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About this book

Scorrendo l'indice di Casapercasa si entra in un microcosmo dove ogni cosa – luoghi, legami, discorsi – è in bilico, fuori posto o fuori fuoco, come dopo un'esplosione. Nello spazio allargato della città ideale – una Ferrara che con la sua pianura circostante sembra contenere tutta l'Italia, tutta l'Europa – si accumulano i segni di una crisi radicale. Casapercasa è il tentativo di metterli in sequenza, di ricostruire un ordine narrativo, un filo, per interpretarli e farci i conti. Abruzzese costruisce così un reportage involontario, ironico e disarmante, di una ricerca di senso condotta con tenacia e leggerezza. Tra le pagine di taccuino del protagonista, un insegnante in anno sabbatico dopo un matrimonio fallito, ci imbattiamo in personaggi sradicati o sorprendenti, come Gisella e suo padre Athos, Tenora ma soprattutto Giorgio "Aggiustatutto", il compagno di viaggio e amico ucraino con cui il protagonista cartografa città e pianura e impara a leggere la crisi. E, forse, a uscirne.

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Information

Città

Deliri

Ormai per scendere e salire da casa sono costretto a camminare senza far rumore. Amorini cova qualcosa. Deve essere ammalato. Se avverte i passi si affaccia e, privo di inibizioni, prende a raccontarmi di qualsiasi argomento attraversi i suoi pensieri in quel momento. La loquacità passo dopo passo ha definitivamente preso il sopravvento. Inoltre, quando parla ha lo sguardo torvo, invasato. Ogni volta che li incrocio, quei suoi occhi vitrei dicono che lui è in diritto, anzi, che lui supera qualsiasi diritto; le disconosce le regole, si ribella, lui. Per cui alla fine tenta di fondare la sua di giurisprudenza. Insomma, sragiona di brutto, ecco.
Cammino silenziosamente sulle scale, dicevo, tuttavia al buio la borsa cade e scivola sulla rampa. È già davanti a me, esce nel giro di pochi secondi. La faccia storta e bolsa, gli occhi spiritati, iniettati di venuzze rossastre, mi fissano violentemente. Noto i piedi nudi, gli alluci accartocciati sul resto delle dita. Delle unghie ispessite, uncinate. Due gomitoli dalla matassa deforme lo sostengono in luogo dei piedi deviati, leggermente vari.
«L’hai vista?», esordisce catarroso.
«Chi?», replico spaventato.
«Gisella, l’hai vista? Non mi dirai che di nuovo se la fa con quel frocio lì? Ah, ma io l’ho capito appena lo portò a casa, la prima volta. Sicché quando se ne andò dissi a Michela: è frocio quello lì, Dio buono! Non cavi nulla da uno così. Per dispetto se lo sposò... i figli: bestie! Se non le sta lontano..., se osa solo sfiorarla... stavolta l’ammazzo. Che se l’avessi saputo per tempo, l’avrei risolta subito, la situazione... con quella bestia lì. Sicché la conosco da vicino la morte, l’ho vista la cattiveria…».
Mi divincolo dalla sua stretta ossessiva. Allora, molesto, sfrega la lingua sotto il labbro e prende a dire, col consueto disprezzo, degli inquilini del piano di sopra: «Bestie sono, orge e festini fanno tutta la notte, portano qui quei loro amici, che schifo!». Non soddisfatto, con la solita mano grinzosa fa cenno di avvicinarmi, sento già l’alito acre quando, grattandosi la testa, con gli occhi sbarrati, sussurra nell’orecchio: «i negri... portano su, te lo dico io. Li ho visti. Li ho visti con questi occhi qui. Come la morte, erano scuri. Sicché non oso..., non oso immaginare le schifezze che fanno quelli lì tutti insieme. Depravati. Che Gisella con gente così se la faccia?».
Infine, d’un tratto impietrisce, muta espressione e un fremito gli passa sul labbro superiore. Sempre concitato e spaventato, con lo sguardo perso nel vuoto, prende a raccontare tutt’altra confusa storia:
«Studentelli boriosi e ignoranti eran quelli lì! Sicché uscirono dal teatro, la Marcia su Roma festeggiavano... imbecilli! Uscirono starnazzanti e dov’è che andarono? Uff... i grandiosi nemici nella casa del vecchio rabbino li cercavano, che a sberle e calci nelle ossa lo presero, un povero vecchio inerme pestato ben bene. Sicché bel coraggio! Alla sinagoga la stessa sorte toccò, uff... i lampadari sradicarono le bestie, le balaustre distrussero e in trionfo portarono le sacre pergamene bibliche. Un rogo, una piccola pira fu allestita alla buona, sai? E dove se non davanti al Duomo? Di via Mazzini, della sinagoga, bruciavano i resti e sicché la nostra più grande vergogna... in anticipo si fece strada col rogo maledetto, pavido, vile, del ’41.
Be’, chi vuoi che li ricordi i morti, sulle dita di una mano si contavano gli antifascisti. Una città mica solo servile è questa, ma di arrivisti soffocati come il resto del Paese nella loro stessa servitù... servitù di bestie! Sicché Colagrande, giudice e patriota, ex ufficiale di cavalleria, trucidarono. Ah, vigliacchi! Ma assassinati nella notte, sai? Come il mio povero fratello e il suo amico, l’avvocato Teglio, il figlio del preside, l’allievo del Cavallari, se lo ricorda? Che anche questo qui fu coraggioso difensore della maestra Costa, il Cavallari, fino alla fine. E l’ingegner Savonuzzi, Michelaaa... ti ricordi il Savonuzzi? Ma dov’è che è andata Michela. Pace all’anima tua, Savonuzzi. Chi si ricorda di loro oggi, e chi combatte il fascismo?».

