Lezioni di filosofia politica
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Lezioni di filosofia politica

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Le Lezioni di filosofia politica di Lucio Colletti, finora inedite, sono state tenute dall'autore nel 1958 all'Istituto Gramsci di Roma. Esse riflettono sia gli interessi del Colletti studioso di fama internazionale del pensiero marxista, sia le preoccupazioni e i temi vivi nel movimento operaio e più in generale nella sinistra italiana ed europea da poco uscita dalla guerra contro il nazifascismo e subito immersa nella Guerra fredda e nello scontro Est-Ovest. Vengono qui trattati il giusnaturalismo, Rousseau, Kant, il confronto fra liberalismo e democrazia, le trasformazioni del modo di produzione capitalistico, le trasformazioni dello Stato di diritto liberale. L'ultima lezione affronta anche il tema della rivoluzione, cercando di far emergere il vero pensiero di Lenin per distinguerlo accuratamente dalle interpretazioni "blanquiste". Tema, questo, che tornerà di attualità negli anni di piombo.

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Lezione 1. Democrazia e definizioni

Iniziando un corso che verte sui problemi della democrazia, dovremmo dare innanzitutto, se possibile, una definizione di democrazia. Tuttavia chi scorra la pubblicistica politica contemporanea scopre che tra il significato etimologico della parola: democrazia («potere del popolo») e le definizioni scientifiche del termine che noi incontriamo nella maggior parte di questa pubblicistica, esiste una profonda differenza. In questo caso possiamo dire che la scienza, o per lo meno una certa scienza, non corrobora e non esplicita i significati già impliciti nel senso comune del termine, ma li sovverte.
Nel caso della democrazia, vediamo infatti che le definizioni che da varie parti vengono formulate – scelgo solo alcuni esempi – non sono definizioni relative a un potere politico attivo che venga esercitato da parte del detentore della sovranità, cioè da parte delle masse popolari, lavoratrici, ma al contrario la definizione che noi incontriamo è una definizione limitativa. Per democrazia si intende un sistema di argini o di limiti che, come vedremo, hanno come obiettivo proprio quello di arginare e limitare la sovranità popolare, cioè quelle tali forze alle quali, sia pure vagamente, ci si riferisce quando si parla di forze e di poteri democratici.
Per darvi alcune esemplificazioni mi riferirò ad alcuni volumi della pubblicistica politica contemporanea, libri che sono apparsi recentemente in Italia, anche pregevoli nel loro genere, e comincio appunto da Democrazia e definizioni di Giovanni Sartori1.
Si tratta di un libro assai pregevole, malgrado sia di un orientamento diverso da quello che noi pensiamo sia l’orientamento democratico, il cui pregio non ultimo consiste nella capacità di esplorare in modo esaustivo tutta la complessa materia e la complessa problematica che si connette al significato, non solo etimologico, ma politico della democrazia così come si presenta nei tempi moderni.
Dice dunque Sartori:
Il nostro potere popolare è tutt’altra cosa da quello della democrazia antica, dalla democrazia diretta di tipo roussoiano. Il fatto è che da noi la potestà popolare risorge e riesce operante perché non è più l’elemento dei meccanismi politici che riassorbe in sé tutti gli altri, è stato viceversa assorbito dagli altri. Nei processi potestativi dei regimi liberal-democratici [che per Sartori sono i regimi democratici tout court] lo stretto elemento democrazia, come tale è solo il più vistoso, il più appariscente, ma di per sé non è certo il più importante. Ed insomma – conclude Sartori – non è il potere popolare comunque avviluppato che fa funzionare a dovere i meccanismi di un regime libero2.
Passando a un altro di questi libri, ai quali accennavo poc’anzi, e cioè al volume di Maranini Miti e realtà della democrazia edito nel 1958 da Comunità, incontriamo quest’altra definizione:
Per coloro i quali sanno come i governanti siano sempre una minoranza e come la democrazia consista solo in determinate qualifiche e caratteristiche di tale minoranza, il regime della maggioranza non è che il regime della tirannia. Le «grandi democrazie storiche» [e qui evidentemente allude alle democrazie anglosassoni] sono in verità, se ne studiamo la struttura, complicati e validi sistemi di difesa contro la maggioranza, contro gli stessi organi dello Stato, contro, il potere politico a favore degli individui delle minoranze3.
