1. Il PSI negli anni Settanta
1. LA CONFERENZA DI ORGANIZZAZIONE DEL 1975
Quella che si apre negli anni Settanta è una stagione cruciale nella storia del socialismo italiano. Dopo il fallimento dell’esperienza della riunificazione con i socialdemocratici, il risultato elettorale del 1972, con il PSI per la prima volta sotto la soglia del 10%, gela sul nascere la linea dei «nuovi e più avanzati equilibri democratici»; una formula che, nelle intenzioni di Francesco De Martino, avrebbe dovuto consentire al Partito socialista di assumere il ruolo chiave di forza politica impegnata dal governo a fare da ponte all’opposizione comunista1. Aspirazione che si rivela velleitaria in un contesto nel quale comunisti e democristiani stanno già muovendo, sia pure in forma assai prudente, i primi passi in direzione di un dialogo diretto che prescinde dalla mediazione socialista; il PSI si ritrova in una sorta di limbo, e il suo ambito di manovra si riduce progressivamente a una dinamica «di fatto subalterna alle esigenze della DC da un lato, e del PCI dall’altro»2.
Sempre più decisi a marcare le distanze dalla Democrazia cristiana, i socialisti continuano però a gravitare nell’area governativa, nel timore di rompere un rapporto senza sapere poi da dove ricominciare per tessere il filo di una nuova strategia politica.
A smuovere le acque a via del Corso è il referendum sul divorzio, del maggio 1974, con la netta vittoria del fronte del «no» all’abrogazione della legge «Baslini-Fortuna»: «la possibilità anche solo teorica del cambiamento di schieramenti governativi dà fiato alla strategia dell’alternativa»3, che trova all’interno del PSI nuovi sostenitori, sempre più timorosi che l’abbraccio del compromesso storico «possa rivelarsi troppo soffocante per il più debole Partito socialista»4.
Se per il leader della sinistra interna Riccardo Lombardi, l’alternativa è «una prospettiva non più storica ma politica» − anche se «di raggiungimento non immediato»5 −, a spegnere i facili entusiasmi ci pensa il segretario del partito De Martino, secondo il quale «non si può ritenere che il 12 maggio abbia aperto la via ad una alternativa da sinistra alla DC»6. E tuttavia, proprio sull’onda della vittoria al referendum, lo stesso Segretario socialista ritiene giunto il momento di smarcarsi dal centro-sinistra; di conseguenza, dopo la caduta del IV governo Rumor, nel novembre 1974 la Direzione del PSI decide di concedere solo l’appoggio esterno a un bicolore DC-PRI presieduto da Moro, ponendo in tal modo fine a un’intera stagione politica: d’ora innanzi, il Partito socialista accetterà soltanto soluzioni che consentano «un rapporto preferenziale con la DC», finalizzato «al coinvolgimento nell’azione di governo dei sindacati e del PCI»7.
In attesa di un’evoluzione simile, occorre però definire il ruolo e interrogarsi sull’identità stessa del PSI, avviare un percorso di rinnovamento interno, tanto più necessario per adeguare la struttura del partito alle istanze di cambiamento espresse dalla società civile, e per assicurargli una funzione di guida politica nel processo di modifica dei tradizionali equilibri del sistema.
Dal momento in cui è entrato nella «stanza dei bottoni», il Partito socialista ha registrato una progressiva erosione in termini di consenso elettorale: nel 1963 ottiene il 13,8%; nelle elezioni del 1968, assieme al PSDI, uno sconfortante 14,5% − tanto più grave se si considera che il risultato è ben al disotto della somma matematica di voti riscossi, separatamente, da socialisti e socialdemocratici cinque anni prima −, fino a scendere, alle politiche del 7 maggio 1972, al 9,6%, la più bassa percentuale registrata dal 1946; un’erosione provocata «dal forte abbandono degli elettori d’appartenenza, bilanciata tuttavia dall’acquisizione di un elettorato mobile»8.