Giorgio

Più volte ho tentato di presentargli il mio amico Giorgio, a Filippo. Per un motivo o per l’altro non è mai accaduto. Eppure credo che anche lui imparerebbe qualcosa da un tipo così. È uno strano, sia chiaro. Uno originale, diciamo. Comunque è grazie a Giorgio se sono cambiate un po’ di cose nella mia vita. Credo di dovergli qualcosa, ecco. Ma di questo ne dirò più avanti.
È qui, all’ex Mof, il parcheggio dove ho smarrito Atiscia che, al venerdì, vengo a prenderlo. Lavora con dei rumeni che si occupano di trasporto e montaggio mobili in conto terzi per l’Ikea. Certo, un lavoro pessimo, lo ammetto, però almeno c’è da ridere, e poi non è che prima andasse meglio. Stando a quanto dice, ha fatto praticamente di tutto, lui. E infatti lo chiamano Aggiustatutto. Giorgio Aggiustatutto. È straniero, Giorgio, ucraino per l’esattezza. È sposato, da qualche parte ha dei figli. È uno come un altro, alla fine.
Il fatto è che dopo il divorzio ho preso un anno sabbatico, per non parlare dei certificati medici redatti dalla psicologa lacaniana dell’Ausl. È messa peggio di me, la tizia. Si è fissata affinché riposi ancora qualche mese. E così, da un po’ a questa parte, ho davvero molto tempo libero. Per cui, quando è in giro da solo, Aggiustatutto, capita che lo accompagni verso il Delta o in zone limitrofe. Passiamo del tempo insieme, tutto qui. Sì, sempre nei paraggi, senza grosse pretese. Prima di uscire dalla città magari ci fermiamo al caffè del napoletano, poi si riparte senza una meta precisa. Ebbene, nel giro di qualche mese siamo stati praticamente ovunque, con Giorgio. Abbiamo attraversato grattacieli, stazioni, porticcioli, nonché qualsiasi tipo di abitazione e rete infrastrutturale padana. Voglio dire, per la consegna di quei maledetti mobili, trattati al pari di bestie da soma, siamo saliti e scesi tra appartamenti, palazzi, cantine, seminterrati. Certo, memorabile, d’accordo. Prima o poi ne verrà fuori un bel reportage o qualcosa del genere sui nostri viaggi in pianura. Non c’è che dire. Anzi, magari lo scriveremo insieme, a quattro mani. Ricorderemo i giorni migliori, tra vie secondarie, campi, limiti estremi; costantemente scevri da qualunque genere di piano programmato, alla ricerca indefinita di qualcosa, senza altro scopo se non quello di dare forma e nome a ciò che ci circonda.

