Il più bello dei mari è quello che non navigammo
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Il più bello dei mari è quello che non navigammo

Per una politica autentica e appassionata

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Il più bello dei mari è quello che non navigammo

Per una politica autentica e appassionata

About this book

La passione politica di Gianni Pittella viene da lontano. Da quando ancora ragazzino saliva su una sedia di vimini per convincere le folle a votare a sinistra. E non è mai venuta meno. Dopo gli anni all'università, ha iniziato un percorso politico in continua ascesa, che dalla Regione Basilicata lo ha portato prima alla Camera dei Deputati e poi a ricoprire ruoli importanti al Parlamento Europeo, senza mai perdere il contatto con il territorio. Una vita passata a lottare per gli ideali socialisti, per il Sud e per i Sud del Mondo. In occasione della sua elezione a Senatore della Repubblica, Pittella ripercorre i passaggi più significanti della sua vita politica e lancia la Fondazione Attua, un nuovo strumento di azionariato popolare complementare alla sua attività politica, per rafforzare i territori e per fare da catalizzatore per le tante belle idee che animano le nostre comunità.

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Information

Capitolo VI
Ripartire dalle radici

L’azzardo di Cameron

Sono passati oltre due anni in cui il Primo Ministro del Regno Unito proclamò l’indizione di un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea, e ancora mi chiedo come abbia potuto scommettere con il futuro del suo popolo e dell’Europa per una posta finalizzata soltanto a rilanciare la sua leadership interna al partito. È un mistero. Uno dei più grandi errori della politica di sempre, una delle più miopi e disgraziate scelte che un leader abbia mai assunto. Tutta la campagna referendaria è stata un incubo che si è trasformato in tragedia con l’uccisione della deputata laburista Jo Cox.
Eppure non riuscivo a convincermi perché mai i cittadini britannici avrebbero potuto scegliere di uscire dalla UE. Non ne vedevo vantaggi, ma solo svantaggi. Quando nella notte dello spoglio delle schede arrivarono i primi exit poll, mi sentii rincuorato. Tutti davano perdente la Brexit con una forchetta di tre-quattro punti. Andai a dormire tranquillo, ma ebbi un sonno sofferto, mi svegliavo e mi riaddormentavo, mi risvegliavo ancora. A un certo punto, potevano essere le 6 di mattina, non resistetti e mi alzai correndo verso il cellulare: il primo messaggio era di Laura Person, membro del mio gabinetto in rappresentanza del Labour. Era drammatico, non c’era più speranza. Certo, a Londra non aveva vinto la Brexit, idem in Scozia e tra i giovani, ma il computo generale dava la vittoria all’uscita. Un disastro dovuto certo ai fattori di malessere che animano le nostre comunità, ma effetto anche dell’insipiente gestione della partita, così seria e vitale, da parte di Cameron, che non aveva alcun obbligo di indire il referendum e lo aveva fatto solo e soltanto per affermare la sua leadership nel partito. Aveva fatto male i conti, il referendum lo ha perso e lui si è dovuto dimettere. Stesso errore lo ha commesso il nuovo Primo ministro Theresa May che, invece di impostare con apertura il negoziato con la Ue per il divorzio, ha chiamato nuove elezioni anticipate sperando di stravincere ed è stata sul punto di straperderle, con il leader laburista Corbyn a soli pochi voti di distacco da lei.
Quando penso al giorno della Brexit, percepisco ancora una sensazione fisica negativa, e mi rivedo incredulo ad ascoltare alla radio il verdetto del popolo britannico. Riuniti d’urgenza, in ufficio, con i miei collaboratori più stretti, ricordo ci mettemmo al lavoro sul comunicato stampa più odioso della mia carriera. Così cominciai il giro di telefonate con tutti i principali attori istituzionali e con tutti i leader della famiglia politica socialista. Era il colpo più duro che l’Unione europea avesse ricevuto dalla sua nascita. Mai avevamo perso un pezzo. Le discussioni sull’allargamento e sulla dimensione naturale e politica dell’Europa hanno avuto un peso importante nella discussione politica a livello europeo dell’ultimo ventennio. Ora eravamo di colpo di fronte a un ridimensionamento e ad un’amputazione. Una cosa era chiara a tutti, in quell’ora grave, il meglio che tutti potessimo fare era dare prova di sangue freddo e di unità. Avevo incontrato Cameron non più di un mese prima a Bruxelles, aveva chiesto di vedermi per discutere l’accordo che consegnava al Regno Unito delle deroghe speciali in materia di legislazione sociale e di immigrazione. Era puro maquillage, lo sapevamo tutti, ma Cameron credeva e sperava che sarebbe bastato a invertire quel processo disastroso a cui lui stesso aveva dato il via. Gli feci un grosso in bocca a lupo, a lui e a noi. In realtà la macchina era già completamente sfuggita al suo controllo, e soprattutto non aveva fatto i conti con il sentimento di mal sopportazione del popolo britannico con quella voglia di riprendersi il controllo. Di cosa?
Non sempre la razionalità anima le scelte, i sentimenti e le emozioni sono un motore cruciale e l’esito democratico va sempre rispettato, anche quando non ci piace.
Sono passati tanti mesi, Cameron è andato via travolto dal suo azzardo, il nuovo Primo ministro Theresa May sembra incapace di affrontare le sfide concrete legate al divorzio: la tutela dei cittadini europei nel Regno Unito e dei cittadini britannici nella UE, gli impegni finanziari contratti fino al 2019 con l’Unione e la frontiera tra Irlanda e Irlanda del Nord che fu fonte di una sanguinosa guerra civile. Mentre la May balbetta su queste questioni, le istituzioni europee sono unite e determinate.
E un leader capace di rigenerare il Labour Jeremy Corbyn è pronto a lanciarle il guanto di sfida.

