Scilla e Cariddi
1
Da Paestum a Castrovillari
«Abbracciamoci ancora una volta prima di salire su questa fatale vettura, con ogni probabilità non ci rivedremo più».
«Non sarebbe meglio restare a Napoli con i vostri amici, piuttosto che andare in giro per la Calabria come un folle, come un inglese?».
«Le Calabrie! Una regione dove si muore di fame e di sete; dove si viene assassinati!», aggiunse qualcuno.
«Il vostro non è un progetto giudizioso, nessuno osa recarsi in Calabria».
«Lo so ed è per questo che ardo dal desiderio di andarci. Solitudini magnifiche, un popolo da epopea, valli cosparse di fiori dove hanno camminato tutti gli dei dell’Olimpo!».
Il nostro amico partì carico d’entusiasmo, per niente intimorito dalle parole dei napoletani. Walfort, giovane pittore francese che avevo incontrato per caso lungo un viale, spettatore, come me, di questa scenetta, restò pensieroso per il resto della giornata. L’indomani, scoprimmo insieme quanto Napoli potesse rivelarsi banale per gli artisti e che bisognava percorrere delle nuove strade.
Dopo due giorni, partimmo per la Calabria.
La cosa più spaventosa di questo viaggio sono i mezzi a bordo dei quali si lascia Napoli. Quando, accompagnati dai nostri ospiti che rinnovarono per noi la scena intimidatoria che conoscete, arrivammo in Piazza del Mercato dove si trovava il corricolo, trasalimmo per lo spavento. La vettura si offriva alla nostra vista come un ammasso umano da cui emergeva una lunga barra sotto il cui peso nitriva un cavallino rosso, magro e spelacchiato. Il telaio del veicolo, fissato alla groppa del cavallo, aveva due enormi ruote, tra le quali quasi spariva una specie di sedile dove sprofondava un viaggiatore che teneva le redini. Dietro di lui, arrampicato su uno strapuntino, stava il guidatore armato d’una frusta lunga come una canna da pesca, con cui flagellava, dall’alto di tutto l’equipaggio, i fianchi macilenti del rosso che tirava il carro.
Attorno a questa specie di tronco su ruote, si raggruppavano i viaggiatori ritardatari che si issavano sul timone, sul predellino e su ogni minimo spazio libero. I passeggeri si sedevano sui braccioli di un sedile, su uno schienale, sulla testa del vicino, sulle gambe di uno sconosciuto, dappertutto: fintanto che la pianta del piede riusciva a trovare un pollice di legno o ferro su cui posarsi, c’era posto. Ben presto, la fragile struttura del carro fu interamente ricoperta: come questo agglomerato d’uomini potesse stare in aria, restava un mistero. Walfort fu messo a cavallo di una cinghia ben ingrassata. Il conducente mi mostrava, con gesto nobile, qualcosa sotto la vettura, ma io non capivo. Là sotto c’era una rete profonda che, carica di scatole e pacchi, oscillava tra le ruote a dieci pollici dal suolo. Bisognava scivolarci dentro infilando per prima la testa. Entrandoci, colpii tra i bagagli qualcosa di molto duro e spinsi con tutta la mia forza a colpi di tallone.
«Saccaja maledetta!»1 esclamai.
«Grazia, signore»2 rispose il sacco.
Il sacco era un uomo. Dopo aver balbettato qualche parola di scuse, nel pessimo italiano che un professore di inglese mi aveva insegnato a Parigi, aggiunsi:
«Perbacco, un piacevole malinteso!».
«No, non troppo piacevole» replicò l’altro.
Lo sventurato parlava francese. Per rimediare al mio errore, l’aiutai a sollevare la testa dal fondo della rete e a liberarsi dagli involti tra i quali era incastrato.
Il mio compagno non era quel che si può definire un Adone: la faccia gli spariva quasi tutta sotto una barba spessa; gli occhi, dietro gli occhiali, erano sormontati da sopracciglia folte e vibranti che gli davano un’aria un po’ sorpresa.