Gitani

Suona il telefono. Sono all’angolo di via Spadari. È in lieve ritardo, Aggiustatutto. Dice che lo scaricano in via Ravenna, nei pressi del distributore di benzina. Mi raggiungerà a piedi in mezz’ora scarsa, è la sua ottimistica previsione. Prendiamo appuntamento di fronte alla Conad.
Qualche centinaio di metri dopo, davanti a un’edicola, c’è questa locandina che riporta i fatti di cronaca cittadina. Non sapendo come occupare il tempo, prendo nota. Una serie di giornali locali mostrano la foto del ragazzo dai capelli ricci. Ipotizzano sia morto di overdose, lì, in via Ippodromo. Pare lo abbiano scaraventato da un’auto in corsa, i suoi amici, e abbandonato al suo destino, il poverino. Osservo la foto. Stavolta ricordo dove l’ho vista in precedenza. È il ragazzo con le ali stilizzate e il kimono, raffigurato nello striscione di piazza Trento e Trieste, la sera in cui raggiunsi il ridotto del teatro per la cerimonia di inaugurazione della tangenziale. Quel giorno un uomo dalle sue stesse fattezze, credo fosse il padre, dal palco, continuava a chiedere verità e giustizia.
Finisco di annotare con accuratezza e proseguo verso via Garibaldi.
La cosa bella di un taccuino, dicevo, è che ci posso scrivere dei musicisti di strada che ho di fronte adesso, per esempio. Infatti, arrivato davanti alla Conad di via Garibaldi, trovo i soliti quattro zingari dall’aspetto trasandato e malconcio. Suonano tromba, fisarmonica e organetto. Il quarto si occupa del cappello, lo strumento più importante. La scena è consueta, la gente tira dritto. Il cappello non si riempie. Loro dapprima ce la mettono tutta, al punto che a volte si estraniano fino a dar luogo a delle jam session fatte di pura commistione onirica di elementi. Dopodiché, col passare del tempo, alla vista di quel deprimente cappello vuoto, il sound diviene un concentrato di desolata rassegnazione e l’intera performance rattrappisce irrimediabilmente, priva di ossigeno e mordente, si sgonfia del tutto.
È che i quattro zingari la strada la vivono per davvero. Non c’è artificio, questo è il problema. Perciò risultano privi del fascino bohémienne necessario ad attirare simpatie cittadine. Infatti non suonano scalzi. Non indossano capi della new age né vestiti di canapa o lino, non ossigenano i capelli, - per inciso in maggioranza sono calvi e con le gote rosse, la pancia deforme, i baffi anni ’70, i denti d’argento - non curano le sopracciglia, non depilano il corpo, non fanno le lampade e sono ugualmente olivastri.
Insomma, il vagabondo autentico, il gitano vero, ha meno fascino del suo simulacro. Questo è tutto. E ne ha meno sostanzialmente perché ha sbagliato epoca e luogo: il suo corpo non mente, non fa sognare vite libere o irripetibili. Appena lo guardi, il gitano vero, involontariamente porti la mano al portafogli e comunque capisci chiaramente che, affetto da necessità primarie com’è, non deve di certo spassarsela. Allora finisce per intristirti. Ma non abbastanza da convincerti a lasciargli un’offerta dignitosa. Te ne stai lì, indeciso sul da farsi, qualcuno nelle retrovie tra le labbra e i denti stretti sibila non è che possiamo aiutarli tutti noi. Intanto la musica sale verso il cielo bianco, si riverbera sulle facciate dei palazzi, tra i terrazzi e i tetti, si spande fino alla piazza del Municipio, dando un soffio d’aria allegra alla giornata.
Per ora, del mio compagno, neanche l’ombra. Mezz’ora è abbondantemente passata. Decido di rientrare. Inizio a temere Athos, soprattutto la possibilità che mi trattenga sulle scale. Se mi bracca sono perduto.