C’è da mordersi i gomiti

Non c’è che dire. I referendum non portano bene. Almeno nel 2016.
Anche in Italia abbiamo avuto un referendum e con il suo esito è crollata una opportunità storica.
Come fu per la Costituzione Europea, come per il Regno Unito, sotto il peso di una campagna contro che mette insieme il diavolo e l’acqua santa, la Riforma Costituzionale costruita con meticolosa pazienza e autentico spirito di innovazione, è abbattuta dal 60% dei votanti.
Eppure il testo non toccava i valori fondanti della Repubblica Italiana, ma superava l’inutile e dannoso bicameralismo perfetto che rallenta le scelte e impaluda i processi decisionali.
Il 4 dicembre 2016 rimarrà una data indimenticabile nel novero delle occasioni sciupate per modernizzare il nostro Paese.
Quel NO temo ci abbia consegnato una fase di instabilità politica che certo non aiuterà i cittadini italiani. Renzi aveva visto giusto e aveva operato da statista. Peccato che la scelta di politicizzare e personalizzare il referendum abbia inciso non poco nella creazione di un fronte incollato dalla avversione verso il leader del Pd piuttosto che dai reali contenuti della riforma.

A un passo dal Tracollo

Dopo la Brexit e la vittoria di Trump l’avvicinarsi delle elezioni in Francia e in Olanda, sono state vissute con lo spasmo del colpo del Ko. Lo spettro di Marine Le Pen Presidente della Repubblica francese e del successo dell’estrema destra in Olanda ci ha fatto tremare. In pochi mesi sarebbe stata spazzata via una conquista storica che aveva unito, nel nome della pace e di un destino comune, popoli e Paesi che si erano scontrati lasciando sul campo milioni di morti, fame e disperazione. La vittoria di Macron in Francia, ancora più ampia di quanto si pensasse, e la sconfitta in Olanda della destra xenofoba sono state decisive.
Paradossalmente proprio la percezione di inconcludenza della Brexit ha sospinto una nuova consapevolezza che, per quanto perfettibile e malandata sia l’UE, meglio stare dentro che stare fuori o distruggerla. Ma sarebbe ingenuo pensare che tutto sia risolto sia per l’UE che per la famiglia socialista europea.
Macron ha idee europeiste ma serve un grande slancio unitario per una maggiore integrazione politica. Continuano a popolare il panorama europeo leader liberticidi come Orban e Kaczynski e le elezioni che si svolgeranno in importanti Stati membri, come vedremo, mostreranno una sterzata a destra importante.
Il Partito Socialista francese è drammaticamente sconfitto, i socialdemocratici tedeschi toccano la percentuale più bassa della loro storia.
Non basta la splendida affermazione di Corbyn e l’ottimo governo di Costa in Portogallo.
Serve capire in cosa abbiamo sbagliato e indicare una strada nuova.

