Dieci
Erano le otto del mattino quando Milena reggendo un vassoio con la colazione entrò nella camera ancora immersa nella penombra. Indossava solo una T-shirt bianca sul corpo nudo e aveva i capelli scomposti di chi si è appena alzato. Posò il vassoio sul comò, aprì la finestra, riprese il vassoio e si avvicinò al letto. Investito dalla luce della finestra Rino si stava svegliando.
Sbadigliò: «Che ore sono?»
«Le otto passate...» posò il vassoio sul letto: «Tieni... prendi il caffè, ma non ti ci abituare, eh?»
Milena sedette sul letto accanto a lui, girò lo zucchero nella tazzina e gliela porse.
Rino mandò giù un sorso, poi la guardò: «Com’è che m’hai fatto dormi’ da te stanotte? È la prima volta...»
«Ci aveva da fare fino a tardi... non so a che ora ha finito... Doveva preparare una cosa urgente per stamattina».
Rino bevve un altro po’ di caffè, poi con tono perplesso: «Che fa quest’avvocato tuo io mica l’ho capito...»
«E ricomincia...» protestò Milena.
«Tanto per dire, ci ha una faccia che non me piace per niente».
«Ma se non l’hai mai visto...»
«Come non l’ho mai visto?»
Rino le mise in mano la tazzina e si sporse dal letto. Aprì il cassetto del comodino e tirò fuori una fotografia di Pintus incorniciata d’argento.
«È inutile che la nascondi» disse.
Milena non negò di averla nascosta. Preoccupata del suo giudizio, disse solo: «Perché? Che ci ha?»
Rino riprese in mano la tazzina e ci inzuppò un biscotto preso dal vassoio. Poi, gettata un’altra occhiata alla fotografia abbandonata sulle coperte, con aria un po’ sprezzante disse: «Non lo so, ma non mi piace... E poi che avvocato è, scusa? Un avvocato del cazzo... non ci ha uno studio suo... niente... Ma che fa? Secondo me è un sola...»
«Non fa l’avvocato ma c’ha una società e va sempre in ufficio» lo giustificò Milena «Altro che sola... fa un sacco d’affari, invece... pure ieri, all’ippodromo, con quello con cui era andato al bar quando t’ho chiamato col telefonino...»
«Non m’hai detto che era il padrone di una scuderia?»
«Embé? Mica campa con quella! Ci ha tanti di quei traffici...»
«E lui che c’entra?» disse accennando alla foto.
«Come che c’entra? Ci aveva bisogno urgente di sette miliardi e quello pare che glieli ha già trovati... e pure in contanti».
«Sì, in contanti? Ma che stai a di’?»
«Ti giuro... Ha parlato col ragioniere davanti a me...» Vedendo che Rino, distratto da qualcosa, aveva smesso di mangiare, lo guardò dispiaciuta: «...Che fai? Non mangi altro?»
«No, non mi va... la mattina non prendo mai niente...»
Rino spostò il vassoio e allungò una mano sulle cosce nude di lei.
«Vieni qua...»
«No, adesso no...»
«Non l’abbiamo mai fatto appena svegli... a me piace moltissimo...»
Milena sorrise, poi, un po’ torbida, disse: «Non è vero... una volta l’abbiamo fatto, invece...»
«Quando?»
«La mattina che partivi per militare, non te lo ricordi? Io sono venuta a casa tua con la scusa di salutarti... tua madre m’ha fatto venire in camera tua... tu dormivi ancora... sdraiato così, come adesso, con gli occhi chiusi... io mi sono tirata su il vestito...» parlando Milena ripeté il gesto e si tirò su lentamente la T-shirt, mettendo allo scoperto i peli e il ventre «...e ti sono venuta sopra, così...»
Tirò via il lenzuolo e si mise a cavalcioni sopra di lui, cominciando a muoversi lentamente: «...te se’ svejato che già me stavi a scopa’... proprio come adesso...» disse franando nel dialetto con voce bassa e già un po’ ansante.
Mentre Rino e Milena provavano il piacere del risveglio mattutino, Pintus stava percorrendo in fretta il corridoio di casa sua con aria molto irritata. Era in camicia e aveva la cravatta penzoloni ai lati del collo, come se qualcosa lo avesse interrotto mentre si stava vestendo. Aprì la porta della camera di Donatella che a letto stava leggendo i giornali appena portati da Clarita.
«Fammi capire meglio... cos’è questa storia?»
Donatella alzò lo sguardo e lo fissò interrogativa: «Quale storia?»
«Mi ha chiamato adesso il direttore della banca... dice che gli avrebbe telefonato un certo avvocato Marra per chiedergli tutta una serie di informazioni sui nostri conti... Tu sai niente chi è?»
«Sì, il mio avvocato... l’ho incaricato io di cercare di capirci qualcosa...»
«Perché? Cos’è che non va?»
«Tutto... sono anni che non vedo un rendiconto... Anche perché son soldi miei... Comunque non ho nessuna voglia di parlarne... ti telefonerà lui stesso oggi o domani...»
Pintus avanzò di qualche passo, cercando di controllarsi.
«Ma insomma... si può sapere che t’ha preso?»
Donatella lasciò cadere il giornale e lo fissò sprezzante: «C’era proprio bisogno che la portassi alle corse?»
Pintus, sorpreso che lo sapesse già , esitò e fece l’ironico: «...Vedo che sei perfettamente informata...»
«Guarda che non t’ho fatto pedinare, sta tranquillo... mi hanno già telefonato in quattro da ieri sera... e guarda caso hanno tutte detto che ci ha una bella faccia da puttana...»
Pintus incassò male, ma cercò di tenerle testa: «Beh... almeno adesso sai com’è fatta...»
