Prima parte
Il professor Leopardi
Raccontava di green e di golf, il professor Leopardi. Con la mascherina davanti alla bocca e gli occhialini rotondi sulla mascherina, mugugnava di swing e di handicap, infilando il sondino dentro di me, e io, con leggeri movimenti dei fianchi, gli facevo spazio, abbandonata sul lettino come uno straccio bagnato. Le mie viscere mugolavano, rilassandosi, di un cigolio impercettibile. Cercavo gli occhi del Professore e lo imploravo coi miei di stare zitto, le sue chiacchiere mi stordivano, le sue domande mi deconcentravano, ma lui parlava parlava e non smetteva:
«Ha mai giocato a golf, signora?»
«Scusi professore, ha detto golf?»
«Sì, certo, golf...»
«Mai, professore, non mi è mai capitato...»
«Ah, peccato, signora, non sa cosa si è persa...»
«Non ci ho mai neanche pensato... Non sarà una cosa grave?»
«Ma no, bene, va tutto bene... stia tranquilla. Il suo lavoro? Tutto procede?»
«Sì, sì, finché procede il mondo, sa com’è, ci vorrà qualcuno che provi a raccontarlo... e qualcuno che ha voglia di leggere quello che accade fuori dalla sua porta...»
«Ah, sì, certo... no... per dire del golf, in fondo c’è sempre tempo per entrare nel magico mondo... Ci provi e mi ringrazierà».
«Ma no, professore, cosa vuole che impari all’età mia? Con le scuole ho chiuso. Troppo tardi... vivo di rendita, ormai, e quanto a insegnare... ho un curriculum di sbagli, io, che non le sto a dire... E poi, mai giocato, io, nella mia vita...»
«Guardi che non è un gioco, il golf, e non è neanche uno sport. È una filosofia di vita, anzi una pratica di vita. È un qualcosa che ha trentaquattro regole, ma che dico “regole”?, fondamenti esistenziali, sono, e uno prima di tutto. Sa qual è? che la palla si gioca come si trova e dove si trova, capisce cosa voglio dire?, impossibile cambiarla di posizione...»
«Il contrario di quello che fa un chirurgo, vuole dire?»
«Beh, sì, in un certo senso lei ha ragione... ma in fondo anche il chirurgo, per espellere un corpo estraneo deve partire dall’averlo individuato, no? Quello che vuole dire il golf è che bisogna accettare il gioco come una cosa indipendente da noi, capisce?, quali che siano le condizioni date...»
«Capisco, e anch’io, in fondo, col mio mestiere... Posso manipolarla quanto voglio la realtà, persino nasconderla, ma è dalla realtà che devo partire, dalla situazione data... data da chi...»
«Che?»
«Niente, niente, professore...»
«Da quanto tempo non ci vediamo, signora?»
«Da un anno, professore, da un anno».
E penso: lo sa benissimo che vengo qua ogni anno, puntuale da ventun anni, perché me lo domanda?, e vorrei dirgli: zitto, professò, col tuo green, col tuo golf, la tua prosopopea e il tuo bla bla bla. Zitto, fammi sentire, invece, fammi sentire il mio corpo, non lo senti pure tu che ha una voce, dentro, che dice, che parla... se sei tu a parlarci sopra, come puoi sentirla? Provo a dirglielo, timidamente:
«Professore, ascolti con me... sento come un mugolio, dentro, lo sente anche lei?»
«Ma no, signora, non è possibile…»
E penso: professò, ma che ne sa lei che è sordo come una campana, che sennò tutte le sue chiacchiere darebbero fastidio alle sue povere orecchie, e si spegnerebbe da solo... Da bambina, una volta, professò, in campagna... era estate e giocavo, no, non a golf, professò, giravo intorno a me facendo volare una canna, così veloce che mi faceva volare insieme a lei e alla mia gonna a quadri plissettata e mi parve all’improvviso che dentro a quella canna ci fosse qualcosa che faceva rumore, mi fermai, niente, ripresi a ruotare, ecco, ancora quel suono... pensai a un tesoro che qualcuno avesse nascosto lì dentro, una pallina, un anello, e che io, fortunata, tra tante canne tutte uguali avessi trovato quella giusta... e allora la feci a pezzettini minuscoli, e la sventrai tutta e li ascoltavo a uno a uno i moncherini e poi li buttavo a uno a uno, non c’era niente dentro... e ad ascoltarli a uno a uno erano tutti muti, e sa perché?, professò, perché era il vento a sibilare, s’era rifugiato lì dentro, e per scoprirlo, ecco qua, la mia canna ridotta in frantumi, e io con la testa che girava insieme alla gonna, e quale tesoro, figuriamoci... niente di niente, e adesso...