Quest’ultima definizione rende più complesso il problema di definire contro che cosa questi argini esercitino la loro azione di contenimento, nel senso che qui vediamo indicate contemporaneamente due potestà contro le quali il regime democratico dovrebbe tutelarsi, e cioè il potere della maggioranza e al tempo stesso il potere politico come tale. In altri termini la democrazia sarebbe quel congegno politico che arginerebbe a un tempo sia il potere popolare vero e proprio, cioè il potere della maggioranza, sia i poteri dello Stato.
In realtà se entriamo addentro nell’analisi della problematica politica contemporanea e della storia del pensiero politico, vediamo che uno di questi due fattori contro i quali ci dovrebbe tutelare, garantire, difendere la democrazia così intesa, in realtà rimanda a uno degli avversari che, all’origine, incontrò la liberaldemocrazia. Uno di questi due fattori, il potere dello Stato, non accenna altro che a quei governi assolutistici o illuminati contro i quali si batterono le punte avanzate della borghesia in Francia ed in Inghilterra. Tale potere ormai non esiste più, mentre l’altro potere che è rimasto in piedi, e contro il quale appunto la democrazia si dovrebbe difendere, è il solo dei due fattori che sia effettivamente attuale oggi, ed è quello della maggioranza popolare.
In effetti l’istanza antistatalista che era implicita nelle posizioni politiche liberal-democratiche originarie (anzi dovremmo dire addirittura liberali se vogliamo usare una terminologia precisa), era appunto quella del dispotismo illuminato. Ma nella situazione attuale alla liberaldemocrazia non si presenta più un avversario di questo tipo. L’unico avversario contro il quale la liberaldemocrazia deve tutelarsi è rappresentato oggi dal potere popolare. Quindi il primo di questi due elementi lo possiamo scartare, perché esula dalla problematica politica contemporanea. Del resto basta riandare alle stesse formulazioni di uno dei maggiori teorici dello Stato di diritto o Stato liberale, cioè alla dottrina del diritto di Kant, per vedere come già in Kant quella che era una preoccupazione ancora presente in Locke, l’attacco al vecchio Stato assolutistico, appaia una preoccupazione tramontata. In Kant la difesa della libertà infatti coincide già con la difesa dello Stato, divenuto Stato di diritto.
È da notare – tanto per aprire uno spiraglio sul quale sarà necessario tornare nel seguito di questi incontri – che una simile definizione di democrazia tende a stabilire immediatamente un avvicinamento tra il potere assolutistico dispotico e il potere democratico. Questa concezione della democrazia (che poi, è bene dirlo subito per evitare equivoci o oscurità nella conversazione, non è la definizione di democrazia, ma è propriamente la definizione di liberalismo) identifica e assimila subito due avversari del liberalismo egualmente pericolosi, che sarebbero, appunto, per un verso il potere popolare, la sovranità popolare, l’esercizio diretto da parte del popolo del potere e per un altro il dispotismo illuminato.
Entro questo quadro capite meglio come tutto il pensiero politico liberale fin dagli inizi sia orientato in senso chiaramente ed esplicitamente antidemocratico. La democrazia, l’esercizio diretto del potere da parte delle masse popolari, da questo punto di vista è un tipo di governo ugualmente dispotico come lo era il governo del vecchio assolutismo. Ed è entro questo contesto, per fare un salto ai nostri giorni, che voi vi spiegate come anche da parte di studiosi del pensiero politico autorevoli si proceda alla identificazione di fascismo e comunismo, ricondotti entrambi nella comune categoria di regimi totalitari, cioè di regimi non liberali. Con l’avvertenza però – questo è un punto sul quale converrà sempre insistere – che quando oggi si parla di regimi liberali molto raramente li troverete formulati e descritti come tali, ma generalmente li troverete invece descritti con la formulazione impropria di regimi democratici o al massimo di regimi liberaldemocratici.
