Storia del pensiero liberale
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Giuseppe Bedeschi

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Giuseppe Bedeschi

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Il liberalismo è un'idea controversa: la parola (nel suo significato attuale) è entrata nel linguaggio politico solo nella prima metà dell'Ottocento; inoltre ci sono state diverse correnti di pensiero liberale. In questo libro Bedeschi sviluppa un'ampia indagine storico-dottrinale: approfondisce in primo luogo i presupposti sociali e culturali del liberalismo (in autori come Locke, Montesquieu, Smith, Kant, Humboldt); espone e discute il liberalismo francese nell'età della Restaurazione (i "dottrinari", Constant); approfondisce il rapporto fra liberalismo e democrazia in Tocqueville e in Mill; esamina i grandi pensatori liberali del Novecento (Kelsen, Croce, Popper, von Hayek, Aron). Ne esce un quadro assai variegato e complesso, che evidenzia sia le peculiarità dei singoli pensatori liberali, sia il loro convergere su alcuni motivi di fondo, che sono ancora al centro della nostra cultura politica.

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PRIMA PARTE
I presupposti intellettuali del liberalismo

1.
Locke. I diritti fondamentali degli uomini: vita, libertà, averi

1. La teoria della proprietà privata

PER MOLTO TEMPO LOCKE (1632-1704) è stato presentato essenzialmente come un teorico della proprietà privata e un suo strenuo difensore, e nel suo pensiero politico si è voluto vedere la migliore dimostrazione del carattere angustamente borghese del liberalismo, colto nella sua genesi, e della sua incapacità di trascendere i propri ristretti limiti di classe. Questo giudizio ha avuto largo corso, nella cultura marxista in primo luogo, ma non soltanto in essa. Del resto, se è ai testi che bisogno prestar fede, non si legge proprio all’inizio del Secondo trattato sul governo: «Per potere politico, dunque, intendo il diritto di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità minore, per il regolamento e la conservazione della proprietà»?1 E Locke non ripete infinite volte questa affermazione nel corso del Secondo trattato2? Nulla di più evidente, quindi, di ciò: il filosofo inglese ha identificato la libertà degli uomini con la libertà dei proprietari, ha avuto cioè una concezione ristretta e “classista” della libertà, incapace di aprirsi alle influenze sociali, civili, politiche e culturali di tutti gli uomini, perché rivolta alla gelosa ed egoistica tutela degli interessi di una sola classe sociale, ovvero della borghesia. «Lo Stato di Locke – ha affermato per esempio Laski – non è altro che un contratto fra un gruppo di uomini d’affari, che formano una piccola società a responsabilità limitata, il cui atto costitutivo vieta ai direttori tutte quelle pratiche di cui gli Stuart erano stati rei fino ai tempi suoi». Locke avrebbe costruito, insomma, le fondamenta di una società nella quale il proprietario fondiario e il contadino, il mercante e il bottegaio, hanno diritto alla fiducia: la sicurezza di cui parla il filosofo sarebbe una sicurezza destinata a loro, la libertà sarebbe quella specie di libertà che essi possono attendersi, con la loro proprietà, di realizzare, e lo Stato sarebbe di natura tale da funzionare a modo loro, per la tutela dei loro interessi3.
È un giudizio, questo, che mette conto di verificare con un minimo di accuratezza. Da tale verifica ricaveremo importanti elementi di valutazione, che ci permetteranno di ricostruire un quadro, in realtà, assai meno schematico e assai più variegato e complesso di quello che molti hanno voluto dipingere.
Certo, sul fatto che la proprietà privata occupa un posto centrale nel pensiero filosofico-politico di Locke non è possibile nutrire dubbi. Egli, a differenza di Hobbes, la colloca nello stato di natura. E fin qui nulla di straordinario. Grozio e Pufendorf avevano fatto la stessa cosa. Costoro, però, avevano dato alla proprietà un’origine convenzionale (gli uomini si accordano, nello stato di natura, per istituire la proprietà privata). Locke procede invece in tutt’altro modo. La grande novità che egli introduce su questo punto appare evidente nella dimostrazione audace e originale che egli dà del sorgere della proprietà, una dimostrazione che fa epoca nella storia del pensiero filosofico-sociale. Ed è a tale dimostrazione che dobbiamo dedicare in primo luogo la nostra attenzione, per coglierne tutto il significato e tutte le implicazioni, e per vedere, poi, se essa esaurisca la concezione lockiana della proprietà.