Dietro ogni nube c’è un sole che splende

E dunque il cielo europeo cupo e maligno progressivamente si dirada.
A Roma nell’anniversario dei Trattati, miracolosamente tutti i Capi di Governo sottoscrivono una dichiarazione di intenti positiva, non del tutto generica e retorica, con riferimenti significativi alle questioni sociali e ambientali su cui noi socialisti avevamo insistito tanto.
Le strade della capitale si riempiono di una folla bellissima e inneggiante all’Europa dei popoli, parlo con passione e veemenza in una piazza gremita di ragazze e ragazzi che non si rassegnano al declino europeo.
E così con una spinta dal basso ci avviciniamo al momento topico della dichiarazione del presidente Juncker in parlamento, sullo stato dell’Unione.
Ero andato a parlarci qualche giorno prima chiedendogli con insistenza di rilanciare il processo di rafforzamento politico e di centralità a misure per la tripla A sociale, per gli investimenti e la crescita sostenibile, per un governo comune della sfida migratoria, per una politica comune dell’asilo.
Juncker recepisce e si presenta con un discorso di spessore, io lo sostengo in aula, ci sono nella sua relazione molti dei punti prioritari per il Gruppo Socialista e Democratico.
Si può aprire davvero una fase nuova e ora tocca ai Governi, da sempre il tallone d’Achille dell’Unione, non mettersi di traverso, convergendo su una nuova direzione che insedi un Tesoro Europeo all’interno della Commissione, con capacità fiscale e con bilancio adeguato alle sfide che l’UE è chiamata a risolvere nell’interesse dei suoi cittadini.
Su questo percorso virtuoso impatta come un fulmine a ciel sereno il referendum sull’indipendenza della Catalogna, un plebiscito unilaterale imposto in violazione della Costituzione democratica spagnola e dello stato di diritto.
Intervengo in aula consapevole dei rischi dirompenti del referendum per la Spagna e per l’intera Unione.
In quella occasione dico ai colleghi:
“Questa non è l’ora delle divisioni, deve essere l’ora dell’unità e della responsabilità. Meno tifo più saggezza. Dimentichiamo per un attimo le nostre appartenenze. Dobbiamo pronunciare una sola parola: Parad! Fermatevi prima che sia troppo tardi. A volte basta un gesto per cambiare il corso della storia. Quando si è sull’orlo del precipizio basta un niente perché tutto precipiti. Ma basta anche un gesto di buona volontà perché il dialogo riparta. Mi rivolgo innanzitutto al governo della Generalitat Catalana. Una dichiarazione unilaterale di indipendenza sarebbe l’ennesima provocazione, getterebbe solo benzina sul fuoco”.
Il referendum non era legale, lo abbiamo ricordato in tanti. E non si tratta di una arguzia giuridica. Sfidare oggi la legalità internazionale significa contribuire a distruggere quel sistema che ha assicurato la pace in Europa negli ultimi 50 anni, sorto proprio per proteggere i popoli più deboli contro l’arbitrio dei più forti.
E dovremmo guardare con meno superficialità al ritorno dei nazionalismi in Europa. Quando si sventola la bandiera della secessione, quando le identità tendono cioè ad escludere invece che includere, si sa dove si inizia ma non si sa dove si va a finire.
Alcuni di voi ricorderanno la frase che Mitterrand pronunciò nel suo ultimo discorso al Parlamento Europeo “Il nazionalismo c’est la guerre, è la guerra”.
Non rinuncerò mai all’idea che si possa essere allo stesso tempo catalani ed europei senza bisogno di nuovi Stati, di nuove frontiere.

