La mafia dei pascoli
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La grande truffa all'Europa e l'attentato al Presidente del Parco dei Nebrodi

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La mafia dei pascoli

La grande truffa all'Europa e l'attentato al Presidente del Parco dei Nebrodi

About this book

Prefazione di Gian Antonio StellaMilioni di euro guadagnati per anni in silenzio da Cosa nostra. Un business "legale" e inesplorato. Boss che riuscivano inspiegabilmente ad affittare tanti ettari di terreno nel Parco dei Nebrodi, in Sicilia, terrorizzando allevatori e agricoltori onesti, li lasciavano incolti e incassavano i contributi dell'Unione Europea perfino attraverso "regolari" bonifici bancari. Un meccanismo perverso che si perpetuava di famiglia in famiglia e faceva guadagnare somme impensabili. Un affare che si aggirerebbe, solo in Sicilia, in circa tre miliardi di euro potenziali negli ultimi 10 anni. E nessuno vedeva o denunciava. Fino a quando in quei boschi meravigliosi e unici al mondo non è arrivato Giuseppe Antoci, che è riuscito a spazzare via la mafia dal Parco realizzando un protocollo di legalità che poi è diventato legge dello Stato ed oggi è applicato in tutta Italia. Cosa nostra aveva decretato la sua morte. La notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 Antoci è stato vittima di un attentato, dal quale è uscito illeso solo grazie all'auto blindata e all'intervento armato del vice questore Daniele Manganaro e degli uomini della sua scorta. In questo libro Antoci racconta a Nuccio Anselmo la sua esperienza, e il coraggio di tanti altri servitori dello Stato che gli hanno consentito di andare avanti nella sua battaglia. E per comprendere meglio il contesto Anselmo ha scritto anche della catena di omicidi ancora irrisolti avvenuti in quelle terre, di Cosa nostra barcellonese e dei Nebrodi, del primo grande processo contro il racket dei clan tortoriciani e delle dinamiche mafiose del territorio.