Il filosofo non si nasconde la difficoltà del proprio assunto. Egli parte infatti dal presupposto, ricavato dalle Sacre Scritture, che Dio, originariamente, ha dato la terra e tutte le cose in comune agli uomini, e riconosce che ciò «sembra costituire una grandissima difficoltà» (T II, 25). Tuttavia, egli non si perde d’animo, e procede diritto al suo scopo.
I momenti centrali della deduzione lockiana della proprietà privata sono i seguenti. È vero che Dio ha dato il mondo agli uomini in comune, ma egli lo ha dato loro per la loro sussistenza e per il conforto della loro esistenza. E quindi, sebbene tutti i frutti che la terra produce naturalmente e gli animali ch’essa nutre appartengano agli uomini in comune, tuttavia, dal momento che sono stati dati per il loro vantaggio, vi deve essere un mezzo per appropriarsene in qualche modo (T II, 26). Né, d’altra parte, può essere stato necessario un consenso degli altri affinché qualcuno si appropriasse di qualcosa, perché, «se fosse stato necessario un consenso del genere, egli sarebbe morto di fame, nonostante l’abbondanza che Dio gli ha dato» (T II, 28). Ora, se è vero che la terra e tutte le creature inferiori sono state date in comune a tutti gli uomini, è vero anche, dice Locke, che «ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi» (T II, 27). Dalla proprietà che ognuno ha della propria persona e del proprio lavoro, Locke deduce la proprietà privata dei beni, nel senso che a tutte quelle cose che l’uomo trae dalla condizione in cui la natura le ha prodotte, egli congiunge il proprio lavoro, cioè unisce qualcosa che è suo, che appartiene solamente a lui, e che non è di altri. «Poiché – dice infatti Locke – [le cose] son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri» (T II, 27). Il lavoro, insomma, che è proprietà incontestabile del lavoratore, pone una differenza tra i frutti comuni e i frutti dei quali si appropria, «in quanto vi aggiunge qualcosa di più di quel che ha fatto la natura, madre comune di tutti», e così diventano proprietà di chi li ha lavorati (T II, 28).
Nello stesso modo si acquisisce la proprietà della terra: «Quanta terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi, usandone il prodotto, tanta è proprietà sua. Egli, col suo lavoro, la recinge, per così dire, sostituendosi alla proprietà comune» (T II, 32). Lavorando la terra, coltivandola a beneficio della propria vita, un uomo stende «su di essa qualcosa ch’era suo proprio, cioè a dire il suo lavoro», e dunque «vi aggiunge con ciò qualcosa ch’era sua proprietà, che un altro non può fare oggetto d’un suo diritto, né potrebbe togliergli senza ingiustizia» (T II, 32).
Il lavoro: ecco – per la prima volta nella storia del pensiero sociale e della filosofia politica – la clavis aurea della deduzione della proprietà privata. Si tratta di una concezione nuova e assai originale, che nella proprietà privata vede non più qualcosa di statico, bensì qualcosa di dinamico, non più qualcosa di dato da sempre, oppure di stabilito dagli uomini per comune accordo, bensì qualcosa che è frutto dello sforzo e dell’attività economica dell’uomo. È una concezione che ben si addice ai nuovi ceti borghesi, terrieri e mercantili, che erano in rapida ascesa nella società inglese del XVII secolo4.
In un primo tempo Locke pone dei limiti all’acquisizione di proprietà privata, superando i quali si commette ingiustizia verso gli altri. Si tratta di limiti morali, che l’individuo deve autoimporsi, e tuttavia (grazie alla legge naturale, che regola lo stato di natura) essi sono limiti perentori. Il primo limite consiste nel fatto che debbono essere lasciate a disposizione degli altri «cose sufficienti e altrettanto buone» (T II, 27). Il secondo limite viene fissato da Locke nel seguente modo: «Di quanto si può prima che vada perduto [before it spoils] far uso a vantaggio della propria vita, di tanto si può col proprio lavoro istituire la proprietà: tutto ciò che oltrepassa questo limite, eccede la parte di ciascuno e spetta ad altri. Nulla fu creato da Dio per l’uomo onde vada perduto o distrutto» (T II, 31)5.
A veder bene, i due limiti fissati da Locke alla proprietà privata, nella sostanza si identificano: entrambi si basano, in definitiva, sul fatto che «gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla loro conservazione, e per conseguenza a mangiare e a bere, e alle altre cose che la natura offre per il loro sostentamento» (T II, 25). Il presupposto ideale di tutto il discorso è, naturalmente, di ispirazione cristiana: poiché partecipiamo tutti d’una sola comune natura (in quanto siamo tutti creature di Dio), ognuno può appropriarsi solo quel tanto di cui può effettivamente far uso, senza guastare o mandare in rovina altre cose, che possono servire alla conservazione degli altri (T II, 6).