In soli tre anni, tra il 1969 e il 1972, a via del Corso si registrano altrettanti cambi di segreteria, con l’alternanza tra Francesco De Martino e Giacomo Mancini, «entrambi incapaci di ridare slancio autonomo alla politica socialista» e di rivitalizzare un partito «diviso al suo interno, burocratizzato, immobile, invecchiato»9, del tutto inadatto a misurarsi con gli sviluppi e le trasformazioni in atto nel tessuto sociale sempre più eterogeneo e stratificato10.
Le ragioni della debolezza strutturale del PSI, argomenta Antonio Landolfi, sono da rintracciare proprio nel non risolto rapporto tra partito e società civile:
Il PSI necessita, dunque, di un maturo grado di riflessione sul suo modo di essere e sugli strumenti adeguati, «senza i quali qualsiasi linea politica rimane nel migliore dei casi “fatto” di opinione ma non si traduce in azione»12: sulla base di tale consapevolezza, dal 6 al 9 febbraio 1975 si tiene a Firenze un’importante Conferenza nazionale di organizzazione.
Nella lunga relazione introduttiva, il responsabile organizzativo di via del Corso, Rino Formica, offre un’analisi impietosa dei difetti della struttura socialista. Il suo bilancio è amaro: l’articolazione in correnti − un tempo elemento costitutivo della libera dialettica interna − è degenerata in lotta tra fazioni cristallizzate e contrapposte, con il risultato di far prevalere il momento del potere su quello dell’elaborazione politica; l’attenzione crescente è rivolta alle dinamiche «interne» (elezioni, congressi, nomine, spostamenti di gruppi) a tutto svantaggio di quei fattori «esterni» in grado di fornire spazio politico e di intervento organizzativo per il partito; la sezione, che dovrebbe rappresentare il canale di penetrazione del partito nel sociale, è andata sempre più assumendo «i caratteri di una struttura di ridotta efficienza e in parte staccata dal contesto sociale».
Mentre avanza alcune proposte per rinnovare il PSI (la rotazione degli incarichi, il ridimensionamento delle federazioni provinciali, il potenziamento degli organismi regionali), Formica pone l’accento sull’insufficiente partecipazione della base, sul deterioramento dell’immagine esterna del partito rispetto all’organizzazione sociale, denunciando altresì «la pratica clientelare e burocratica del tesseramento», cui si accompagna un attenuarsi della tensione politica dei militanti. Le sue osservazioni critiche non risparmiano «la sottovalutazione del valore politico dell’impegno intellettuale e culturale» che ha condotto a una «separazione netta», nel partito, tra politici e intellettuali: i primi sono «i gestori del potere», mentre il ruolo dei secondi si limita a essere quello di «consulenti nel partito o nel governo, o di mandatari nel sotto-governo»13.
È necessaria una drastica inversione di rotta, chiosa il responsabile organizzativo di via del Corso, per definire una proposta organizzativa e politica convincente:
Il dibattito successivo alla relazione di Formica appare sintomatico dell’inquietudine che si respira tra i partecipanti alla Conferenza di Firenze. In quasi tutti gli interventi si ravvisa la necessità di «raccogliere la spinta unitaria e di partecipazione che viene dalla base, facendo funzionare meglio e con più frequenza gli organi dirigenti centrali»15; si guarda con preoccupazione alla degenerazione correntizia e all’esasperata contrapposizione interna che rende immobile il partito.
Per Giuseppe Tamburrano, sono ormai maturi i presupposti per il rinnovamento del PSI «perché maturano le condizioni per una nuova strategia socialista»: la crisi dell’egemonia politica ed elettorale della Democrazia cristiana, e la crescita nel Paese di una nuova cultura laica e libertaria, allargano infatti lo spazio naturale che può occupare una forza come quella socialista, posto che essa ponga fine «all’integrazione nell’attuale sistema di potere» e diventi «il fattore coagulante di un’alternativa democratica e di sinistra». In un contesto simile, il rinnovamento del partito «da esigenza moralistica o illusione tecnica» diviene «un obiettivo possibile, anzi necessario»16.
A...