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Information

Dialogo con Giuseppe Antoci

Presidente, che cos’è il Parco dei Nebrodi?
È la più grande Area protetta della Sicilia. Abbraccia tre province tra Messina, Catania ed Enna, ed è una zona geografica molto ampia che si estende per 86 mila ettari e di cui fanno parte ventiquattro comuni. Altri ventitré hanno richiesto di poter entrare a far parte della comunità del Parco con apposite delibere dei vari Consigli comunali, e ciò rappresenta un dato in controtendenza nazionale. Questo è uno dei Parchi con maggiore biodiversità in assoluto. All’interno ci sono boschi, laghi, rocce dolomitiche, geositi, aquile reali e una colonia di grifoni tra le più importanti d’Europa, insomma, un patrimonio naturalistico veramente unico. Questo è un ambiente veramente speciale e per raccontarlo è sufficiente dire che da alcune zone si possono notare alle spalle l’Etna, di fronte i boschi, i laghi, il mare e le isole Eolie. Ritengo sia uno dei posti più belli che la natura abbia potuto creare. All’interno del Parco dei Nebrodi esistono anche tante attività che conservano e custodiscono il vissuto storico delle comunità, ma ne rappresentano anche il futuro, dato che attraverso per esempio l’enogastronomia di eccellenza o attraverso un numero crescente di presenze turistiche, che sono incrementate mediamente del 30-40% l’anno, ci sono tante occasioni di sviluppo per il territorio.
Il suo insediamento avviene a ottobre 2013, la prima impressione che si porta dietro…
È frutto di una considerazione che facevo spesso passando davanti alla sede del Parco. All’ingresso, un grande portone in legno con una piccola porticina aperta. Questo Ente si presentava così, chiuso con la porticina aperta. Quando vi entrai per la prima volta e i dipendenti della portineria mi salutarono, la prima cosa che dissi fu: “Aprite queste porte!!” È il primo segnale che ho voluto dare. Trovai un Ente per certi versi mortificato dalla politica, un Ente dove non si muoveva una foglia o un dipendente, perché ci si aspettava la telefonata del deputato di turno. Trovai un Ente che nella considerazione della gente veniva visto come un “carrozzone”, sminuito nella considerazione che ne avevano gli stessi dipendenti. Non inutile perché aveva fatto male nei primi anni, ma perché i dipendenti stessi si sentivano estrapolati dal territorio, non considerati e, per certi versi, anche denigrati. Pensai che la prima cosa da fare fosse quella di far ripartire l’Ente, mettendolo a posto, sia sotto il profilo dei conti sia sotto il profilo della considerazione che esso avrebbe dovuto assumere all’esterno. Mi è piaciuto dire subito che bisognava creare una “casa di vetro” e soprattutto ho iniziato ad ascoltare la gente.
Tutto ciò iniziò ad avere un impatto forte e crebbe il coinvolgimento sia degli amministratori sia delle persone che venivano a presentare idee e che poi le vedevano andare avanti. L’ascolto è stato fondamentale. Abbiamo iniziato a migliorare attività come per esempio quelle dedicate alla colonia di grifoni, abbiamo messo subito dei paletti, annullando per esempio la possibilità di fare le gare a trattativa privata per come prevede la legge, facendo passare il messaggio che da noi, anche per acquistare uno scaldabagno, bisognava fare la gara. Abbiamo normato gli incarichi legali, applicando un nuovo regolamento con un apposito albo per le rotazioni degli incarichi stessi. Abbiamo messo in vendita delle auto inutili di rappresentanza. Insomma, abbiamo voluto dare dei segnali che sono stati colti sia all’interno sia all’esterno. Questo ha fatto percepire all’opinione pubblica che c’era la possibilità di fidarsi, che si poteva ripartire attraverso un coinvolgimento di tutti, riconoscendo all’Ente Parco un ruolo centrale di motore di sviluppo e di tutela dell’ambiente.
Come è cominciata questa storia? Quando si è accorto che qualcosa non andava al Parco dei Nebrodi?
Questa storia iniziò un paio di mesi dopo il mio insediamento, perché conobbi uno dei sindaci dei Comuni appartenenti al Parco, il sindaco di Troina, Fabio Venezia. Venne a trovarmi accompagnato dall’allora Dirigente del Commissariato di Nicosia, Daniele Manganaro, che era stato trasferito a Sant’Agata di Militello, quindi con competenza non più su Troina e Cerami, che comunque erano già Comuni del Parco, ma a quel punto con competenza sulla maggior parte dei Comuni attuali del Parco dei Nebrodi. Tra le altre cose, mi parlarono delle problematiche che gli agricoltori di quel territorio subivano attraverso un metodo di minacce e ritorsioni, legate ai bandi sugli affitti dei terreni pubblici. Mi spiegarono un po’ qual era il metodo che utilizzavano, insomma fu una discussione anche abbastanza sofferta perché trovai negli occhi del Sindaco una certa preoccupazione e solitudine su questo argomento, anche perché lui era stato eletto da poco e aveva cercato di capire come poteva essere risolto il problema. Nei giorni successivi, pensai molto al nostro incontro, iniziai ad approfondire, e mi misi, come spesso dico, a studiare.
