Oxana Pachlovska
L’Europeismo delle élites culturali ucraine dell’Ottocento e le sue ascendenze polacche (Ševčenko, Kostomarov, Drahomanov)
L’Ottocento ucraino, definito dal poeta Jevhen Malanjuk «la Notte della Non statualità», è un secolo cruciale per la formazione delle élites intellettuali moderne, alle quali toccò di forgiare l’identità dell’Ucraina come cultura sovrana e come Stato indipendente. Una disamina puntuale della storia delle idee del tempo acquista dunque una particolare pregnanza.
Innanzitutto, occorre tracciare un sintetico paradigma evolutivo delle élites ucraine nei secoli precedenti per capire la sostanza dei cambiamenti avvenuti nell’Ottocento. Dalla fine del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, cioè per tre secoli, l’Ucraina dovette duramente lottare per la sua realizzazione statuale. Per tutto il Seicento il suo antagonista era la Polonia, Repubblica Polacca (Rzeczpospolita). Per altri due secoli, poi, l’antagonista diventa la Russia imperiale. È dunque proprio in contrapposizione a questi due grandi vicini che si forgia l’élite nazionale ucraina. E, quel che più conta, è che questa élite diventa in effetti portatrice matura di certe idee fondanti l’identità stessa europea.
Nei secoli precedenti due erano i problemi cruciali che l’élite nazionale ucraina si trovava ad affrontare: la polonizzazione e la russificazione. La polonizzazione ebbe effetti contrastanti, con la netta prevalenza, però, di esiti positivi. Certo, uno dei fondatori del Cosaccato ucraino, Dmytro Vyšnevec’kyj, ebbe come suo discendente il principe Jarema Vyšnevec’kyj, tristemente famoso per le repressioni cruente dei cosacchi rivoltosi. Ma la polonizzazione produsse anche figure di grande rilievo, come Adam Kysil, convinto assertore della riappacificazione tra polacchi e ucraini1, da una parte, e Konstantyn Ostroz’kyj, fervido ortodosso, fondatore della prima università del mondo slavo-bizantino, l’Accademia di Ostroh2, e insieme uno dei pretendenti al trono polacco. Anzi, in quei casi si trattava non tanto di polonizzazione, quanto di un particolare clima culturale caratterizzato dal plurilinguismo e da una notevole tolleranza religiosa, che produceva menti eccellenti e moderne, aperte alle novità. Intere dinastie della nobiltà polacca di origini ucraine – Czartoryski, Zasławski, Sanguszki, Korecki – hanno generato personaggi illustri propensi al dialogo e alla ricerca di soluzioni di pacifica convivenza3. Diversi statisti e scrittori ucraini del tempo – compresi personaggi del calibro di Bohdan Chmel’nyc’kyj, Jurij Nemyryč, Ivan Vyhovs’kyj – ebbero un’istruzione polacca (spesso insieme a un’istruzione italiana e/o tedesca). Senza parlare, poi, degli effetti culturali: l’Ucraina di quest’epoca è tutta impregnata di letteratura, politica, diritto polacchi, il che ha reso la cultura ucraina, dal canto suo, aperta al dialogo. Tra gli effetti più interessanti di questa compenetrazione culturale è la formazione di un’ortodossia ucraina “occidentalizzata”, aperta alle istanze della cultura europea4, e insieme alla ricerca assai moderna di una soluzione ecumenica del conflitto confessionale tradottasi nella creazione, nel 1596, della chiesa greco-cattolica come “chiesa unita”, appunto5.
Un altro frutto importante di questo connubio polacco-ucraino fu la concezione di uno Stato ucraino confederato prima che sovrano, cosa che avrà un’eco anche nell’Otto e Novecento. A metà del Seicento l’etmano Bohdan Chmel’nyc’kyj propose al vertice polacco di trasformare la Rzeczpospolita dwojga narodów (Repubblica dei due popoli) in Rzeczpospolita trojga narodów (Repubblica dei tre popoli), in modo da assicurare alla parte ucraina pari dignità della parte polacca e lituana6. Mentre a cavallo tra Sei e Settecento l’etmano Ivan Mazepa era del parere che l’Ucraina avrebbe dovuto creare una monarchia costituzionale, equidistante dalla Polonia e dalla Russia, con alleanze europee (la Svezia), segnando tra l’altro una definitiva rottura con la Russia di Pietro il Grande, giudicata dall’etmano uno Stato decisamente dispotico7.
