Il cielo comincia dal basso
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Il cielo comincia dal basso

About this book

Rosa Sirace è una che impara a fiorire nel posto che ha, e fiorendo scrive la sua vita di cose piccole su un'agenda: fogli con sopra il numero del giorno, e la carta che tiene il conto ripete quotidianamente che una storia non ha tutto lo spazio e il tempo che vuole. CosÏ Rosa Sirace disciplina fatti, incontri e volti costringendoli sulle righe, e sceglie di essere sincera su quello che c'è intorno: la verità resiste a ogni poco. Allora la figlia di un Visconte operaio e di una Baronessa casalinga si porta in casa il lettore offrendogli un mondo senza imbrogli. Ma nell'offerta qualcosa brucia e qualcosa profuma, poi c'è il cielo, un azzurro modesto che Rosa Sirace insegue sul messale e impara da sua nonna: Antonia Cristallo. E Rosa tutto il cielo che scava lo appende in alto, a cominciare ogni pagina, e spera che bastino le Scritture a far scintillare la terra rivoltata. Il cielo comincia dal basso è un libro che mastica duro cercando il bene, e lo trova.

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Information

Cominciamento

La rosa fiorÏ lungo un sentiero battuto dal bestiame, e prese a profumare il posto che aveva. Non fiatò quando passarono gli armenti e per le loro zampe non sapeva piÚ se fosse terra o petalo.
Infine la rosa sorrideva.
“Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.”
(Mc 14, 50-52)
Antonia Cristallo, mia nonna, dice che noi fummo sempre poveri e mai tamarri: il tamarro è uno che la terra gli basta, il povero invece alza gli occhi in cerca d’azzurro. Da anni mia madre replica a sua suocera che povero è il cane, perché ha solo la coda. Ma un giorno io ho dichiarato d’essere pronta a scodinzolare nel vento, pur di non perdere il cielo di vista. E mio padre ha sentenziato che sono uguale ad Antonia Cristallo.
Stanotte ho acceso a tavola una candela per tutta la famiglia. Il nostro cenone di fine anno comprendeva lo stocco fritto: nonna mangia solo il pesce secco e salato che ha conosciuto quand’era giovane. Mia madre in più ha cotto una pentolata di lenticchie. “Le lenticchie portano soldi” spera ogni anno Nicca Fiori, Baronessa di Babbumannu. “E papà li spende” aggiungo sempre, per precisione.
Guido Sirace, Visconte di Verolea, non mi ha sentita dubitare della sua capacitĂ  di risparmiare denaro: il trentuno dicembre mio padre lo passa a rosicchiare finocchi, insultando a bocca piena il Presidente della Repubblica che dalla televisione fa gli auguri agli Italiani. E papĂ  non li gradisce gli auguri dei politici.
A mezzanotte però brindiamo con lo spumante dolce e mangiamo pandoro senza zucchero a velo, intanto che Antonia Cristallo piange per i morti e prevede che questo è proprio l’anno in cui raggiungerà gli assenti. Tardi o presto la previsione la azzeccherà.
Dopo il brindisi scendo nel freddo della strada deserta per spaccare contro l’asfalto un piatto solitario, un vasetto di vetro o una tazzina senza manico, ma la tazzina è dura da rompere allora rimbalza, e le corro appresso in discesa per finirla a dovere. Antonia Cristallo, vedova casta di Giuseppe Sirace, dice che quest’uso napoletano di lanciare spazzatura nella via me l’ha trasmesso in sogno la buonanima di suo marito, e io le spiego che il lancio ce l’ho nel sangue.
“Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo.”
(Sal 85)
Ho deciso da un poco di appuntare sull’agenda la vita che faccio. E mi piace riempire fogli con sopra il numero del giorno: non ho tutto lo spazio e tutto il tempo, quindi è giusta una carta che contando me lo ricorda.
Mio padre è rientrato con una sporta di cavoli e cipolle e mi ha scoperta con la penna in mano, allora mi ha domandato se scrivevo, e io gli ho risposto che non mi riesce di inventare niente. “Ma uno che non inventa, non può scrivere lo stesso?” mi ha chiesto lui deluso.