«Qui dentro di me, io sento che il mio corpo ha un suono, come un sibilo sottile sottile, lo sente anche lei, professore?»
«Che dice, signora, lei non può percepire nessun rumore. Quella che sente è come un’eco, ma è lontana lontana, è emanata dal suono del sondino, che si riflette, a seconda dell’ispessimento dei tessuti, e diventa immagine, la vede, eccola qui, su questo schermo».
«Io lo sento, professore, quel rumore, glielo assicuro...»
«Ma no, signora, impossibile, stia tranquilla, si rilassi...»
Non potevo rilassarmi. Sentivo di avere ancora un corpo che aveva vita sua. Si ribellava, adesso, diceva che voleva continuare a sonnecchiare, senza strattoni né ospiti sgraditi. Faceva rumore, per dirlo. I pensieri fanno rumore, e anche i desideri. E i ricordi. Qualche volta gridano, qualche volta si lamentano, qualche volta sospirano. Ciò che conosciamo del mondo è solo quello che sentiamo. Impossibile capire, interpretare, approfondire. Quello che sappiamo di noi stessi è solo quello che sentiamo quando c’è silenzio. Quiet, quiet, please! dicono gli inglesi. Nessuna quiete, neanche nel silenzio. Vai a farli tacere i passi che senti all’improvviso. Ecco, mi volto, è lui, è tornato, è la cosa più naturale del mondo, che lui sia qui, o il cigolio della porta che si apre, ti volti, eccolo!, o la voce che ti chiama, Bianca, Bianca, e invece non c’è nessuno, e quando la notte ti svegli all’improvviso è perché hai sentito il suono metallico delle chiavi nella toppa, e devi decidere se hai paura o se invece sei felice, se fai finta di niente o se t’infili una vestaglia e vai incontro al tuo inaspettato ospite... E adesso, adesso, devi smettere di scrivere e andarla a perlustrare la tua casa popolata di fantasmi e desideri, e così silenziosa, così silenziosa che adesso finisco di bere il mio tè e poi il bicchiere lo butto a terra, così i vetri impazziti mettono a tacere finalmente le voci che ho dentro, e quelle dei ricordi, e i suoni, e i rimpianti, e i richiami e le canzoni.
Il professore continuava a frugarmi dentro col suo sondino:
«Guardi, guardi sullo schermo, vedrà tutto...»
No, professore, la prego, mi risparmi lo spettacolo del mio corpo dentro, ne ho abbastanza di quello che vedo allo specchio, come faccio a spiegarglielo?, non combina con quello che sento di essere davvero, quello che sono, la mia faccia, le mie mani, il colorito della mia pelle... come sono fatta dentro, la prego, no, non m’interessa. Sono pronta a costituirmi, a pagare il mio tributo, ma mi lasci fuori da questa storia. Mi lasci fuori dal mio corpo, dal mio corpo estraneo. Cosa c’è che non va, stavolta? Dicono che la malattia sia solo il sintomo di una cattiva gestione della vita. Mah, presentatemi qualcuno che la sua vita l’ha saputa gestire al meglio. Io lo dico subito che no. Io sono rea confessa. Ho cercato, ho provato, ci ho creduto, ho sbagliato. Ditemi la colpa e ditemi la pena. Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue. Ma io non sono né corpo né sangue, non ho nulla da spartirci, io sono un’altra cosa.