E poi che successe?
Dopo qualche giorno, richiamai Fabio Venezia e il Vice Questore Daniele Manganaro dicendo loro che quell’argomento mi aveva molto colpito e che mi volevo impegnare per dare il mio contributo. I terreni in questione infatti, pur non essendo di proprietà dell’Ente Parco, si trovavano comunque all’interno dell’Area protetta, per cui iniziai ad approfondire il problema cercando di capire come interrompere questo andazzo.
Quando comprese che era un pentolone mai scoperchiato?
Quando mi resi conto dei rendimenti che questo affare riservava, quando mi spiegarono e cominciai a capire quali erano le famiglie che detenevano questo business, ma soprattutto quando mi resi conto che questo non poteva essere solamente un metodo utilizzato sui Nebrodi, visti i rendimenti che esso forniva, e ho ipotizzato potesse trattarsi di un affare che riguardava tutta la Regione. Avevo ragione!
Come pensò di intervenire?
Cercai di capire intanto come interrompere questo sistema. Il metodo era sempre lo stesso: le Amministrazioni locali, gli Enti regionali, e i vari Enti pubblici erano proprietari dei terreni che venivano messi a bando per l’affitto. I sindaci, gli amministratori, spesso venivano anche un po’, come dire, spinti a fare i bandi, anche se non volevano farli. Il metodo adoperato dai mafiosi era quello di partecipare ai bandi o con una società esistente o creandone una nuova, mettendovi all’interno quattro-cinque soci con nomi di calibro mafioso importante.
Il primo effetto ottenuto dai mafiosi quale era?
Che gli allevatori onesti, coloro che volevano affittare i terreni per poi comunque fare o coltivazioni o allevamento biologico, non partecipavano ai bandi perché avevano paura. Quindi, cosa accadeva in concreto? Il bando veniva partecipato solo da un’azienda, con incrementi a base d’asta praticamente ridicoli, di un euro addirittura, e a quel punto la gara veniva aggiudicata.
Con quali cifre?
Facendo l’esempio di mille ettari, ce ne sono migliaia in Sicilia, venivano pagati dagli affittuari 36,40 euro a ettaro compresa l’Iva, e su quello stesso ettaro, facendo più misure sui fondi europei, cioè chiedendo più volte i contributi per lo stesso terreno, si riuscivano a ottenere anche mille-mille e trecento euro a ettaro. Insomma, per fare dei conti, su mille ettari di terreno, un contratto d’affitto veniva pagato 36.400 euro l’anno e si riuscivano a incassare su quei mille ettari anche 700-800 mila euro l’anno o addirittura un milione-un milione e trecentomila euro, a seconda della tipologia di truffa che riuscivano a mettere in atto. Appare chiaro che contratti che avevano durate medie da 6 a 9 anni, per i suddetti mille ettari, potevano valere per il contraente anche sette-otto milioni di euro.
C’erano altri metodi?
Sì, per esempio quello della falsificazione degli atti legati ai contratti di affitto, che spesso avevano come controparte o persone ignare o addirittura decedute da anni. Senza considerare le persone che venivano minacciate e intimidite per costringerle a stipulare contratti di affitto pluriennali a favore di elementi, anche di spicco, della criminalità organizzata e mafiosa.
Ma sui terreni in concreto i mafiosi cosa facevano?
Nulla. Non ci andavano neanche, non vi portavano gli animali, non praticavano alcuna coltivazione biologica e non creavano nessun posto di lavoro. Era solo un business. All’interno di questo business, che non aveva componenti di rischio, ovviamente si infilarono le famiglie mafiose non solo dei Nebrodi ma, come sembra, di tutta la Sicilia. La domanda che spesso mi viene posta è: «Ma com’è possibile che una persona che ha problematiche di mafia possa partecipare a un bando e vincerlo, e soprattutto come può ottenere fondi pubblici?» E lì si innesca quella che io definisco la zona grigia, attraverso l’utilizzo della normativa sugli appalti.
Perché?
La norma sugli appalti prevede il certificato antimafia (quello rilasciato dalle Prefetture con apposita istruttoria delle Forze dell’Ordine) per importi a base d’asta superiori a 150 mila euro, mentre sotto tale soglia basta l’autocertificazione. Con i numeri che abbiamo citato prima, quindi, con soli mille ettari, si pagavano appena 36.400 euro l’anno di affitto e quindi, per arrivare a 150 mila euro, ovviamente gli ettari dovevano essere almeno più di 4 mila. Se vogliamo anche analizzare cosa significherebbe un cosiddetto “sotto soglia” (dunque 4 mila ettari), proprio ai limiti dei 150 mila euro, parliamo di importi di un contratto che può valere anche 20-30 milioni di euro se lo consideriamo nel lungo periodo, cioè negli 8-9 anni. Per assicurarsi questi ettari di terreno, bastava dunque mantenere i contratti sotto i 4 mila ettari, per poter così produrre, al posto del certificato antimafia, una semplice autocertificazione. E in questo caso loro autocertificavano di essere in regola con la normativa antimafia. Stiamo parlando di nomi che in Sicilia significano per esempio i Riina, o le famiglie legate ai Batanesi, quelle dei tortoriciani, cioè stiamo parlando di nomi che, e le interdittive antimafia lo hanno messo in evidenza successivamente, rappresentano tutte le più importanti famiglie mafiose siciliane.