Sempre per esaminare altre definizioni che ci offre la pubblicistica politica contemporanea possiamo passare allo Schumpeter. Schumpeter propone una definizione di democrazia in senso puramente tecnico. Definendo la democrazia un metodo, una tecnica politica, Schumpeter sgancia il problema della democrazia da quello di un regime che faccia gli interessi popolari o di un regime che sia espressione della volontà popolare. Schumpeter tralascia questo aspetto e si ferma esclusivamente su quelle che sarebbero lo caratteristiche tecniche che permettono di qualificare come democratico un regime politico.
Dice appunto Schumpeter:
Il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare. [...] Il metodo democratico è la libera concorrenza fra candidati alla leadership per ottenere il voto degli elettori4.
Qui abbiamo una definizione di democrazia che fissa solo un particolare aspetto tecnico, e cioè la competizione dei candidati per poter disporre del voto popolare, per poter ottenere la delega a rappresentare il voto degli elettori. A questo punto, se mi permettete di insistere ancora su questi riferimenti testuali, Schumpeter introduce una connotazione che è particolarmente interessante perché stabilisce un’analogia (che come vedremo successivamente è qualcosa di più di un’analogia) tra il metodo democratico inteso come metodo della competizione da parte di alcuni uomini politici per ottenere il voto popolare, e il metodo della competizione a livello economico, e svolge una argomentazione che è di particolare interesse:
Fornire i mezzi per soddisfare i bisogni [Schumpeter stabilisce un’analogia con i problemi economici] è lo scopo o significato sociale della produzione. Siamo però tutti d’accordo che questa proposizione sarebbe un punto di partenza irrealistico per una teoria nell’attività economica in società mercantili, e che sarà più conveniente partire da proposizioni riguardanti il profitto5.
Se noi volessimo definire le caratteristiche di un regime di produzione in una società mercantilistica, dice Schumpeter, sarebbe assolutamente astratta una definizione in base alla quale si definisse la produzione come il mezzo mediante il quale vengono soddisfatti i bisogni della società, perché in realtà la sola definizione che potrebbe aprirci uno spiraglio per capire che cos’è la produzione in una società a regime mercantilistico, sarebbe quella definizione che tenesse conto non già del movente della soddisfazione dei bisogni sociali, bensì del movente del profitto.
Analogamente, il significato o la funzione sociale dell’attività parlamentare è indubbiamente di produrre leggi, ed in parte misure d’ordine amministrativo, ma per capire come la politica democratica serva a questo fine sociale [continua l’analogia con la produzione] dobbiamo partire dalla lotta di concorrenza per il potere e riconoscere che la funzione sociale è assolta, per così dire, incidentalmente, nello stesso modo in cui la produzione è incidentale rispetto alla realizzazione di un profitto6.
In altri termini, così come in un’economia mercantilistica la soddisfazione dei bisogni è un fine incidentale, e il fine reale è quello del profitto, egualmente per quanto riguarda il metodo politico democratico, così come lo troviamo nelle democrazie storiche, come quelle anglo-americane, il fine della funzione sociale, cioè il fine di amministrare la cosa pubblica è un fine incidentale. In realtà il fine immediato, così come lì era il profitto, qui è la concorrenza per il potere.
Il libro è stato scritto nel ’42, quindi in un momento in cui con la guerra mondiale i problemi della democrazia si ponevano in modo drammatico alla coscienza europea e mondiale, Schumpeter, senza essere affatto in vena di scherzare o di denigrare a cuor leggero le istituzioni democratiche occidentali, riporta le considerazioni di un uomo politico, del quale non fa il nome, come espressione di quella che è realmente la funzione del politico democratico quando non ci si voglia fare delle illusioni, ma si voglia invece essere realisti: «quello che gli uomini d’affari non capiscono è che, esattamente come loro trattano in petrolio, io tratto in voti»7.