All’idea della figlia scrittrice papà s’era abituato quando il giornale del paese mi stampò trenta copie di un racconto dal titolo Piove e basta. Guido Sirace camminava col mio scritto dentro la tasca, come i Testimoni di Geova girano bussando alle porte con la Bibbia fra le mani, ma presto capì che in piazza, per quella storia sul giornale, finanche i lampioni si scostavano al mio passaggio. Così una sera il Visconte di Verolea rinunciò all’uscita pomeridiana, ma non disse nulla, solo archiviò il giornale sulla sua scrivania, in mezzo alle bollette pagate.
“Adesso scrivine un’altra di storia” mi pregò mio padre, dopo qualche giorno. “E di cosa scrivo?” gli domandai sbucciando carote e patate per il minestrone. “Scrivi di me, tanto io non mi offendo se racconti la verità” si sacrificò.
A proposito di verità: papà è un operaio del gas in pensione e mia madre una casalinga istruita. I titoli nobiliari sono uno scherzo di famiglia, ma la storia sarebbe troppo lunga da scrivere tutta prima di cena. Per ora basta dire che Verolea è un pendio scosceso dove Guido Sirace da anni guarda gli ulivi crescere e dare il frutto che possono. Le volte che papà torna dal frantoio del paese col bidone pieno d’olio, subito corriamo al forno per comprare il pane caldo, lo spacchiamo e lo condiamo, in ultimo ci spolveriamo sopra sale e origano, poi mastichiamo in silenzio intorno al tavolo. E in cucina si avverte solo lo scricchiolio felice che Antonia Cristallo fa con la dentiera. Alla fine io bevo acqua fresca e bacio ridendo il pane e la bottiglia untuosa: il bacio è la mia preghiera. “Magara brutta!” mi rimprovera nonna. Per Antonia Cristallo ogni gesto di troppo è femminea magheria. Infatti quando vide per la prima volta Nicca Fiori, sbarcata fresca dalla Sardegna in continente, notò le sue unghie lunghe e inquiete, la sigaretta accesa e i capelli neri sciolti sulle spalle, e pensò che suo figlio s’era sposato una gatta nana. Mia madre fece finta di non capire il pensiero di Antonia Cristallo, ma cominciò a chiudersi nel gabinetto a leggere Grazia Deledda. E a forza di romanzi, mamma diventò la Baronessa di Babbumannu. Provai a ricordarle che suo padre, mio nonno, era un fiero vaccaro, ma Nicca Fiori precisò che suo padre era un allevatore, quindi uscì a camminare nel sole d’agosto. Prima però indossò un’altera paglietta ornata da un nastro a fiori, ed era bella come una di quelle bambole sedute a gambe larghe sui comò di certe camere da letto.
“Alzati, prendi la tua barella e va a casa tua.”
(Mc 2,11)
Qui è casa per me. Ci sono ritornata con la laurea ed ero felice sul treno che da Perugia scendeva a Sud. Di quel viaggio ricordo solo una donna che esaminava scrupolosamente la maglia con le cuciture a vista che i compagni d’università mi avevano regalato il giorno prima. La donna, per indagare meglio, inclinava il collo. “Signorì, tenete la maglia arrovescio!” mi disse, sicura di essere nel giusto. “Signò, è moda…” la rassicurai sorridendo. La donna tacque per un istante, guardò fuori dal finestrino la parata di panni al sole che annunciavano Napoli, poi si preparò a scendere domandandomi dove fossi diretta. “Lamezia Terme” risposi piano. “Signorì, giratev’a maglia, ch’a Lamezia ’a moda nn’a capiscono…” mi raccomandò sospirando la signora napoletana.
Subito mi sfilai il maglione: le cuciture ritrovarono il loro posto, e io il mio. E quando ci si rassegna alla verità, si riconosce immediatamente il proprio posto, e non se ne pretende uno diverso, perché l’angolino che ci spetta è tutto il paradiso di cui siamo capaci sulla terra. In cielo magari le cose cambiano.
Sui binari c’era mio padre, immerso in un mare di voci alte, di risate larghe e di occhi più vivi che altrove. Intorno a noi passi strascicati e dubbiosi si sveltivano scorgendo un volto amato: le facce sono il vero arrivo.
Appena fuori dalla stazione, un venditore ambulante pesava un cartoccio di frutta, e lo porgeva a una giovane donna che annuiva soddisfatta. “Nell’orto del Signore devono campare tutti!” gridava allegro il fruttivendolo, per vantare i prezzi invitanti di cui godevano i suoi clienti.
In quel preciso momento sentii d’amare il Sud perché ti lascia campare senza chiederti nulla, come una melanzana viola nei campi rossi di tramonto.
“Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato!”
(Mi 4,4)