Insomma, le famiglie mafiose della Sicilia si erano prese questa torta, se l’erano divisa, e paradossalmente avevano trovato la pace tra i clan perché c’era così tanto flusso di denaro che bastava per tutti.
Quindi si è accorto studiando queste carte che la mafia, cui tutti guardavano come un soggetto molto diverso rispetto a quella rurale degli inizi, nella sostanza era tornata o aveva continuato indisturbata a essere anche una mafia dei terreni, mentre la guardavamo come una mafia votata esclusivamente all’economia e al traffico di droga?
Assolutamente sì, ma c’è di più. Capii che il metodo doveva essere interrotto proprio sull’aspetto della “soglia” dei 150 mila euro, perché era lì che si giocava la partita, per connivenze e per paure. Insomma, bisognava assolutamente interrompere questo “rito” dell’autocertificazione, per cui decisi di parlare con il prefetto di Messina, Stefano Trotta, e insieme pensammo di creare un “Protocollo di Legalità” per abbassare questa “soglia a zero”, con due effetti che poi abbiamo in realtà ottenuto: il primo, bloccare queste attività fraudolente frutto dei bandi, rendendo quindi assolutamente necessaria, da quel momento in poi, per chi partecipava alle gare, la presentazione di un “vero” certificato antimafia; il secondo, capire chi deteneva in affitto questi terreni con questo metodo ormai oleato che durava da anni.
E come impostò questo nuovo percorso di legalità?
Inserimmo dentro il Protocollo tutti i Comuni ricadenti nella provincia di Messina, ma io chiesi al Prefetto Trotta di inserirvi anche il Comune di Troina, nonostante fosse in provincia di Enna, utilizzando il fatto che i terreni ricadevano comunque all’interno del Parco. E questo avvenne. Ciò servì anche a deresponsabilizzare un po’ il Sindaco di Troina. Ma accadde un altro fatto importante. Quando cominciammo a capire che quello del Protocollo era un metodo che poteva funzionare, programmai un bando al Parco dei Nebrodi, per un fondo di 400 ettari (gli unici di proprietà dell’Ente). E lo feci appositamente per capire cosa sarebbe successo se lo avessi fatto scadere qualche giorno prima della firma del Protocollo.
Quindi possiamo dire che fu un bando “civetta”?
Assolutamente sì. Di questo bando civetta parlai al Sostituto Procuratore della Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, dott. Condorelli, che è poi colui, insieme al Questore Cucchiara, che diede l’input e capì che il rischio era tale da rendere necessaria nei miei confronti una tutela da parte delle Forze dell’Ordine, contribuendo di fatto a salvarmi la vita.
Temporalmente quando accadde tutto questo?
Stiamo parlando del dicembre 2014. Le interlocuzioni con Venezia e Manganaro erano già iniziate tra febbraio e marzo del 2014, mentre io mi ero insediato nel 2013. Poi queste interlocuzioni continuarono anche con altre persone che hanno avuto un ruolo importante. Intanto, era arrivato a Messina il Questore Giuseppe Cucchiara, investigatore che conosceva bene cosa nostra per avere lavorato, fra le altre cose, anche alla vicenda dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Anche lui fu dell’idea che andasse approfondito l’argomento. A quel punto, decisi di pubblicare quel bando e, come da copione, crearono una società nuova, mettendo dentro quattro nomi, vinsero la gara, perché non partecipò nessuno, ma io la feci aggiudicare in maniera provvisoria. Firmato il Protocollo, scrissi al Prefetto pregandolo di controllare i quattro nomi “ai sensi e per gli effetti” del Protocollo stesso. Ebbene, interdittive antimafia per tutti.
E a quel punto cosa fece?
Revocai subito il bando e denunciai tutti in Procura per false attestazioni. Questa vicenda ha rappresentato un elemento cardine in quanto ha acclarato la forza dirompente del Protocollo. Intanto il Prefetto Trotta iniziava anche a rendere pubblico il Protocollo prima della firma, e così arrivarono le prime minacce. Il 15 dicembre del 2014 venne, infatti, recapitata al Parco dei Nebrodi una lettera in cui c’era scritto «Finirai scannato tu e Crocetta». L’associazione a Crocetta era probabilmente dovuta al fatto che avevo già chiesto al Presidente della Regione siciliana Rosario Crocetta (cosa che poi in effetti fece con grande coraggio) di allargare già da subito il Protocollo, all’atto della firma che avvenne il 17 di marzo del 2015, a tutti gli Enti regionali. Tant’è vero che venne lui personalmente, firmò il Protocollo e lo fece firmare a due assessori della sua giunta regionale, quello al Territorio e Ambiente e quello all’Agricoltura.