Il prossimo

Amorini esce appena apro il portone. Per fortuna Michela lo rimprovera e lo riporta dentro immediatamente. La sua ombra, però, richiama alla memoria la vicenda del tentato suicidio. È da un po’ che non ci sentiamo con Gisella. Della banca poi, non ho saputo più nulla.
Ripenso all’incontro, quello al ridotto del Teatro comunale, ai miei puerili tentativi di indagare. Quel giorno ho intravisto la mole corpulenta del vescovo. Fu Filippo, poco tempo dopo che mia moglie chiedesse il divorzio, a parlarmi del monsignore. Mi era passato di mente. Ancora sconvolto, di ritorno da scuola, mi fermo nel suo ufficio, in via Savonarola. Parto subito con il rimprovero più cocente: «dice che ho sviluppato qualche nevrosi, sì insomma, ho sostenuto dieci anni di precariato, mica scherzi. Anche io e mia moglie, d’accordo, non siamo più quei ragazzi che...».
E cosa fa lui? Vira il discorso su questo articolo dove un giornalista dichiara di aver sentito l’alto prelato parlare al telefono sul treno e chiedere alla Madonna di far morire papa Bergoglio. «Sembra fosse strenuo difensore dell’ex Presidente del consiglio Berlusconi, il vescovo», commenta col viso immerso nel giornale. «Si scagliava contro la magistratura ai tempi di presunte tresche e festini, peraltro con l’assidua partecipazione di una vertiginosa escort minorenne. Occorre giudicare l’uomo pubblico, pare avesse argomentato l’alto prelato, non quello privato».
Ecco di cosa mi parla mentre il peso del mondo mi sovrasta. Prima di proseguire, si toglie gli occhiali, mi guarda fisso intuendo che ho il morale a pezzi, sporge la fronte in avanti e chiosa: «sai che razza di ritrosia nutra per i contratti matrimoniali, peraltro considero la parola legame alla stregua di una bestemmia indicibile. Diamine, posso arguire, ascoltare, benché non saprei cosa e a che titolo replicare. I matrimoni li reputo fenomeni inintelligibili, lo sai. Tutto è mutevole, assume altre forme, e noi pretendiamo giuramenti e sacri vincoli. Come si fa ad amare in tali condizioni? Ma non ti accorgi delle parole? Sono eloquenti: accordo, contratto, legame, vincolo. Ne consegue l’idea di detenzione da cui deriva questa necessità di evadere e tradire, ci si accinge a vivere ignobilmente ovvero nella minaccia e nel sospetto, o peggio ancora a soccombere. Diamine, occorre commisurare la portata giacché il passo seguente è il salto verso la ricerca dell’altrui benevolenza e infine la commiserazione. È inequivocabile come non se ne cavi nulla di buono da premesse del genere. E io non intendo commiserarti».
Il suo fiume ininterrotto di parole sensate mi tramortisce in maniera secca e dirimente, quindi indossa gli occhiali e - come nulla fosse - schiarisce la gola, poi seguita il discorso sul vescovo: «da parte sua il vescovo spesso ricorda che occorre pensare ai pensionati italiani e ai poveri italiani che sono i prossimi evangelici. O meglio risultano più prossimi degli altri. In una classifica immaginaria parafrasando il discorso potremmo evidenziare quanto al mondo esistano i prossimi e i successivi, diamine. Questo è un concetto irrinunciabile e quando riprenderai il lavoro davvero dovresti insegnarlo ai tuoi ragazzi. Cioè i successivi vengono dopo il prossimo, chiaro no? Per questo l’alto prelato a volte si scaglia contro i successivi, rei di scavalcare la fila della prossimità. Capito? Quindi ogni tanto occorre ricordare pubblicamente come non esistano solo gli stranieri in Italia e non è bello fare preferenze assistendo solo i successivi, giacché quelli, diamine, come fate a non capire che vengono dopo? Insomma, si sa che ogni pastore pascola il suo gregge», dice col palmo della mano aperta e l’indice a solcare le vene come a rinforzare il percorso tracciato dal suo ragionamento, «peraltro le pecore del monsignore sono autoctone e lui è un pastore di pecore con denominazione d’origine protetta, garantita e controllata...», dunque conclude, serrando le dita della mano sinistra nel pugno della destra come ad aver centrato e catturato una preda: «il pastore, difendendo il prossimo contro il successivo, protegge il suo gregge e quindi l’identità cristiana, la tradizione cristiana, la famiglia cristiana e tutto ciò che viene costantemente attaccato dalla massoneria, dall’economia angloequalcosa rea di trame e congiure ai danni di greggi ma soprattutto dal fondamentalismo islamico che ovviamente riguarda ogni islamico...».
Ormai mi prende in giro, è il suo modo di tirarmi su di morale, continua a guardarmi di sottecchi per vedere l’espressione che suscitano i suoi sproloqui, quindi esclama: «difendere i confini, questa è la soluzione, i limiti, il mare, - diamine, ha ragione il vescovo - difendere le tradizioni, le radici, la terra, le forze armate e benedire finanche la Breccia di Porta Pia quale atto fondativo della rinata sacra italica progenie. È una questione di dogmatica e incrollabile fede, caro professore», commenta Filippo. «Diamine...», sostiene celando il divertimento, «è oltremodo rilevante l’opportunità del ritorno al dogma e se si tratta di dogma e tutti riconoscono quanto il dogma sia una verità incontestabile nondimeno occorrerebbe solo ubbidire tutti insieme da buon gregge e seguire per l’ennesima volta il pastore che brandisce il suo bastone e aizza i cani appena qualcuno si smarrisce. Ubbidire e aver fede, guai a dubitarne», intona con voce baritonale, «in quanto direi che in entrambe le arti noi italiani abbiamo sempre saputo eccellere...», finalmente si alza e con le mani ai fianchi, il mento in avanti, imita il duce. Per un attimo, anch’io scuoto la testa, lo provoco: «a te e al vescovo tutto va bene così com’è, siete uguali».
Ride.
Rassegnato, dimentico ogni vincolo, legame, unione, e preferisco unirmi a lui, fino a sorriderne sconsolato.