Davanti al muro di casa nostra c’è un fico selvatico: era un virgulto quando i bimbi del quartiere lo steccarono con un legnetto per fargli sconfiggere il vento, poi stabilirono di innaffiarlo ogni sera. Le donne più anziane avrebbero voluto estirpare l’albero, con la scusa che le radici spaccano muri e strade, i rami e le foglie chiamano i fulmini, mentre col bel tempo tolgono luce, in più i frutti maturi cadono e sporcano l’asfalto. Ma alle vecchie rammentai che la pianta era nella nostra proprietà, e che doveva restarci, proprio perché per vivere sfidava cemento e bucava pietre. Ad Antonia Cristallo la discussione non interessava, ma si affacciò. “Rosamia ha ragione!” disse alle vicine. E Rosasua sono io.
Oggi il fico è un generoso ombrello di smeraldo: l’estate ripara dalla calura e sfama uccelli e api, in autunno poi copre di foglie il nostro balcone, e i rami spogli tagliano la luce e ci disegnano figure sulle piastrelle della cucina.
Col freddo, quando c’è legna da ardere, noi donne restiamo in casa, cuociamo i fagioli nel caminetto e ci godiamo la fiamma: Antonia Cristallo sonnecchia dentro lo scialle marrone, Nicca Fiori e io guardiamo in televisione i capelli, i vestiti e i gioielli delle donne. A volte suona il campanello e stringiamo le sedie per far posto. Prima alla porta scampanellavano la Risa o la Truscia, adesso c’è rimasta solo la Palombella a farci visita, nei mesi in cui arriva in pullman da Torino, dove ha traslocato giusto perché i figli ce l’hanno trascinata con la paura che si trascurasse.
La Palombella è l’unica amica della Baronessa di Babbumannu. Anche la Truscia e la Risa le piacevano, ma ormai abitano al camposanto, così mamma ha murato le finestre con tre tende arancioni, e per svagarsi fuma in piedi sul terrazzo: il mondo ormai le interessa poco, e dall’alto.
Antonia Cristallo è soddisfatta d’essere l’unica vecchia di casa, perché le pesava dividersi l’amore con le vicine.
La Risa era la compagnia che nonna tollerava meglio: aveva un torciglione di capelli neri e il vizio bello di abbracciare la gente più giovane per fiutare freschezza. “Profumo di gioventù!” gridava respirando nell’incavo del mio collo, e io ridevo per il solletico che mi procurava il suo fiato all’anice. Da anni la Risa abitava sola, ma ogni tanto la notte i vetri delle sue finestre crepitavano: un vedovo ottantenne li colpiva con pietre in amore. Ed era dolce e ardita insieme quella pioggia di fuoco tardivo.
Da ragazza la Risa si era scoperta gravida senza accorgersene, e la bimba l’aveva regalata a qualcuno, come si regala un giglio bianco. “Era bella, sai?” mi raccontava le volte in cui, per qualche litro d’olio, raccoglieva olive con noi, e a fine giornata mangiavamo insieme pasta e pomodoro alla tavola del Visconte di Verolea. Con la vecchiaia, la Risa godeva di un amante rugoso, della casa e della pensione di reversibilità: si era meritate tutte e tre le cose cambiando il pannolone all’uomo che l’aveva sposata apposta prima di morire. Alla Risa piacevano i liquori dolci e il vino rosso, le camicie a colori sgargianti e la musica a tutto volume: aveva comprato uno stereo portatile da Alfredo il Marocchino, e con le canzoni napoletane faceva ballare tutte le bomboniere, i bicchierini e le statue di santi della camera da pranzo. Da quando la Risa è morta, il suo sant’Antonio prega in pace sul mio comodino.
La Truscia poi me la ricordo zampillare da sotto la gonna meglio di una fontana: s’era arresa a quella pratica impudica appena il bagno all’ultimo piano le era sembrato una vetta inarrivabile per le sue ginocchia. Ancora oggi, se dalla strada risalgo verso il ballatoio delle nostre case strette l’una all’altra, quasi vedo per terra lo scomposto fiumiciattolo che la donna lasciava colare dalle cosce allargate ad arte. E mentre il giallo scorreva libero in rivoli fumanti, la Truscia sorrideva amorevolmente ai vicini, e a tutti diceva sempre buongiorno, per educazione.