Lui ogni tanto sferrava una domanda, veloce come il lancio della pallina nella buca:
«Ma lei sente dolore quando… sì, quando ha rapporti… quando fa l’amore, insomma?»
«Non so, professore, non so…»
«Non si stupisca della domanda...»
«Non mi stupisco, ma... dolore? ma no, nessun dolore, no».
«Glielo chiedo perché i tessuti alla sua età sono meno lubrificati, più aridi, e allora...»
E intanto mi si affaccendava intorno:
«Perché è un fatto naturale, capisce, i tessuti più asciutti… la pelle più secca, meno irrorata…»
Questo vuol dire dunque invecchiare? Significa asciugarsi, seccarsi, rinsecchirsi, inaridirsi, disidratarsi, insomma “appassire”? Significa che la linfa t’abbandona e lascia il deserto? Significa che non c’è spazio per nessuno dentro di te, mentre lo spazio aumenta, aumenta, aumenta, come la pelle del tuo viso che si dilata, s’affloscia e s’aggrinzisce, e niente più riempie il tuo vuoto e non sapevi d’averne dentro così tanto, che t’inghiotte e ti dà le vertigini?
«No, non ho notato niente, nessun dolore particolare...»
Non dissi al professore che da quando mio marito era andato via di casa, ed erano passati ormai tanti anni (quanti, non sapevo contarli), nessun uomo aveva mai più messo le mani sui miei fianchi, nessun respiro s’era mescolato al mio, il corpo di nessun uomo aveva assorbito l’odore del mio. Nessun rimpianto, sollievo, invece, solo sollievo. Finalmente avevo stabilito con lui, col mio corpo, un patto di onesta convivenza. Di totale, altezzosa e tenace estraneità. Separati, in casa e fuori. Separati e costretti a spartirci spazio e tempo, esigenze e necessità, finché morte non ci separi. La sua morte, quella del corpo, che ucciderà, lentamente o d’un colpo solo la mia anima, che, finalmente, se ne andrà in giro libera e leggera, senza fardelli e senza corpi estranei.
Nostalgia della pelle umana, dice Kawabata per raccontare la solitudine. Nostalgia della pelle di un uomo. Nostalgia. Pelle. Uomo. Non so cosa sia, mi dicevo. Mai provata, mai conosciuta. Intangibile sono e intatta sono ritornata. Le ferite spariscono e diventano cicatrici. Le cicatrici restano, ma qualche volta devi andarle a cercare con le dita, la tua pelle sulla tua pelle, perché il tempo ne cancella la memoria. Il tempo. Era sempre una grande fatica ricordarmi da quanto tempo ero rimasta sola. Quanto tempo è “tanto tempo”?
Marcella
Mio marito se ne andò definitivamente all’alba di un film in bianco e nero e di un otto marzo piovoso e pieno di mimose. In realtà non era l’alba, erano le sette del mattino, la radio suonava il segnale orario e il Roma-Milano transitava silenzioso al di là delle tendine della finestra della cucina pronto ad atterrare a Linate, puntuale come ogni mattina, come ogni giorno all’ora in cui lui usciva di casa per andare al lavoro. Io ero già in piedi, già preso il mio primo caffè, lavata la tazza e preparata di nuovo la piccola moka per il suo – sempre caffè separati, noi due – poi lui, per l’ultima volta, mise dentro la tazza un cucchiaino di zucchero, ci versò dentro il caffè, lo mescolò nervosamente e poggiò il cucchiaino sul tavolo della cucina, e io guardai il caffè sciropposo di zucchero rapprendersi sul marmo e lo guardai con ribrezzo, come ogni mattina, quel cucchiaino appiccicato con cui aveva appuntamento, potevi giurarci, una mosca solitaria che, anche quella mattina, distrattamente avrebbe risposto all’invito, e poi presi la spugna e la strizzai ben bene e la passai sopra il marmo per togliere via ogni traccia di zucchero, abitudine e caffè. Non è cambiato nulla, pensavo, se la goccia di caffè zuccherata, come ogni mattina da vent’anni, sta per rapprendersi, nulla, pensavo, se la mosca è già in agguato, e pensavo anche che se lui avesse ogni mattina lavato la sua tazza e fatto sparire il cucchiaino appiccicaticcio, o almeno poggiato il cucchiaino su un piattino, come fanno tutti i cristiani, le cose tra noi sarebbero andate diversamente, come si dice, e lui avrebbe detto «ciao, io vado», e io «sì, a che ora torni», e lui «al solito», e io «va bene, se torni prima tu accendi il gas, l’acqua per la pasta è già pronta, c’è pure il sale dentro e la pasta è sulla bilancia».