Il solo vederlo poteva considerarsi un anticipo delle Calabrie e dei suoi banditi: il pensiero di terribili avventure mi attraversò la mente. Come se mi avesse letto nel pensiero, si scosse la polvere dalla criniera e, spalancando le braccia, mi strinse con una tenerezza che mi intimidì. Fu un fatidico incontro, poiché questo brigante era un francese che avevo già conosciuto a Roma e che, da quel momento in poi, divenne uno dei miei amici più cari, come si può facilmente indovinare, perfino dopo l’insolente ritratto che ne ho fatto. Strinse subito amicizia con Walfort che, quella stessa sera a Salerno, si complimentò per l’originalità del suo aspetto. Il giorno dopo, quando la nostra carretta ci depose su un prato in riva al Sele a tre miglia dalle rovine di Paestum, il giovane pittore e il mio amico Evariste si davano già del tu.
Quest’ultimo, con la sua voce stentorea, cominciò a chiamare il battelliere che stazionava sull’altra riva del fiume perché venisse a prenderci. Rischiammo di restare lì fino a sera poiché il nostro Fetonte era tornato sui suoi passi e il battelliere, salpato dalla riva opposta dell’antico Silarus, fu richiamato da un gendarme deciso, visto il suo rango, a traghettare prima di noi. Dunque, mentre il navalestro tornava indietro sottomesso, la voce di Evaristo indignato lo terrificò a tal punto che si riavvicinò a noi. Furore del gendarme: il battelliere esitò, poi si allontanò, ma le nostre grida lo turbarono ancora. Alla fine la nostra calamita si rivelò più forte di quella del soldato: il passatore si schierò con noi e così raggiungemmo l’altra riva dove il rispettabile militare, esasperato da tanta irriverenza verso un servitore del re, rimbrottò con durezza il battelliere:
«Non è per me – gridò quasi strozzandosi – non è per me, ma per la sua Majestà!»3.
I dintorni della piana di Paestum non hanno niente di particolare. Di tanto in tanto, sulla destra, si scorge il mare incorniciato da cespugli rossastri; a sinistra ci sono i boschi di Persano che tappezzano l’Appennino di un colore pieno e deciso. Gli antichi monumenti di Paestum sono sopraffatti da rovi tra cui spiccano a profusione macchie di rose canine dai fiori più grandi e dal colore più intenso di quelli delle nostre campagne. Anche il profumo delle rose di Paestum è molto forte; chissà se queste rose selvatiche discendono dai nobili rami descritti da Marziale e da Virgilio:
Biferique rosaria Poesti…
Mentre Ovidio scriveva:
Calthaque Poestanas vincet odore rosas.
Ovidio non aveva forse aspirato la fragranza della semplice eglantina, oppure questi fiori che Ausonio cantava ancora con predilezione, sono stati consumati dai secoli e la rosa canina è ormai una rosa in rovina?
I rosai di Paestum suscitano fantasticherie quanto i templi dorici di Cerere e Minerva. Questi edifici, già antichi sotto i re di Roma, erano imponenti nella loro maestà: il sole al tramonto ramava le sfumature di verde-bruno che il tempo aveva dato loro. La natura era calma, seria; le ginestre e i caprifogli spandevano i loro profumi. Mentre i miei compagni decifravano una epigrafe nel mausoleo di Poseidonia, traccia di una civiltà estinta, io restai ad assaporare non so quali fragranze d’antichità, accanto ai cespugli di eglantina che fioriscono sulla tomba delle rose di Paestum.
Al cospetto di antiche architetture ci sono istanti in cui si fantastica invece di osservare: avevo pensato alle rose per tutto il tempo, che gli archeologi mi perdonino! L’ombra dei frontoni e delle colonne si allungava sul suolo, bisognava andare a Capaccio a cercare un posto dove dormire. Si era alla fine di maggio e già le esalazioni venefiche risalivano dai crepacci della terra che copre lo scheletro della città. In questo paese di rose, ogni fiore ha il suo veleno e ci si addormenta facilmente, ma non sempre ci si risveglia. Il principio vitale si è ritirato dalla necropoli il cui soffio nero spegne ogni fiamma, così si rischia la vita in queste tenebre.
Alla nostra partenza il mare era come uno zaffiro che si stendeva fino all’isola delle Sirene, il profumo dei fiori ci inebriava, i fringuelli e i cardellini cantavano melodiosi per trattenerci, l’erba era fresca e viva e le montagne rivestite di un rosa delicatamente striato del colore dell’iris.