Un primo fallimento

Ora, da qualche tempo ho scoperto che il fallimento della banca cittadina ha a che fare anche con Giorgio e in qualche modo unisce le vite degli Amorini e di Aggiustatutto. Incredibile, già. Pare che il tracollo bancario abbia decretato il licenziamento di Giorgio, in qualità di carpentiere, presso una famigerata cooperativa edile della regione. A riguardo non è che ci abbia capito granché. Più o meno, so che Aggiustatutto lavorava al ripristino di due costruzioni gigantesche che secondo progettisti, dirigenti, investitori, avrebbero risolto i problemi abitativi della città per generazioni. Per intenderci, a giudicare dalla cubatura dell’immobile, c’è chi ha preso a raccontare che si tratta di quei grandi progetti faraonici che prendono corpo nelle città di provincia quando cercano di emulare altre città più grandi per dimostrare di non essere in provincia. Ci avrebbero abitato le giovani coppie, gli anziani, i conviventi e i divorziati, i lavoratori fuorisede, gli studenti universitari, e forse i ragazzipadre o le ragazzemadri, e forse addirittura i prossimi del vescovo, e solo dopo, finiti tutti i candidati, pure i successivi. E volendo parte della città avrebbe potuto abbandonare le vecchie case di residenza, quartieri obsoleti, si intende, e trasferirsi in questo nuovo complesso avveniristico formato da due cubi con al centro un parallelepipedo, questo qualcuno diceva. Forse anch’io, se fosse stato ultimato, ottenuto il divorzio, invece che tornarmene dai miei, avrei preso casa in un posto del genere, chi può dirlo. Insomma, la prima di queste grandi opere riguardava la costruzione di uno stabile chiamato il Palazzo di vetro. Tuttavia, il progetto non ha fatto altro che mandare in galera chi l’aveva progettato e avviato, testimonia Giorgio.
«Leggi questo articulo qua, Alecsandro, leggilo. Mafia di sicilia, sai?».
Cinquantamila metri quadri di edifici tirati su negli anni 80’ da una della più grandi cooperative del Paese su commissione di una certa società che avrebbe lasciato trapelare presunti legami con la mafia siciliana, riporta l’articolo.
Quella del Palazzo di vetro, se vogliamo è una storia in cui c’è tutto il repertorio di un grande e moderno Paese occidentale e progressista. L’articolo spiega in maniera documentata che, dal duemiladue, nel progetto avviene il subentro di un altro imprenditore armato di coraggio e buona volontà. Il tizio prova a ripristinare la situazione, e ad oggi pare sia ancora preso dal tentativo di ristrutturare il debito societario che è scaturito dalla faccenda. Quindi ancora un nulla di fatto. La faccenda, testimonia Gior...

Table of contents

  1. Casapercasa
  2. Colophon
  3. Antefatto
  4. Città
  5. Pianura
  6. Città
  7. Pianura
  8. Città
  9. Immagini
  10. Indice