Il rumore della doccia dentro il bagno mescolato a quello del giornale radio, come ogni mattina, e poi quello dello sciacquone, potevi fare il conto alla rovescia, sta per uscire dal bagno, le ciabatte si affrettano per il corridoio, conto fino a trentasette, ecco, trentasette secondi ed eccolo qua, pronto per uscire, cerca le chiavi dentro la tasca, dondolano nervose anche loro, ecco, ci siamo, e lui che «io vado», disse, aprendo la porta di casa per l’ultima volta. «Io vado», mi disse pure quel giorno, e aggiunse pure «buona festa delle donne», la radio aveva appena detto che l’Italia era invasa di mimose, e allora «viva le donne», aveva detto amaro, «io vado», lo stesso verbo usò, «io vado», lo stesso tono usò, severo, lo disse nello stesso punto dell’ingresso, davanti alla litografia di Jean Mirò, come ogni giorno, ma era un altro “andare”, questa volta, conclusivo, da uscita di scena, “vado, missa est”, ecco così, e patapàm la porta che sbatte, si chiude il sipario e l’ascensore se lo inghiotte, quell’otto di marzo, e io lo seguo finché il cigolio diventa un sospiro, e trattengo il respiro, e si ferma, pam, e questa volta è definitivamente. Definitivamente. Ed è così immensa la parola fine, che c’è dentro “definitivamente” e “per sempre”, e non c’è da aggiungere niente, dice Philip Roth, perché la fine è già una poesia.
E io ne cerco un’altra, allora, di parola, imbottita di fine, di finale e di mente, mente?, che è “finalmente”. Ah, finalmente sono da sola, la casa è tutta mia, ed è mio il mio corpo, mio, non devo prestarlo più a nessuno, neanche agli sguardi di qualcuno che circola per casa, mi appartiene e ne faccio quello che voglio, posso dimenticarlo o lasciarlo appeso a uno specchio, o anche strapparlo via dalla mia anima, togliergli un po’ di polvere, piegarlo bene, metterlo nel cellophane e appenderlo nella parte alta dell’armadio, come per gli abiti al cambio di stagione. È una stagione che cambia, certo, una stagione della mia vita. E pazienza se non ho nulla da mettermi addosso al posto suo, perché è una stagione che non so come si chiama, ma so che fa un freddo cane, e il freddo è più acuto se non hai un corpo addosso, l’anima è scoperta, e pure il cuore, spalanco lo stesso la finestra, così l’aria viziata se ne va. Chissà perché si dice “viziata” dell’aria respirata da altri, e quando sei tu sola che l’hai respirata no, che c’entra il vizio, allora, che c’entra?
Preparai un altro caffè, misi in lavatrice le lenzuola del suo letto e gli asciugamani che aveva usato, lavai accuratamente il lavello, il water e il piatto della doccia, presi un panno bianco e li asciugai. Tolsi via qualunque sua traccia, mi lavai ben bene le mani, come se lì dentro fosse stato consumato un omicidio senza sangue e col silenziatore, e io cancellassi le tracce, della vittima e del carnefice – chi era poi la vittima e chi il carnefice? ‒ e spalancai tutte le altre finestre.
Mi preparavo a uscire dopo di lui, come ogni mattina. Tutto regolare, avrebbero detto i vicini se fosse arrivata la solita telecamera col solito idiota e la solita imbecille domanda «vi siete accorti di qualcosa?», «no, niente di niente», «ma come, lì dentro c’è stato un omicidio...», «omicidio?, ma ...