Inoltre, la polonizzazione delle élites ucraine serviva da valido contributo all’approfondimento e affinamento dei parametri identitari. La polonizzazione significava il rafforzamento della propria identità, un’aggiunta e non una sottrazione insomma. Tra l’altro, la ricerca e la difesa dell’identità spesso era una scelta difficile, quindi passava il vaglio di precise istanze etiche. Si imponeva il concetto dell’Altro come di qualcuno che andava rispettato, che aveva una religione diversa, e che anche quella «religione del vicino» meritava rispetto come normale condizione esistenziale8. Forse questa apertura non appianava di per sé i conflitti, ma comunque era espressione di un pensiero politico quanto mai avanzato che generava una cultura della tolleranza, bene prezioso per quei tempi decisamente tormentati per tutta l’Europa lacerata dai conflitti religiosi9.
Di contro, ben altre dinamiche si sviluppano nel caso della russificazione. Innanzitutto, il fatto di essere un Paese a maggioranza ortodossa, invece di garantire pari dignità a tutti i membri della comunità, si traduceva nella rinuncia alla propria identità culturale e linguistica. Dai tempi del monaco Filofei, l’autore del concetto di «Mosca Terza Roma», nell’ottica del vertice russo l’ortodossia era sinonimo di “russicità”. Quindi gli Slavi appartenenti alla cerchia del cristianesimo occidentale venivano tout court considerati “identità fasulle”. Tjutčev affermava, ad esempio, che la Polonia «doveva perire», visto che si trattava, secondo lui, di «una falsa civiltà» e di «una falsa nazionalità»10. E dunque, qualsivoglia alterità nell’ambito del continuum confessionale ortodosso non poteva che essere vista come inaccettabile sfida al potere sacrale (in chiave del cesaropapismo bizantino) ed equiparato a una intollerabile eresia che andava estirpata.
Questo conflitto tra élites ucraine e russe emerse senza mezzi termini già ai tempi di Pietro il Grande, il quale intendeva “importare” gli intellettuali ruteni in Moscovia con lo scopo di forgiare il novello Impero russo. Scrittori quali Stefan Javors’kyj e Feofan Prokopovyč dovevano, ognuno a modo suo, disfarsi dalla propria identità, liquidandola magari come “erronea” e comunque potenzialmente non in linea con l’unità “sacrale” dell’Impero russo. Come si sa, Prokopovyč tolse la dedica a Mazepa dalla sua opera teatrale Vladimir, rivolgendola a Pietro, e scrisse la poesia Il Cosacco che si pente (Zaporožec kajuščijsja), dove condannava i cosacchi per la loro “infedeltà” nei confronti del trono moscovita. Ma, quel che più conta è che ambedue gli scrittori contribuirono, intellettualmente e istituzionalmente, al farsi dell’Impero petrino senza porsi minimamente la questione dell’autonomia e dell’individualità ucraina in questo processo. Anzi, proprio Prokopovyč fu responsabile del concetto di un «popolo russo uno e trino» («triedinyj russkij narod») rappresentato, nella sua ottica, da «Grandi Russi», «Piccoli Russi» e «Russi Bianchi», concetto che divenne base dell’ideologia dello Stato russo e giustificazione del suo espansionismo coloniale.
Gli ulteriori sviluppi nell’arco che va dal regno di Pietro I (1682-1725) a quello di Caterina II (1762-1796) furono semplicemente devastanti per la cultura ucraina. Il modello policulturale ereditato dal connubio polacco-ucraino veniva di fatto sostituito da un modello monoculturale repressivo (con la proibizione delle lingue ucraina, latina11 e polacca, l’estromissione del sapere occidentale dall’Accademia mohyliana12, fulcro dell’istruzione europea nel Seicento, lo smantellamento delle strutture politiche e amministrative dell’Etmanato (Het’manščyna) trasformato nel 1764 nel governatorato piccolo-russo (Malorossijskaja gubernija)13.