Ma adesso scrivo qualcosa dell’ultima amica viva di Nicca Fiori: la Palombella. La Palombella si chiamerebbe Liberata, ma il suo defunto consorte le cambiava nome per vezzeggiarla, e noi abbiamo continuato. Liberata ha mantenuto la famiglia facendo la bidella, intanto il marito invalido stava a casa a cucinare: era di certo il malato più fecondo del secolo, giacché la sua piccola signora gli partorì sette figli, lavorando senza posa. Ancora oggi la Palombella cuce rammenda pulisce rassetta ricama tesse lavora ai ferri prepara conserve cura vecchi e bambini sgozza animali lavora carni coglie frutta impasta tagliatelle inforna pani fa il bucato a mano si lava i capelli e li attorciglia sui i bigodini, infine prega il rosario con Radio Maria. E a primavera spalanca il balcone e le preghiere nell’aria ricalcano il volo delle rondini, e tutta la via scopre che la Palombella è sintonizzata col cielo, ma sbadiglia nella sua casa color buccia di pesca. Va detto però che la casa della Palombella è color buccia di pesca solo per lei: non si è intesa con l’imbianchino del paese, allora quella che doveva essere una facciata rossastra ha virato pericolosamente al rosa, tanto che gli autisti degli autobus ci sbandano davanti, frenano e inforcano gli occhiali da sole. “Ti piace com’è venuta la casa?” mi ha domandato la Palombella. “Che colore è?” le ho chiesto improvvisando una risposta gentile. “Buccia di pesca” mi ha detto lei. “Ma pesca abbagliante!” m’è scappato di bocca. E la Palombella non si è offesa. “Il sole la scolora” ha concluso con un sorriso. Ecco: la Palombella è una di quelle donne che sanno che tutto sbiadisce, prima o dopo. Forse è per questo che la Baronessa di Babbumannu si rivolge con un rispettoso “signora” a quella che per noi tutti è la Palombella.
“Rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda.”
(Sal 90)
Oggi ho viaggiato in autobus fino a Catanzaro: mi hanno assegnato tre giorni di supplenza in un liceo. Per arrivare a scuola in tempo, ho preso la corsa delle sei meno un quarto. Intorno avevo gli occhi della mattina presto, quelli gonfi di sogni spezzati dalle sveglie a batteria, poi l’autobus delle Ferrovie della Calabria ha mangiato le ultime curve scivolando nel sole che sorgeva dal mare, e i finestrini erano televisioni con il Golfo di Squillace in onda, mentre l’autista guidava veloce con la radio che dava un programma di musica romantica: cantavamo tutti sottovoce e pareva una gita scolastica.
Pietro, l’autista svelto, rideva di cuore e raccontava di cani randagi che salgono sull’autobus, di gente che non ha soldi per pagare il biglietto e se lo fa offrire come un caffè, di genitori anziani che vanno all’ospedale con i mezzi pubblici per non scomodare i figli, di uno con la gamba finta che monta in carrozza ubriaco perché è triste per la gamba vera che gli manca. E io ascoltavo le storie di Pietro e viaggiavo molti viaggi insieme, e quasi non mi importava più di averne uno per me, perché certe volte adattarsi in silenzio al viaggio degli altri è un modo segreto per andare nel posto giusto. Ma in certi momenti Pietro stava zitto: si perdeva con la testa in una canzone speciale solo per lui.
Sull’autobus c’era anche l’Avvocata, una donna del mio paese che non ha ancora deciso se lavorare in tribunale oppure vendere bambole, collane e confetti, allora ha inchiodato due insegne diverse sulla porta di casa sua, e in strada attende cause e clienti con una bambola in braccio, e la culla con dolcezza.
Pioveva piano a Catanzaro, ma un uomo gentile mi ha accompagnata fino al liceo con il suo ombrello.
In classe uno dei ragazzi mi ha chiesto se poteva sbucciare una castagna mentre facevo lezione, e io ho risposto di sĂŹ.
Alla fine del mio primo giorno da insegnante, sapevo che quella non era la mia strada. Prima di ripartire, ho bevuto un caffè al bar della stazione: la cameriera ha disprezzato con uno sguardo le mie scarpe fuori moda, e di me non le importava altro.
Antonia Cristallo ha sempre girato per casa con un paio di ciabattine, e gli stivaletti di pelle buona con la cerniera di lato li conservava incartati dentro una scatola: non sperò mai un giorno, una festa o un cammino che meritasse le scarpe belle, e i suoi piedi a calzarle. Così nonna gli stivaletti ancora nuovi me li ha lucidati per andare a messa e al lavoro, quando ce n’è.
Sull’autobus che risaliva al paese ho attaccato la tempia al finestrino freddo: ripensavo al giorno in cui confidai ad Antoni...

Table of contents

  1. Il Cielo Comincia dal Basso
  2. Colophon
  3. Cominciamento
  4. Indice