Nel regno di Napoli si utilizza un sistema molto economico per fare le strade che consiste semplicemente nel tracciarle sulle carte geografiche, l’immaginazione del viaggiatore fa il resto. Raggiungemmo Policastro dopo tre giorni, percorrendo sentieri che non esistevano (in Francia li chiamerebbero chemins vicinaux). In ogni villaggio gli abitanti si avvicinavano per vederci passare. Pare che gli stranieri prendano raramente questa direzione, poiché a Prignano o a Finochitto, Walfort aveva domandato ad alcuni contadini se avessero mai visto da quelle parti dei viaggiatori:
«Soltanto un inglese – rispose uno di loro – circa sette anni fa, due francesi l’anno del mio matrimonio e qualche altro».
Questa gente è buona, ma diffidente; la diffidenza è tipica del carattere di chi vive in questi paesi così spesso coperti di sangue, disseminati da rovine, di volta in volta saccheggiati dai banditi del regime dispotico o di quello liberale.
Questa zona della Basilicata è molto diversa dalla Calabria. Non si incontra niente, prima di Lagonegro, che sia veramente nuovo. Partiti da Sapri al mattino, arrivammo a Lagonegro la sera, dopo aver percorso un sentiero molto faticoso attraverso la montagna. Una circostanza ci colpì durante il tragitto: appena cominciammo a risalire i fianchi delle prime montagne dell’Appennino, i fiori profumati della campagna napoletana ci lasciavano man mano che le argille divenivano più grezze, fredde e appuntite; i fiori che avevamo tanto apprezzato ci abbandonavano alle asperità della strada, come quegli amici dei giorni lieti che si allontanano quando la tempesta gravita sulle nostre teste. Non più alberi d’arancio, né corbezzoli, né mirti; addio ai gelsomini, alle ginestre e ai lentischi; il caprifoglio ci lasciò per ultimo. Poco a poco, la vegetazione del nord sembrava discendere dalle montagne: il tiglio e il nocciolo precedevano la quercia e la betulla; poi proliferavano aceri montani, castagni, sorbi dai pomi di corallo e il frassino, che si nasconde, con i pini, fra le nuvole. Sembrava di essere nel bel mezzo delle Alpi o dell’Alto Giura. Questo tipo di vegetazione ci rammentò la patria e diede profondità alla prospettiva ideale in fondo alla quale la percepivamo. Lagonegro è un luogo buio e brutto, non ci sono briganti, ma dovrebbero essercene. Man mano che ci si avvicina al borgo, i monti sterili, rozzi, maculati di nero e grigio, modellati come mosaici squamosi, prendono forme dolenti e tormentate. Al centro di un gruppo di questi picchi disordinati che si ergono lì tutti nudi e insanguinati da lunghe striature di marmo rosso, fra questi mostri minerali che abbeverano un fragoroso torrente, si eleva un cono scheggiato di pietra gialla.
Sulla sua sommità insiste un vecchio castello dal torrione decapitato, sotto il quale si raccoglie un villaggio che si crederebbe destinato ai falchi o agli avvoltoi. Disegnato in chiaro sui fondi brumosi del Sereno, Lagonegro ricorda i luoghi più fantastici e paurosi descritti nei vecchi romanzi. Non c’è dubbio che Mathurin e la Radcliffe conoscessero Lagonegro, Lewis che non lo conosceva, dovrebbe rinascere e rimpiangere questa mancanza. Si è timorosi entrando in questo borgo carceriforme. Gli abitanti sono poveri, ma non ladri, fatto degno di nota. Gli sfortunati viandanti come noi, consumano una pessima cena su questi sassi, ma li si risarcisce facendoli dormire su paglia minuta, in un granaio dove la luna e le stelle possono entrare a trastullarsi senza trovare ostacoli.