Il ruolo decisivo in questo processo spettò in effetti a Caterina II, che contribuì sapientemente alla spaccatura insanabile dell’élite ucraina. Pietro agiva esclusivamente con metodi repressivi e sbrigativi, basti ricordare la terribile punizione del ribelle Mazepa dopo la battaglia di Poltava (1709), la distruzione della sua residenza di Baturyn, lo sterminio di tutti i suoi abitanti, l’uccisione dei capi cosacchi. E la violenza generava resistenza. Caterina invece agiva più sagacemente da fredda statista. Puniva certamente i personaggi più vistosamente ribelli (il metropolita Arsenij Macijevyč rinchiuso per anni in prigione per aver difeso le terre della Chiesa dal sequestro, dichiarato santo dal Patriarcato di Kiev nel 2004). Nel contempo, però, seppe cooptare i nobili ucraini e il vertice del Cosaccato nella nobiltà russa (anche quella in gran parte collusa con l’imperatrice, cui doveva favori a seguito di guerre e colonizzazione di terre conquistate).
Questo fenomeno assai diffuso venne messo alla berlina da Aleksandr Puškin nella sua poesia La mia genealogia (Moja rodoslovnaja), dove il poeta, parlando di suo nonno, dice che quello «non arrivava d’un salto a un principe dal chochol» (chochol è l’appellativo denigratorio usato spesso dai russi per indicare gli ucraini). La spaccatura dell’élite portò in effetti all’apparizione di tre nuovi tipi di intellettuali ucraini: gli ucraini completamente russificati che s’identificano esclusivamente con l’Impero, i “piccoli russi” caratterizzati dall’identità ibrida, e gli ucraini che finalmente si identificavano con una patria di nome Ucraina. La prima categoria era rappresentata dagli ucraini perfettamente integratisi nella società russa e ormai spogli di qualsivoglia traccia dell’identità ucraina (questo è il caso, ad esempio, del conte Aleksandr Bezborodko, uno dei maggiori costruttori dell’Impero, ed è a lui che accennava Puškin14). La seconda categoria riguardava quegli ucraini ormai ben inseriti nella società russa che mantenevano una loro identità ucraina semplicemente come una appendice di carattere folclorico. Negli ambienti russi li prendevano per i malorosy, gente della “Piccola Russia”, appunto, nient’altro che una regione della Russia imperiale. Questo è il caso di Gogol’ e altri scrittori della “scuola ucraina”, quali Vasilij Narežnyj e Orest Somov. Va ribadito, comunque, che questa cerchia era assai diversificata. Gli ucraini che vivevano e lavoravano in Russia, spesso emarginavano la loro parte ucraina. Nel contempo, la nobiltà piccolo-russa che risiedeva in Ucraina, creava una sorta di cerchia libertaria di stampo massonico, con atteggiamenti critici nei confronti dell’Impero15.
E infine, ecco la terza categoria, oggetto principale della nostra disamina, quella di una élite ormai ucraina, conscia, in vario grado, della propria identità e del passato del Paese, animata da un forte desiderio di lottare per la sovranità del proprio popolo. E, cosa ancora più significativa, è proprio questa categoria che si farà portatrice di idee europee in questa area, cosa di particolare interesse visto che qui convivono perlomeno tre popoli, tre élites in perenne conflitto tra loro, nel tentativo di elaborare nuovi approcci alle questioni incombenti.
Dopo le spartizioni della Rzeczpospolita (1772, 1793 e 1795), dalla fine del Settecento, dunque, al 1917, anno del crollo dell’Impero russo, per un arco temporale di quasi centocinquant’anni, l’Ucraina seguì le sorti della Polonia (“aquila bianca” smembrata da tre “aquile nere”: Russia, Austria e Prussia) e rimase di fatto spartita anche lei tra due imperi: q...