Tra Piemonte e Liguria
NEI TERRITORI DI NUOVI INSEDIAMENTI come quelli del Nord lo ’ndranghetista ha avuto la capacità d’insediarsi e di radicarsi nel corso degli ultimi decenni tentando di passare, per quanto è stato possibile, inosservato e senza richiamare eccessivi clamori. Non che questi non siano mancati – la stagione dei sequestri di persona è lì a ricordarcelo – ma il tutto è avvenuto senza che le aggressioni giudiziarie, comprese quelle molto robuste del 1992-1994, siano riuscite a sradicare le ’ndrine dai territori dove s’erano abbarbicate a partire grosso modo dagli anni Cinquanta.
I carabinieri della Legione Liguria hanno fatto notare che «la ’ndrangheta in Liguria ha avuto da sempre una presenza molto più discreta rispetto alla Calabria, terra di origine di questa potente organizzazione criminale. I personaggi anziani più rappresentativi che si sono stabiliti nella nostra Regione, hanno scelto di condurre uno stile di vita riservato e scevro dall’ostentazione del potere e dagli eccessi, che ha quindi consentito loro di mantenere un profilo molto basso». Una scelta, dunque, consapevole e ragionata che aveva i suoi vantaggi, dal momento che «tale condizione ha permesso loro di passare quasi inosservati all’azione investigativa, garantendogli allo stesso tempo la possibilità di allacciare rapporti insidiosi con la parte “pulita” o “istituzionale” della società ligure».
Vincolo a doppio nodo
I carabinieri notavano come il rapporto «tra ’ndranghetisti stanziali e quelli residenti nelle aree di origine» fosse «sostanzialmente inscindibile» concretizzandosi in «un vincolo per così dire “a doppio nodo”; invero, se da una parte le “cosche madri” si assicurano lo sfruttamento delle allettanti peculiarità criminali offerte da quella regione, dall’altra i gruppi presenti in Liguria sfruttano il prestigio e l’appoggio incondizionato della ’ndrangheta per mantenere intatto il loro potere egemone su quel feudo lontano. In tale contesto emerge la necessità di una struttura che possa regolare i rapporti di forza in campo, con la funzione di collegamento con le altre strutture criminali della ’ndrangheta».
Anche l’analisi dei codici e dello svolgimento dei rituali ci permette di cogliere il rapporto tra le filiali disseminate nelle regioni del Nord e le ’ndrine rimaste in Calabria. Sono rapporti di dipendenza gerarchica e funzionali. A comandare, ad avere l’ultima parola è sempre chi sta giù, chi è rimasto in Calabria che viene di continuo interpellato, chiamato a decidere. E qui sta la vera funzione della Provincia.
E questo rapporto ha la forza, a volte, di sconvolgere la geografia. Ad esempio, il locale di Voghera «fa parte della Lombardia o di Genova?» chiede uno ’ndranghetista. La risposta chiarisce molte cose perché non è un dubbio geografico che aveva provocato la domanda, e perciò viene risposto che come cartina geografica fa parte della Lombardia, come locale no, perché all’epoca quando fu aperto faceva parte del locale di Genova.
In un ristorante di Ventimiglia nel maggio del 2010 un’intercettazione ambientale registra una conversazione tra due ’ndranghetisti. Il primo informa l’altro che un giovane «è due mesi che mi ha detto che vuole essere fatto… vuole essere battezzato». La richiesta proviene dal giovane, dunque. E l’altro replica: «se non parli con Peppino non si può fare niente».
Quando si trattò di battezzare Nicodemo Ciccia che era in carcere fu chiesto il permesso con una lettera indirizzata al capo locale di Cuorgnè, essendo Ciccia residente in quel comune, e il capo locale informò quelli di Mammola perché Ciccia era di Mammola e il locale era composto quasi tutto da uomini di ’ndrangheta provenienti da quel paese. Come si vede, c’è un rigido controllo per evitare errori nelle affiliazioni tanto più che questi battesimi avvenivano lontano dalla Calabria. Nel contempo tutto avviene nel rispetto delle gerarchie interne. Dal carcere informano gli ’ndranghetisti di Cuorgnè e costoro a loro volta passano la notizia al capo società di Mammola cui spetta la parola definitiva. Sono quelli che stanno in Calabria ad avere l’ultima parola.
