelli: la regola che si erano dati prevedeva l’astinenza quaresimale, ma se qualcuno necessitava per particolari motivi di non seguirla l’eremita lasciava fare.
Il monarca provò allora col denaro. Gli mandò un servizio di stoviglie, utensili dorati utili per la mensa, e addirittura una statua della Vergine anch’essa interamente d’oro. Ma anche in questo caso Francesco rispedì tutto indietro. Non gli servivano quelle cose. Il re, se voleva, poteva venderle e darne il ricavato ai poveri.
L’ultimo tentativo il sovrano lo fece di persona, e finì male. Prese un sacchetto colmo di monete e andò a bussare alla porta dell’eremita. Questi lo accolse con la consueta cortesia. Ma quando vide le monete reagì rispondendo per le rime: «Restituite queste monete d’oro alle persone alle quali le avete rubate e a quelli che avete spogliato nel tempo passato», disse e chiuse la porta lasciando fuori il re.
Luigi XI si ritirò mestamente. Davanti all’eremita perse tutta la propria autorevolezza. Si chiuse nella sua stanza incredulo e insieme sconfitto. La sua salute ormai precipitava vorticosamente. Si sentiva sempre più demoralizzato, morso da un fisico che non lo sosteneva più. Così, poco alla volta, iniziò a frequentare Francesco senza esigere più nulla. Andava da lui e chiedeva di Dio, dell’aldilà. Certo, aveva sempre il desiderio di guarire, ma questo un po’ alla volta passò in secondo piano. Voleva piuttosto sapere della morte, e insieme cercava conforto da essa. L’eremita era qui che lo aspettava, qui lo attendeva da tempo. Lo accoglieva sempre a braccia aperte incitandolo ad allargare gli orizzonti. Davvero la morte era una prospettiva così terribile? Davvero il sovrano non era capace di immaginarsi in un’altra dimensione? Davvero ciò che aveva davanti era la fine di tutto? O non era forse possibile che il momento della fine segnasse un nuovo inizio?
Luigi XI iniziò a pendere sempre più dalle labbra di Francesco. Lo ascoltava assetato di un qualcosa che in vita sua non aveva mai bevuto. E più ascoltava, più aumentava la sua sete. «Convertitevi perché Dio vi aspetta a braccia aperte», gli disse Francesco. E questi iniziò a piangere.
«Davvero aspetta me?».
«Sì, vi aspetta a braccia aperte».
«Ma nella mia vita ho fatto tanti errori».
«Tutti ne abbiamo fatti».
«Ma mi perdonerà?».
«Sì, se lo desiderate. E poi avete ancora davanti del tempo per rimediare, dove possibile».
Questa era la strada che Francesco tracciava: far vivere l’ultimo tempo disponibile al sovrano come occasione per rimediare ai tanti errori commessi. Era meglio espiare e rimediare subito, gli diceva, per entrare nell’aldilà più libero, più leggero. L’oltre, per Francesco, era la prosecuzione del presente. Di là si sarebbe vissuto il presente in un altro modo. Ma la vita sulla terra non sarebbe stata cancellata. Così occorreva prepararsi al meglio, mettendo le cose a posto, chiedendo perdono e perdonando.
Ogni giorno il sovrano cercava il dialogo con l’eremita. Erano botta e risposta brevi, secchi, ma profondi. Erano domande vere, quelle che il re poneva. Non poteva più barare con se stesso. Non era più il tempo. Non aveva più tempo.
Una mattina il sovrano scorse Francesco da solo, nel parco, intento a pregare. Qualcosa lo toccò nell’intimo. L’eremita sembrò ai suoi occhi come trasfigurato. Capì che davvero aveva innanzi a sé un uomo di Dio, e comprese per questo che di lui doveva fidarsi. Così smise del tutto di chiedergli della guarigione, e anzi accettò che Francesco divenisse il suo barcaiolo nella traversata verso la morte, la sua guida, il suo faro. La traversata divenne giorno dopo giorno sempre più gioiosa, nonostante l’incedere impietoso della malattia. I servi e gli assistenti del re erano stupefatti del suo cambiamento. Il terrore della morte si era tramutato in calma e letizia insieme. Il re aveva capito che Francesco non l’avrebbe guarito, semplicemente l’avrebbe aiutato a morire nel modo migliore.
Il sovrano ascoltò il consiglio dell’eremita e arrivò a predisporre tutto per la sua successione. Una buona morte comportava anche che la vita di chi restava fosse regolata. Indicò il figlio Carlo, ancora minorenne, come suo successore e fece promettere all’eremita che non sarebbe tornato in Italia prima che il figlio non fosse divenuto maggiorenne. Un suo collaboratore, ascoltandolo mentre moribondo impartiva le sue ultime disposizioni, disse: «Non ho mai visto nessuno morire così tranquillo». Il cambiamento del re stupì tutta la corte. Fino a poche settimane prima era un’altra persona, diversa. Ora era un Luigi XI nuovo, consapevole che il suo tempo sulla terra era ormai scaduto.
Lunedì 25 agosto 1483 ebbe una violenta crisi. Francesco, tuttavia, gli aveva predetto che sarebbe morto di sabato, il giorno dedicato alla Vergine, come lui desiderava. E glielo confermò, dicendogli di stare tranquillo che non era ancora arrivato il momento della sua dipartita. E, infatt...

Table of contents

  1. Francesco di Paola, un eremita nel mondo
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione di Francesco Marinelli
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. XV
  20. XVI
  21. XVII
  22. XVIII
  23. XIX
  24. XX
  25. XXI
  26. XXII