La strada che conduce fuori dal borgo, solca campi di un’aridità crudele; i monti sono brulli da cima a fondo e, man mano che si avanza, la desolazione aumenta. Oltrepassata Lauria, scendemmo in una valle colma di pietre e chiusa da picchi aguzzi di roccia viva, squarciati da profondi crepacci. Vista oltremodo singolare. Qua e là, enormi massi allineati come alberi sui bordi del greto asciutto di un torrente, i cui ciottoli bianchi creano un solco luminoso nel grigiume circostante. Questa voragine immensa è di una monotonia senza uguali; la luce stessa si rifiuta di farvi penetrare i colori del prisma, l’idea della morte plana implacabilmente su questo caos dove non si scorge neanche un filo d’erba, tanto che si stringe il cuore durante il cammino. Il serpente nero è l’unica creatura che si incontra qui; nel fondo di questa vallata di pietre si è divorati da ondate di calore che sembrano risalire da una fornace sotterranea, si è in preda all’angoscia di non rivedere più la terra abitabile. Anche i raggi del sole, assorbiti dai sassi, perdono il loro riflesso e il giorno puro dei cieli prende la sfumatura delle ombre. Eppure proprio lì avevamo trovato delle sorgenti d’acqua, questo suolo sterile, come un vecchio calvo e rinsecchito, aveva pianto la sua ultima lacrima così come si era spogliato della sua ultima foglia: in questo luogo bisognerebbe riflettere sulla grande età del mondo, sulla vecchiaia, sulla rovina e la probabile fine del nostro pianeta.
Un curato del paese, dal volto sinistro e livido come quello di una vecchia statua, era il nostro compagno di viaggio. Un tempo, quando ancora era diacono, questo prete aveva portato il moschetto e guidato una truppa, una comitiva di banditi della «santa fede», aizzati dal cupo cardinale Ruffo. A noi francesi, il buon uomo riservava occhiatacce alla Caino, ci sbirciava subdolamente come un toro irritato dalla vista di un mantello rosso.
Tuttavia, ogni tanto, si degnava di rivolgerci qualche monosillabo. Ad aumentare l’orrore del posto, casupole sparse e abbandonate, costruzioni massicce e prive di porte, dalle quali si deducevano inquietanti dettagli sulle abitudini degli abitanti della provincia. A distanza di dieci piedi dalla facciata di queste case, accanto a una finestra, erano stati innalzati, per sicurezza, muri alti due tese fiancheggiati da una scala, in modo da entrare direttamente dal tetto, passando su una tavola che si ritirava dentro prima di andare a dormire. Così ogni casupola era come una piccola fortezza, una prigione. Questo è ora un villaggio fantasma, le abitazioni sono deserte e i resti dei loro ultimi proprietari sparsi sulle pietre del quartiere. Quante disgrazie hanno patito le Calabrie da quando Annibale, devastandole per tre lustri, distrusse per sempre lo splendore della più bella regione d’Italia!
Walfort chiese al nostro curato lazzarone:
«Da chi si difendevano gli abitanti di queste casupole?».
«Da tutti, e tutti si difendevano da loro».
«Ammesso che fossero tutti banditi, temevano forse di essere attaccati?».
«Le carabine e il sole sono per tutti, il pane solo per quelli che se lo sanno guadagnare».
«Il vostro paese era fedele a Ferdinando?».
«Ignoro a chi fosse devoto, ma, per Manhès! detestava gli stranieri».
Queste parole furono accompagnate da uno sguardo ben poco apostolico verso di noi. Tuttavia, i calabresi d’animo nobile hanno avuto rispetto per i francesi: chiunque non abbia interesse per il dispotismo, comprende che questo paese deve alle leggi francesi le poche istituzioni liberali che il regno possiede.
Oggi resta poco di quelle libertà, è vero, ma la speranza vive a buon mercato! Questa gente impreca contro Manhès, come i loro antenati imprecavano sullo Stige. I suoi metodi violenti hanno lasciato ricordi lugubri: le minacce del generale diventavano spietate realtà eseguite a ore fisse, con un rigore tanto puntuale da far diventare il suo nome una bestemmia. Sul versante di una collinetta si scorgeva ancora, tra sassi scuri, qualche frammento di muratura.
«Sono i resti di un antico villaggio?» chiese Evariste.
Il prete aggrottò le sopracciglia e disse:
«Manhès aveva promesso di distruggere questo villaggio all’alba, se un povero “fuorgiudicato” non gli veniva consegnato; il bandito fuggì e il villaggio fu raso al suolo».
«Gli abitanti sono emigrati?».
«Dormono tutti sotto le loro case».
«E il nome di queste rovine?».
«Non lo conosco, non hanno più un nome».
Ecco una distruzione volutam...