Senonché, una volta fissati questi limiti al diritto di proprietà, Locke poco dopo li trascende, rendendoli inoperanti6. E infatti, dopo aver detto che «la misura della proprietà è stata dalla natura ben stabilita in base all’entità del lavoro dell’uomo e dei comodi della vita», e che d’altro canto «non c’è lavoro che possa sottomettere o appropriarsi tutto, né fruizione che possa consumare più che una piccola parte, così ch’è impossibile che un uomo per questa via invada il diritto d’un altro» (T II, 369), Locke, con un rapido passaggio, prospetta una situazione interamente nuova rispetto a quella delineata finora: vi sarebbe terra sufficiente nel mondo, egli precisa, da bastare al doppio d’abitanti, «se l’invenzione della moneta e il tacito accordo degli uomini a porvi valore, non avessero introdotto per consenso più ampi possessi, e il diritto ad averli»(T II, 36).
È, questa, un’affermazione di grande importanza: l’invenzione e l’uso della moneta giustificano, cioè rendono non solo possibili ma anche legittimi, possessi più ampi, cioè possessi che vanno al di là di quei giusti limiti in base ai quali ognuno doveva appropriarsi soltanto di quello che poteva consumare, e doveva lasciare «per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone».
Questo importante passaggio è reso possibile dal fatto che oro e argento «possono essere accumulati senza far torto a nessuno, poiché questi metalli non vanno perduti né si deteriorano nelle mani del possessore» (T II, 50). In altre parole, poiché i metalli nobili non sono deperibili, essi possono essere tesaurizzati senza alcun limite, in quanto, così facendo, nulla si guasta o va perduto, e quindi non si danneggia nessuno. Gli uomini possono così possedere terra e beni molto al di là delle loro personali necessità, «dal momento che – dice Locke – l’eccedere i limiti della giusta proprietà non sta nell’estensione del possesso, ma nel fatto che qualcosa vada in rovina inutilizzato nel possesso di alcuno» (T II, 46). In questo modo gli uomini «hanno consentito a un possesso della terra sproporzionato e ineguale» (T II, 50), senza violare la legge naturale.
Giunti a questo punto nella ricostruzione del pensiero filosofico-sociale lockiano, sembra pienamente confermato il giudizio dal quale siamo partiti: Locke è un ideologo e un teorico della proprietà privata, e non solo della proprietà privata in generale, bensì della proprietà privata borghese, dell’accumulazione illimitata di ricchezza. Per il filosofo inglese, il potere politico deve tutelare questa proprietà, ed essa soltanto.
Ora, a ciò si potrebbe anche obiettare che, dopotutto, Locke si è limitato a proiettare nello stato di natura un processo storico (economico-sociale) effettivo: il sorgere dell’economia borghese moderna, che non tollera limitazioni né vincoli di sorta. Ma questa sarebbe una spiegazione debole. E infatti Locke, per giustificare la proprietà illimitata, non ricorre soltanto allo “stratagemma” della moneta, ma adduce anche più solidi argomenti incentrati sullo sviluppo economico (e questa è una nota assai moderna del suo pensiero sociale). Egli delinea chiaramente l’idea che un’economia fondata sulla proprietà privata e sull’accumulazione illimitata di ricchezza permette uno sviluppo economico infinitamente superiore a quello di qualsiasi società preborghese. «Chi si appropria terra col suo lavoro – dice infatti Locke – non diminuisce, ma aumenta le scorte comuni dell’umanità, perché le provvigioni che servono per la sussistenza della vita umana, prodotte da un solo jugero di terreno cintato e coltivato, sono – per dirla con un rapporto assai moderato – dieci volte maggiori di quelle che sono prodotte da uno jugero di terra di eguale fertilità lasciata deserta in comune». Anzi – egli precisa – il rapporto non è di dieci a uno, bensì piuttosto di cento a uno (T II, 37). E poco dopo egli osserva che «il re di un ampio e fertile territorio in America mangia, alloggia e veste peggio che un operaio giornaliero in Inghilterra» (T II, 41)7.
Dunque, Locke ha proiettato nello stato di natura, regolato dalla legge naturale (la quale è per il filosofo inglese, non si dimentichi, essenzialmente «legge di ragione»8), dei processi storici precisi, e li ha “legittimati” in ogni senso. Non stupisce quindi che il passaggio dallo stato naturale alla società civile miri fondamentalmente a garantire e a tutelare la proprietà privata. Come, del resto, Locke afferma a chiare lettere: «Il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono a un governo – egli dice – è la conservazione della loro proprietà» (T II, 124).
Alla luce di ciò, negare il carattere “borghese”9 della teoria lockiana della proprietà, è certamente impossibile. E oltretutto sarebbe far torto al ...

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