Arturo Martucci racconta al pubblico ministero di Torino Anna Maria Loreto la sua affiliazione nei primi anni Novanta. Chi lo volle battezzare chiese il permesso in Calabria e disse che per la cerimonia era necessario scendere giù. E così si fece. Raccontò che l’affiliazione ebbe luogo nella cucina di un ristorante vicino al mare di marina di Palmi. «Su un tavolo erano stati posti in ordine alcuni oggetti ed in particolare delle carte da gioco napoletane, delle immagini sacre, delle sigarette e dei coltelli. Furono poste in ordine le quattro carte che rappresentano i cavalli e sentii dire che simboleggiavano i quattro cavalieri dell’apocalisse ai quali diedero anche dei nomi che ora non ricordo. Seguirono le formule rituali e poi con un coltello fu inciso il pollice destro».
Martucci è tra i pochi che non sente il fascino del rito. «A me venne quasi da sorridere» dice. «Ricordo poi che in occasione di quella cerimonia mi dissero, cosa che mi incuriosì più che altro, che gli affiliati avevano un particolare modo di comunicare a gesti, ad esempio il portare la mano al mento era un segno di riconoscimento dello “sgarrista”, il portare il foulard al collo invece della cravatta voleva dire che c’era un messaggio urgente da trasmettere». È un battesimo con elementi di novità e che richiama quelli in uso in tempi antichi.
Un battesimo a Cuognè
Il battesimo di Ciccia fu fatto secondo le antiche prescrizioni in nome di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. «Dopo la terza votazione mi hanno fatto un taglio a forma di croce sul polso proprio alla base della mano, nella parte interna del polso, non ricordo se destro o sinistro. Il taglietto mi è stato fatto con una lametta, non mi è rimasta la cicatrice. Poi è stato bruciato un santino». In quell’occasione a Ciccia, data l’età, fu conferita la dote di camorrista. Fu affiliato nel locale di Cuorgné perché quelli del locale di Mammola, come s’è detto, fanno capo al locale di Cuorgnè. Un mese dopo le stesse persone «sempre utilizzando il fazzoletto, mi hanno poi dato il grado di sgarro. Io adesso rivesto il grado di vangelo. La santa l’ho presa quando sono uscito dal carcere, a Cuorgné», tra il 2007 e il 2008.
«Avere la santa voleva dire che mi ritenevano una persona affidabile, che potevano far conto su di me in qualsiasi momento. Non erano cambiati i miei compiti e non mi vennero spiegati. La santa fa parte della società maggiore, dove ci sono affiliati con maggiori responsabilità nell’attività criminale. Con la santa devi essere pronto a rinnegare la tua famiglia».
Anche Ciccia conferma che «ogni dote ha un suo rito». Dunque, il rito accompagna l’uomo d’onore a ogni progressione di carriera. E non c’è modo di evitarlo. Né in Calabria, né altrove.
Alcuni sono scettici, ritengono eccessiva questa ritualità e la relegano nelle ridondanze tipiche di questo tipo di ’ndrangheta. Eppure, chi ragiona così tralascia di riflettere su quanto avviene nella normalità della vita di ognuno di noi. Per chi è cattolico c’è un rito per il battesimo, per la prima comunione, per la cresima, per il matrimonio. Ogni volta si sale un gradino e ogni volta si progredisce. Non si vuole prendere in considerazione il fatto che i mafiosi sono la faccia criminale e deformata della normalità che quotidianamente si vive.
Il conferimento della dote del vangelo di Ciccia fu fatto in un ripostiglio di un bar a Torino. Il posto è angusto, il tempo non è molto, e tuttavia nonostante «non ci furono molte formalità le formule furono recitate» lo stesso.
Il permesso alla casa madre fu richiesto solo quando doveva essere battezzato. Per le doti successive non c’era bisogno d’alcuna autorizzazione. Il permesso è necessario al momento del battesimo quando la cautela consiglia di conoscere l’individuo che viene affiliato; una volta entrato nell’organizzazione non è necessario interpellare sempre il livello apicale calabrese. Ricevette il rito, ma prima fu addestrato sull’importanza e sul significato di entrare a far parte della ’ndrangheta:
Gli viene spiegato il senso delle gerarchie e l’obbligo dell’obbedienza.
