Storia della natura d'Italia
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Storia della natura d'Italia

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Storia della natura d'Italia

About this book

l'Italia ha una storia straordinaria anche dal punto di vista naturale e paesaggistico.Questo libro ne descrive la varietà e ne segue le infinite modificazioni, a partire dall'ultima glaciazione otto millenni prima dell'era cristiana, per poi percorrere le vicende dell'interazione tra uomo e natura fino ai nostri giorni.In ogni epoca, da quella romana al Medioevo, al Rinascimento all'avvento dell'industria, l'uomo ha infatti stabilito un diverso rapporto con il paesaggio.Riccamente illustrato, attento al dettaglio suggestivo e significativo, ma capace di costruire un quadro globale, questo volume ci restituisce il fascino di uno storia che ci riguarda profondamente, ma che conosciamo troppo poco.

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I.
Un mondo in equilibrio

PER POTERSI RENDER CONTO delle trasformazioni indotte dall’attività umana nell’ambiente naturale è indispensabile fornire un’idea, sia pure grossolana e superficiale, di come dovesse presentarsi il nostro paese dopo l’ultima glaciazione, cioè dopo l’8000 avanti Cristo, alla fine del Tardo Glaciale würmiano.
In quell’epoca la presenza umana, ridotta al minimo, era costituita da pochi e sparsi nuclei di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore e del Mesolitico, periodo quest’ultimo che giunge fino al 6500 a.C.
Secondo una stima approssimativa, basata sull’analogia con popolazioni attuali di cacciatori-raccoglitori in ambienti simili, l’intera popolazione italica non avrebbe dovuto superare, nel Paleolitico Superiore, i 60.000 individui (pari a un individuo ogni 5 km quadrati).
Il nostro territorio – uscito da una fase climatica fredda in cui predominavano paesaggi di tundra e di boscaglie a betulla e pino silvestre – appariva come un’unica immensa foresta da cui emergevano solo le falesie rocciose e le vette montuose al di sopra dei 2.000-2.500 metri, altezza che rappresenta l’attuale limite della vegetazione arborea.
In pianura le uniche aree non ricoperte dai boschi erano le grandi lagune salmastre costiere, le paludi profonde, i laghi, i corsi dei fiumi.
Le ricerche polliniche eseguite nelle torbiere (veri archivi della storia della vegetazione) ci offrono notizie abbastanza esaurienti sulla composizione della grande selva italica alle soglie del Neolitico.
Sulle Alpi i larici, i pini silvestri, gli abeti, i cembri costituivano foreste non dissimili da quelle che i primi esploratori europei trovarono sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Abeti rossi e larici alti fino a 50 metri, abeti bianchi di 65 metri e più, su un sottobosco umido e ombroso formato da felci, licheni, muschi e mirtilli. E poi faggi, roveri, betulle, aceri, pini silvestri, tutti di notevoli moli e altezze, che occupavano areali a diversa situazione pedologica e climatica.
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Vegetazione primordiale, incisione, 1897.
E dove l’altitudine non consentiva più l’insediarsi della vegetazione arborea, una fascia di folti arbusteti di pini mughi, rododendri, ontani, segnava il trapasso alle praterie alpine, ai brecciai ed ai ghiacciai.
Nella Pianura Padana – in molte zone paludose per il divagare del Po e dei suoi affluenti e per il lento ritiro del mare terziario – dominavano le latifoglie: ontani, farnie, tigli, olmi, spesso con il pedale immerso nell’acqua.
Anche in questi casi le dimensioni degli esemplari apparivano ingenti: farnie e roveri potevano raggiungere i 50 metri dal suolo su uno strato arbustivo composto da noccioli, sambuchi, evonimi, viburni, ligustri che emergevano su un denso spessore di felci e piante erbacee.
L’Appennino appariva coperto fin quasi sulle cime più alte da una folta foresta di faggi e aceri spesso misti con abeti bianchi: i primi due allargavano le chiome fino a 40 metri di altezza (come un edificio di 12 piani), superate solo da quelle più scure degli abeti.
Nelle aree altitudinali più basse regnava la foresta mesofila con cerri, ornielli, aceri campestri, carpini, roverelle.
I territori prossimi al mare o sottoposti al suo influsso climatico, erano occupati dalla selva sempreverde con lecci alti anche 20-25 metri, sughere immani, in qualche luogo forse anche pini marittimi e d’Aleppo. Un’associazione che, negli areali più caldi e aridi del Meridione e delle isole, era in parte sostituita da foreste di oleastri, carrubi e lentischi anche grandissimi, mentre nei settori rocciosi più esposti si stendevano macchie impenetrabili di palme nane e di ginepri di Fenicia. Le specie classiche della macchia mediterranea (mirto, fillirea, corbezzolo, alaterno, erica) interessavano, anche con esemplari colossali, le fasce marginali e le aree ove il fuoco generato dai fulmini e il successivo pascolo degli erbivori selvatici (cervi, daini, caprioli) non avessero consentito lo svilupparsi della lecceta.