Abbiamo visto sommariamente – e avrei potuto moltiplicare facilmente le citazioni – alcune definizioni di democrazia per le quali la democrazia non si configura come un potere popolare, come un potere gestito dal popolo, cioè da quello che dovrebbe essere il detentore della sovranità popolare, bensì come un insieme di tecniche, di dispositivi di sicurezza, di argini che debbono fare fronte a determinati pericoli. Tali pericoli sono identificati sia nello strapotere incondizionato dello Stato (questo aspetto rispecchia prevalentemente una situazione originaria, cioè la situazione che si trovarono di fronte le forze liberali borghesi quando dovettero abbattere il vecchio ordinamento assolutistico) sia nel potere incontrollato della maggioranza.
È evidente che un’analisi seria dei problemi dalla democrazia non può prescindere da un dato di fatto che è anche uno degli argomenti fondamentali di tutti i teorici antidemocratici, e cioè che effettivamente nelle democrazie cosiddette storiche noi troviamo di fatto una massa popolare disorganizzata, atomizzata, quindi di fatto suscettibile di tutte le deviazioni di umore e di tutte le seduzioni possibili e immaginabili. È questo un argomento sul quale generalmente viene richiamata l’attenzione da parte dei teorici antidemocratici, proprio per mettere in discussione la tesi che sia comunque possibile un regime politico che sia espressione diretta del potere popolare, o che comunque esista come tale una capacità da parte del popolo di gestire in prima persona la cosa pubblica.
Questo tema è già stato affrontato quando abbiamo dovuto precisare il significato di democrazia e chiarire che, quando da parte di questi autori si parlava di democrazia, sarebbe stato più esatto parlare di liberalismo o al massimo di liberaldemocrazia. Si tratta di un grosso problema di storia del pensiero politico. Il pensiero politico occidentale classico è un pensiero che ci appare non solo retrospettivamente, ma già al momento del suo sorgere, come diviso in due grandi filoni che si avvertono reciprocamente come antitetici.
Da un lato abbiamo il filone liberale, quello che oggi viene generalmente qualificato tout court come il filone democratico. È il filone che ha alcuni suoi classici rappresentanti in Montesquieu, in Locke e soprattutto in Kant, un autore scarsamente valutato sotto questo profilo dalla cultura politica ordinaria, ma certamente uno dei maggiori e forse il più grande teorico dello Stato di diritto. Quando passeremo all’analisi di alcuni punti della dottrina del diritto di Kant vedremo che da questo punto di vista non è stato fatto il minimo passo avanti rispetto a Kant. Kant in realtà chiude e corona tutto l’Illuminismo e quindi quanto di più avanzato abbia dato il pensiero politico borghese. Non a caso alcuni dei teorici politici più seri come Solari e Bobbio sono tutt’oggi fermi alla lettera della dottrina del diritto di Kant.
Il secondo filone è quello propriamente democra...

Table of contents

  1. Lezioni di filosofia politica
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Presentazione di Laura Boldrini
  5. Prefazione di Renato Brunetta e Paolo Romani
  6. Introduzione di Luciano Albanese
  7. Lezione 1. Democrazia e definizioni
  8. Lezione 2. La tradizione giusnaturalistica
  9. Lezione 3. Kant e lo Stato di diritto
  10. Lezione 4. Kant e il liberalismo
  11. Lezione 5. La proprietà privata in Kant
  12. Lezione 6. Liberalismo e democrazia
  13. Lezione 7. La Questione ebraica di Marx
  14. Lezione 8. Democrazia e socialdemocrazia
  15. Lezione 9. Bernstein e Kautsky
  16. Lezione 10. Stato e rivoluzione di Lenin
  17. Lezione 11. La Critica del programma di Gotha
  18. Lezione 12. Hilferding e il capitale finanziario
  19. Postfazione. Colletti e Sartori, Sovranità e Rappresentanza di Mariacristina Masi