A cerchio formato
Varacalli disse al pubblico ministero di Torino Roberto Sparagna che quando fu battezzato fu «invitato a mettere un piede nel cerchio così formato e a restare con l’altro fuori»; era davvero inesperto e per certi aspetti poco consapevole di quanto gli stava per accadere: «ricordo che quando venni battezzato, mi venne chiesto cosa avevo da offrire all’organizzazione, io risposi: la jeep pensando che effettivamente dovessi regalare qualcosa». Tutti si misero a ridere e gli spiegarono cosa doveva fare:
Il racconto di Varacalli ci riporta a una consuetudine, quella di offrire una cena e di stringere la mano ai presenti, che si ritrova negli atti giudiziari dell’Ottocento, a conferma che vecchio e nuovo s’intrecciano in modo inestricabile e che parlare di separazione tra vecchia e nuova ’ndrangheta è molto azzardato. Varacalli dice di essere «a conoscenza che per accertare se una persona è affiliata gli si chiede se “conosce a zù Peppino Montalbano” oppure se “conosce la famiglia Montalbano”» che era una delle denominazioni ottocentesche della ’ndrangheta.
Prima di essere affiliato ci fu chi andò da tutti gli appartenenti alla ’ndrangheta di Natile per chiedere loro se erano d’accordo per farlo entrare nell’onorata società. Non era una formalità, né tanto meno una questione come le altre perché la sorella di Varacalli, quando aveva 17 anni, era scappata con un uomo che poi avrebbe sposato ed era rimasta incinta. Ricorda Varacalli: «tale circostanza era disonorevole per la mia persona in quanto non avevo vigilato su mia sorella ciò nonostante tutti gli affiliati di Natile furono d’accordo a farmi entrare nell’onorata società in quanto all’epoca io ero più piccolo di mia sorella e inoltre avevo costituito una mia famiglia autonoma». Avrebbe dovuto tutelare l’onore della sorella uccidendo l’uomo, ma Varacalli si rifiutò di farlo e per questo ebbe la condanna di un suo zio che non accettò il perdono dato ai due giovani innamorati nonostante poi si fossero sposati.
La richiesta di informazioni sul giovane da affiliare non è mai una formalità perché, ha ricordato Varacalli, «bisogna vedere se la persona “‘merita” di far parte della ’ndrangheta. Non sempre le persone che sono “proposte” per entrare a far parte della ’ndrangheta ottengono l’autorizzazione ad entrarvi».
Le vecchie prescrizioni sono ancora valide
Non deve stupire questa vicenda di Varacalli perché ancora oggi gli uomini d’onore prendono sul serio le antiche prescrizioni. Si ricorderà che a inizio Novecento s’era trovato uno statuto che prevedeva l’espulsione delle guardie comunque fossero denominate. A distanza di un secolo, sul finire del primo decennio del 2000 nel basso Piemonte si verifica un episodio che ci riporta indietro nel tempo. Accade che si scopre che uno degli affiliati aveva lavorato in passato come guardia giurata. Aveva indossato una divisa e prestato giuramento a un’altra organizzazione, entrambe prescrizioni vietate dagli antichi statuti. Ed è a questi che ci si appella per contestare il comportamento scorretto dell’affiliato e soprattutto del fratello che era a conoscenza del lavoro precedente del congiunto. L’accusato si difende dicendo di aver fatto il portavalori e di non aver indossato alcuna divisa. Ha lavorato ma non ha fatto lo sbirro – era questa l’accusa nei suoi confronti. In ogni caso la questione non poteva passare sotto silenzio. Altro che nuova ’ndrangheta! Se dovessimo seguire il criterio di vecchia-nuova ’ndrangheta saremmo di fronte a una ’ndrangheta non vecchia, ma vecchissima. Un altro episodio si verifica a Genova dove la figlia di un affiliato si è sposata con un carabiniere. Il capo del locale di Genova chiama l’uomo «evidenziandogli che quello era contrario alle regole e l’uomo si è distaccato».
Dopo il battesimo, voluto dal fratello, Varacalli disse che gli furono illustrati i doveri dello ’ndranghetista che possono essere così sintetizzati:
Varacalli era stato affiliato a Natile di Careri, ma gli fu detto che una volta arrivato a Torino doveva presentarsi per essere riconosciuto. E fu così che Varacalli fu accettato e riconosciuto dagli uomini d’onore che operavano a Torino e in Piemonte.
Il rispetto del territorio
Una volta entrato a...