La minaccia Cinese

Ti piace vincere facile? A noi Socialisti e Democratici piace vincere in modo giusto, non sleale.
Siamo per la competizione fra eguali, non con chi bara.
Siamo per una economia liberale dove vinca il lavoro, non per una giungla senza regole. Oggi c’è una battaglia fra un turbocapitalismo violento e un capitalismo regolato negli interessi del lavoro.
Sto parlando della spinosa questione della concessione dello status di economia di mercato alla Cina. Questioni tecniche, ma dalle quali dipende il futuro dell’industria europea, di tanti posti di lavoro e anche della qualità dei prodotti e della sicurezza per i consumatori.
Da quando la Cina è entrata nell’organizzazione mondiale del commercio (WTO), l’Unione europea e il Nafta, cioè il mercato unico composto da Stati Uniti, Canada e Messico, hanno trattato Pechino come un’economia di non libero mercato.
Una scelta obbligata e scontata, visto che la Cina è un’economia pianificata comunista, dove non esistono diritti sindacali e i prezzi dei beni non si formano attraverso il libero incontro della domanda e dell’offerta, ma sono decisi dal Governo Centrale. Per questo l’Occidente si è aperto alla Cina opponendo una serie di tariffe per non distorcere la competizione e portare alla chiusura violenta di interi settori industriali, che sarebbero stati inondati da prodotti a basso costo e di dubbia qualità di origine cinese.
Questa dinamica è sotto gli occhi di tutti i consumatori, che hanno visto sostituirsi, soprattutto nei settori meno pregiati del mercato, prodotti europei e americani con omologhi cinesi, venduti a prezzi stracciati, perché il governo di Pechino non garantiva paghe dignitose ai lavoratori che lavoravano senza il riconoscimento dei diritti sindacali e sussidiava gli export, spesso manipolando anche la valuta.
Nel 2016, secondo Pechino, sarebbe scaduto il periodo di transizione della Cina che automaticamente avrebbe ottenuto il nuovo status.
Noi Socialisti e Democratici siamo bel lieti di dare il benvenuto a Pechino nel mondo del libero commercio, ma il mercato comporta uguali diritti e doveri per tutti. Ancora oggi ci sono report della Banca Mondiale che dimostrano come Pechino sussidi le sue aziende attraverso veri e propri escamotage, come, ad esempio, la concessione di permessi a costruire fabbriche a prezzi non di mercato.
Nel maggio del 2016, il Parlamento Europeo aveva compattamente espresso il suo No alla concessione di tale status alla Cina. Eppure, ci siamo ritrovati a negoziare con la Commissione nel legiferare una legge possibilista.
Capisco le difficoltà della Commissione nel legiferare una posizione che riguarda accordi che vanno siglati all’interno del WTO, ma non possiamo svendere i diritti dei lavoratori europei e vogliamo che anche i lavoratori cinesi abbiano i loro diritti.
Una volta fissati questi paletti, le decisioni del WTO seguiranno. Per questo sono soddisfatto dei risultati raggiunti nella negoziazione con la Commissione. Abbiamo, detto No alla concessione dello status di economia di mercato abbiamo spuntato l’inclusione di criteri socio-ambientali nella definizione delle distorsioni commerciali: anche alcune questioni più prettamente legate alla sfera sociale (come il costo del lavoro o la presenza funzionante di organizzazioni sindacali) potranno concorrere alla determinazione delle distorsioni per le quali continuare a porre tariffe, se accertate, per chi compete slealmente. È importante affermare questi principi in sede europea e li rivendicheremo al WTO. A noi non interessa vincere facile, interessa che la giustizia trionfi.

Mezzogiorno sempre

Strappare ad un uomo la terra dove è nato significa strappare il suo passato, le sue radici, la sua identità un po’ come toglierli via gli occhi
Karen Blixen
Anche da eurodeputato tornavo spesso nel mio Sud, appena potevo. Non certo al ritmo che potevo assicurare quando non dovevo dedicarmi con responsabilità politiche notevoli alle questioni europee. Ma ci tornavo, cercando di ritrovare i vecchi amici, i compagni di un tempo, le nuove generazioni che si fanno strada: provando a raccogliere malesseri e a sostenere le buone pratiche che, tante volte, sono eccellenti. Diciassette anni fa istituii a Lauria il Premio Mediterraneo coadiuvato da un gruppo di giovani e buoni costruttori di iniziative culturali e sociali. Volevo piantare un seme perché partendo dalla cultura e dal protagonismo dei territori, il nostro Mezzogiorno costruisse il suo futuro migliore. Credo di conoscere molto bene, quasi palmo a palmo, le sei regioni che costituivano il mio collegio elettorale e so benissimo che ci sono delle energie ultrapositive che alimentano speranza e fiducia. Dall’Abruzzo al Molise, dalla Campania alla Puglia, dalla Calabria alla Lucania. Qualche mese fa sono stato a Potenza a visitare un centro di smistamento delle eccedenze alimentari per i più poveri, animato da giovani appassionati e sensibili. Sempre a Potenza, sono stato a visitare il coordinamento regionale del volontariato e terzo settore e ScamBioLoGiCo, un emporio per la vendita di prodotti biologici, a chilometro zero, sfusi, non imballati, che fondono il commercio equo e solidale con l’artigianato lucano. Ho visto tante attività di riscatto locale e di vera politica dal basso e per il territorio: spazi dedicati al baratto di beni in buono stato, ma anche nuovi luoghi di incontro, formazione, ricerca e sviluppo per la diffusione della cultura ambientale e la condivisione dei saperi. Fermenti che diventano presìdi di partecipazione: come la prima Green Station d’Italia di Legambiente, nata grazie all’intesa sottoscritta da Legambiente, Ferrovie dello Stato Italiane e Rete Ferroviaria Italiana per il recupero delle stazio...

Table of contents

  1. Il più bello dei mari è quello che non navigammo
  2. Colophon
  3. Capitolo I Il sole a Mezzogiorno
  4. Capitolo II Il sapore del grano
  5. Capitolo III La politica reale
  6. Capitolo IV L’Europa che manca
  7. Capitolo V Il Mondo in fiamme
  8. Capitolo VI Ripartire dalle radici
  9. Postfazione
  10. Indice