Tutti iniziarono così a capire che stavamo facendo sul serio. E noi prendemmo sempre maggiore consapevolezza che quello degli affitti dei terreni era un affare che mediamente poteva dare alla mafia anche utili del duemila per cento (come neanche il mercato della droga) e cominciammo pure a capire che si trattava di un business regionale. Quei fondi servivano probabilmente per finanziare le famiglie dei carcerati, per gestire il mercato della droga, per le attività immobiliari dei clan e delle famiglie mafiose siciliane, insomma capimmo che il tema riguardava non più soltanto i Nebrodi, ma quel grande portafoglio di 5 miliardi di euro che è stato la programmazione UE 2007-2013. E a poco a poco questa consapevolezza crebbe. Fui chiamato dal dott. Condorelli della Distrettuale Antimafia di Caltanissetta e con lui ebbi modo di parlare a lungo della vicenda. Il magistrato a un certo punto mi disse che ero esposto a seri rischi d’incolumità e intervenne, insieme al Questore di Messina Giuseppe Cucchiara, sul comitato dell’Ordine e della Sicurezza Pubblica, per attivare il servizio di scorta nei miei confronti.
Quindi quello che tutti i comuni siciliani non riuscivano a intercettare, stiamo parlando di contributi UE, perdendo ogni anno cifre impressionanti, era intercettato perfettamente dalla mafia siciliana…
Infatti. Loro avevano creato un metodo di terrore ormai ben consolidato. Ricordo quel servizio di Rai News che ha poi vinto il Premio Morrione – Sezione Ilaria Alpi per il giornalismo investigativo – in cui i giornalisti Diego Gandolfo e Alessandro Di Nunzio, intervistando un vecchietto, di cui non si vedeva il volto, ma di cui si vedeva la mano rugosa che teneva un bastone, domandarono: «Ma perché voi non partecipate ai bandi?» E lui rispose: «Ma signor mio, siamo nella pace e dobbiamo metterci nella guerra?» Ecco, quello era l’effetto del metodo mafioso utilizzato, l’intimidazione attraverso la presenza di alcuni nomi nelle società che, partecipando ai bandi, lanciavano di fatto un chiaro messaggio: “nessuno deve partecipare!” Diverse volte mi sono chiesto quale bisogno avesse la mafia di commissionare rapine o richieste di pizzo alle aziende visto che era molto più semplice finanziarsi con i fondi europei, piuttosto che rischiare di farsi arrestare durante una rapina o farsi denunciare da un imprenditore. Per avere 100 mila euro dal pizzo si deve dare fastidio a 3 o 4 imprenditori, col rischio di essere denunciati. Invece così a cosa nostra arrivavano i fondi con i bonifici bancari e soprattutto si tratta di fondi pubblici. Incredibile!
Ma quelli che guadagnava la mafia con questo sistema erano soldi “puliti”, in pratica?
Sì, c’è un tema sottotraccia che gira attorno a questa vicenda, che è rappresentato dalla normativa sull’antiriciclaggio. Perché? Faccio un esempio. Se un mafioso va a comprare un immobile in centro di Roma che costa 4 milioni di euro, stipula il contratto d’acquisto, va alla sua banca ed esegue un bonifico per il pagamento dell’acquisto della casa, a quel punto la banca gli chiede: «Da dove sono arrivati i soldi?», e lui può tranquillamente rispondere che sono soldi pubblici, perché in effetti ha ricevuto sul suo conto corrente un bonifico bancario dall’Ente pubblico. Quindi, quando nel corso di un’inchiesta, si chiede al mafioso dove siano andati a finire i soldi, lui può tranquillamente rispondere che ha comprato una casa e tirare fuori il contratto. Qui si innesca dunque un discorso legato anche alla capacità di “pulire” questi soldi, che in realtà arrivano già puliti, ma la mafia riesce poi a utilizzarli in maniera non controllabile. Così forse risulta ancora più chiaro come la mafia avesse trovato un affare con rendimenti elevatissimi, con un rischio pari a zero e con una serenità che durava da anni, e dove nessuno aveva messo mai le mani. Voglio inoltre ricordare che solo sui Nebrodi, quindi non parlo dell’intera Sicilia, ma soltanto sui Nebrodi, negli ultimi dieci anni si sono verificati circa quattordici omicidi ancora irrisolti. Un sindaco, a Cesarò, è stato addirittura assassinato a colpi di fucilate in faccia. Ora, io non so dirle quali siano state le motivazioni, ma spero che su questo caso si rifletta. Qualcuno dice che aveva messo mano alla vicenda dei terreni.
Torniamo a quei quattro soggetti che presentarono l’unica offerta per i soli 400 ettari che possiede il Parco dei Nebrodi. Cosa successe dopo le interdittive antimafia?
Tra i mafiosi cominci...

Table of contents

  1. La mafia dei pascoli
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione di Gian Antonio Stella
  5. Introduzione
  6. La “mattanza silenziosa”
  7. L’agguato ad Antoci
  8. Il protocollo di legalità
  9. L’allarme del procuratore Guido Lo Forte e la “terza mafia”
  10. Dialogo con Giuseppe Antoci
  11. La sottovalutazione del fenomeno mafioso a Messina e in provincia
  12. La Storia di Cosa nostra barcellonese