Le grandi paludi costiere e interne erano caratterizzate dalla foresta umida con farnie, frassini, pioppi, salici, ontani.
I corsi d’acqua, che presentavano dimensioni, portate e regimi ben più stabili e superiori agli attuali (molti di essi, oggi ridotti a torrenti, erano navigabili fino in età storica), apparivano spesso coperti dalle scure arcate della foresta ripariale a galleria che ne accompagnava il distendersi nelle pianure paludose e boscose.
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Scena di caccia, incisione, 1887.
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Abeti, incisione, 1886.
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Cranio di orso delle caverne, incisione, 1897.
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Bos primigenius inciso sulle pareti della grotta del Romito di Papasidero.
Tutto l’ambiente naturale, quasi completamente vergine dalle alterazioni indotte dall’uomo (la cui presenza sporadica risultava armonica con gli ecosistemi naturali), viveva in stato di climax: quello cioè che le condizioni del suolo, del clima, dell’esposizione e dell’altitudine favoriscono come ottimale e capace di autoperpetuarsi per millenni. Oppure quello, secondo un’altra interpretazione, al quale potrebbe tornare ove, per ipotesi, venisse a scomparire d’un tratto la pressione umana.
La fauna, la cui composizione era il risultato di profonde trasformazioni e penetrazioni dall’esterno, provocate e condizionate da fattori paleogeografici, paleoecologici o biostorici, si presentava allora ricca anche di specie oggi quasi o del tutto estinte.
I grandi carnivori, orso, lupo e lince erano diffusi e frequenti; così l’uro o bue primigenio, il bisonte, forse l’alce; e poi il cervo, lo stambecco, il capriolo, il cinghiale. Il gatto selvatico, la martora e il tasso popolavano i boschi e le radure, mentre il castoro e la lontra erano comuni nei laghi e nei fiumi.
Sulle pareti rocciose nidificavano aquile, avvoltoi, falchi e ibis eremiti e nelle paludi vivevano i maggiori uccelli acquatici come la gru, la cicogna, il pellicano, la spatola e l’airone bianco maggiore, oggi scomparsi o quasi.
È a questo scenario – caratterizzato da un equilibrio ecologico stabile nel tempo – che va riferito l’attuale aspetto dei nostri ambienti naturali, dopo che dagli otto ai dieci millenni di sviluppo di Homo sapiens hanno pesantemente influito su di esso.
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Manufatti litici provenienti dalla grotta Guattari del Circeo.
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Manufatti litici circeiani provenienti dalla grotta del Fossellone del Circeo.
Come abbiamo fin qui visto, alle soglie del Neolitico o, se vogliamo alla fine del Mesolitico, l’ambiente naturale italiano vive ancora in uno stadio di quasi perfetto equilibrio con la specie umana.
All’interno della copertura vegetale continua e intatta, piccoli nuclei di persone conducono una vita basata essenzialmente sulla caccia, la pesca e la raccolta di prodotti animali (chiocciole, molluschi acquatici, anfibi, rettili come le testuggini, uova, miele selvatico, insetti e loro larve) o vegetali (ghiande, frutti e bacche varie, semi, radici, erbe) che la foresta e gli ambienti marini, fluviali o palustri forniscono spontaneamente.
Gli strumenti litici, ancora piuttosto rozzi, e l’uso del fuoco non danno all’uomo la possibilità di influire pesantemente sulla primitiva compagine forestale.
La fauna oggetto delle sue cacce è ormai quella giunta alle soglie della storia: il cervo, il capriolo, il cinghiale e l’uro sono perseguitati nelle foreste e nelle radure dai cacciatori primitivi. I quali – mentre d’inverno abitano vicino agli specchi e ai corsi d’acqua per catturare castori e anatre selvatiche e pescare – in estate si trasferiscono in montagna ove perseguitano camosci, stambecchi e marmotte i cui resti, uniti a quelli di mammiferi minori, di uccelli e di testuggini, si ritrovano nei sedimenti dei ripari e delle caverne da essi abitate.
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Un mondo in equilibrio.
Nelle aree più prossime al mare, come ad esempio la grotta dell’Uzzo (Trapani), non è infrequente rinvenire, oltre a resti di pesci e invertebrati marini, quelli di foca monaca e cetacei (delfini, grampi e globic...

Table of contents

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Dedica
  6. Prefazione
  7. 1. Un mondo in equilibrio
  8. 2. La Rivoluzione Neolitica
  9. 3. La colonizzazione romana
  10. 4. L’Alto Medioevo e la Reazione Selvosa
  11. 5. L’Età dei Comuni
  12. 6. La natura nel Rinascimento
  13. 7. La Controriforma e l’Età dei Lumi
  14. 8. Il secolo delle cacce e delle bonifiche
  15. 9. Il Novecento
  16. 10. La natura oggi
  17. Conclusioni
  18. Bibliografia
  19. Referenze fotografiche