«Lo so benissimo com’è fatta... anche troppo...»
Allungò il braccio verso il vano inferiore del comodino, prese alcune videocassette e le scaraventò sul letto.
«Ho qui le cassette di quando lavorava in quella tv privata che tu gli hai fatto lasciare...»
Ne raccolse una a caso e la gettò verso di lui. Indicò il televisore con tono di sfida: «Su mettine su una, avanti... rivediamola insieme...»
Questa volta Pintus non riuscì a controllarsi e il sarcasmo gli uscì tutto quanto: «Al tuo posto lascerei perdere... il confronto non ti giova affatto...»
Donatella lo fissò livida di rabbia: «È tutto quello che sai dire?»
Ormai a Pintus erano saltati i nervi: «No, c’è dell’altro. Se credi di ricattarmi in questo modo, ti avverto che ti sbagli... potresti anche avere una grossa sorpresa...»
Donatella scosse la testa con aria di compatimento: «Non ci credo... tu non sei un uomo da sorprese, Carlo...»
Pintus non replicò oltre e uscì dalla stanza inferocito. Benedisse l’affare dei supermercati che lo aspettava, un affare tutto suo, che nessuno poteva portargli via. Finì di vestirsi in fretta pensando alla giornata intensa che lo aspettava. Ebbe il timore di star trascurando Milena. Le aveva telefonato la sera prima e l’aveva trovata un po’ freddina, forse per essere stata abbandonata alle corse, e pensò di richiamarla in mattinata.
Alle nove usciva di casa. Mezz’ora ora dopo era in ufficio. Chiuso nella sua stanza con Conconi, tutta la mattina lavorò con lui alla stesura delle bozze dell’atto costitutivo della nuova società che si presentava all’acquisto dei supermercati. Calcolò e ricalcolò cifre e percentuali. Spinto dall’avidità e dall’ottimismo stravolse i primi appunti su cui avevano cominciato il lavoro. Conconi con la sua concretezza lo riportò alla realtà ricorreggendo cifre e clausole. A mezzogiorno e mezzo la stesura era completata. Restava solo un lavoro di rifinitura formale che Conconi, che aveva un impegno di lavoro, promise per il pomeriggio. Pintus scappò via dimenticandosi di telefonare a Milena. Aveva un appuntamento con Angelo Morici col quale pranzò. Sulla tovaglia del ristorante, accanto ai piatti, stese con lui una laboriosa lettera di compromesso per la sua percentuale di brokeraggio. Lasciato Morici alle tre, alla guida della sua BMW dovette attraversare mezza città per correre da Luciano Olivieri. Questi abitava nell’appartamentino di un residence immerso tra gli alberi di un parco privato. Lo trovò in vestaglia di seta e in pantofole che si era appena alzato. Sul comodino aveva un cartoccetto di cocaina. Pintus fece un paio di tiri e si sentì subito meglio.
A quella stessa ora il rag. Conconi era preso da quell’impegno per il quale aveva lasciato di corsa l’ufficio. Si trattava di un piccolo capolavoro: vendere un negozio in contemporanea alla sua cessione.
Il teatro dell’azione era un’anonima strada di periferia d’intensa attività commerciale. Il traffico era tumultuoso, sui marciapiedi scarsi e frettolosi i passanti, ininterrotta la serie delle vetrine e delle insegne.
Davanti a un negozio di abbigliamento-jeans c’era fermo un furgone con gli sportelloni aperti. Tre uomini di fatica stavano facendo la spola con l’interno del negozio trasportando pesanti scatoloni di merce che scaraventano nel furgone.
Sulla soglia del negozio comparve Enzo Scardecchia, l’amministrativo del Mattatoio, con dei fogli in mano. Era in compagnia di Egidio Felisatti.
Non ci furono testimoni, se non un barbone carico di sacchetti di plastica, bloccato dal traffico sul marciapiede opposto, che aveva adocchiato dei cartoni vuoti buttati dagli uomini che caricavano il furgone. Scardecchia e Felisatti vennero raggiunti dal proprietario uscito dal fondo del negozio, che cercò di trattenerli. Il barbone li vide da lontano discutere animatamente. Vide il negoziante gettarsi contro lo Scardecchia cercando di strappargli i fogli di mano. Vide Felisatti afferrarlo per un braccio e colpirlo con un pugno ricacciandolo nell’interno del negozio. Quindi lo Scardecchia e il Felisatti vennero via in fretta gettandosi nella strada in mezzo al traffico. Ne trasse vantaggio il barbone che approfittò del traffico scompaginato per andare a raggiungere i suoi cartoni.
Poco lontano era posteggiata la Fiat Regata di Conconi, con Danilo di guardia appoggiato al cofano. Nell’interno, sul sedile posteriore, Conconi era in compagnia di un uomo. Vide arrivare Scardecchia e Felisatti e abbassò il finestrino. Lo Scardecchia si chinò a dargli i fogli.
«Allora, ha firmato?» domandò subito Conconi.
«Guarda. Firmato foglio per foglio».
«Ha fatto storie?»
«Be’, insomma...» ridacchiò Scardecchia.
Conconi si girò e si rivolse all’uomo grasso e sudato che aveva seduto accanto.
«Cosa le dicevo, signor Poggioni? Ecco il contratto di cessione. Firmando il compromesso che le ho fatto leggere, la jeanseria è tutta sua».
Conconi aprì una cartelletta e la mise sulle ginocchia al signor Poggioni.
«E a partire da che giorno?» domandò Poggioni.
«Come abbiamo detto. Dal primo del mese prossimo».
«Un mio assegno le va bene?»
«Ma certo signor Poggioni, vogliamo scherzare?»
In quel momento suonò il telefonino e Conconi prese la comunicazione.
«Mi scusi...» di...