Lettera 1
A un qualunque eventuale lettore
Egregio signor lettore,
se lei esiste, lei è certamente egregio, cioè fuori del gregge. È stravagante, isolato. Tutti i miei pochi lettori sono sempre stati così, ed essendo così son sempre stati pochi. Le mie tirature stentano a esaurirsi, se non andando al macero e diventando, mi auguro almeno questo, carta verdolina riciclata. Una o due volte, per eccezione, fui ristampato, e proprio quelle volte, conoscendomi, avevo accettato dall’editore una somma fissa, non proporzionale alle vendite.
Questo mi secca un poco, o lettore egregio. Non si offenda: preferirei il gregge, e che fosse numeroso, per via dei diritti d’autore. Infatti, scrivo per denaro, essendo lo scrivere il più faticoso dei lavori manuali. Quando ero giovane e quindi idealista perdonabile, non capivo la massima del dottor Johnson (intendo Samuel Johnson): «Nessuno che non sia uno stupido ha mai scritto un rigo se non per denaro». Ora ne riconosco il valore. Essa, credo, si applica mutatis mutandis agli editori, servitori della cultura purché la cultura paghi.
Io non mi offro, per pudore e per pigrizia. Eppure qualcuno mi cerca. Forse per l’editore è come comprare un biglietto della lotteria o puntare sul brocco sperando nel miracolo. Talvolta, quando sogno bello, mi crogiolo nell’illusione che gli editori siano tutti dei gran truffatori e mi abbiano fin qui mentito, nascondendomi i trionfi di mercato della mia «produzione letteraria». Magari fosse così. Ma temo che non vi siano abbastanza truffatori nemmeno nel settore della carta stampata, settore sulla cui economia, d’altronde, so poco o nulla, da buon economista teorico.
Mi è quasi indifferente scrivere pro o contro la solidarietà, sebbene a scriverne contro mi annoi meno. Ormai la solidarietà ha ricevuto tutto l’incenso che merita e un tantino di più, e qualche lettore egregio comincia a sentire il bisogno di cambiar profumo, per evitare il voltastomaco. Qualche ·stravagante che compra il libro, anzi il libercolo, si troverà, magari per sbaglio. E se costui, puta caso, inaugurasse una nuova moda... Esser fuori del gregge è il posto migliore per guidare il gregge, e quando il gregge diventasse antisolidarista, ossia quando l’antisolidarismo diventasse un affare editoriale, allora subentrerebbero i campioni, quelli dei primi posti nelle classifiche dei librai, ovvero nelle classifiche dei gusti del gregge.
Mah. Queste son mie fantasie. Mi è imperscrutabile, purtroppo, il club degli autori di best-seller, che non frequento, ma che invidio a distanza di centinaia di milioni di lire. Il divo Indro, da saggio padre putativo, non mi dà consigli, e non escludo che, per non restare disilluso, eviti di leggere gli articoli che gli mando e che pubblica sul giornale di cui è direttore. Cesare Marchi, l’unico altro amico che rientrasse in quella élite dei best-seller, era voglioso di aiutarmi (ecco la solidarietà) e mi spiegò l’importanza dei titoli. Egli aveva sfondato con Impariamo l’italiano (dieci o venti edizioni). Mi suggerì di provare con Impariamo l’economia, ma non avevamo tenuto conto della naturale ripugnanza che, non per mia colpa, solleva nei più la cosiddetta scienza economica, la dismal science. La Rizzoli e io non abbiamo nemmeno preso in considerazione, adesso, Impariamo l’antisolidarismo.
Personalmente penso che l’antisolidarismo, o egoismo che dir si voglia, non abbia alcun bisogno di essere imparato. Esso è noto in modo spontaneo a vaste popolazioni e praticato con profitto, senza ammetterlo. Non credo che il mio pamphlet susciterebbe scandalo se inducesse qualcuno ad ammettere il suo egoismo e a vantarsene. Oggi ci vuole ben altro per scandalizzare. Ma credo che in ogni caso passerei per amorale o immorale, per velleitario corruttore sia pure al minuto e non all’ingrosso. Poco male, da quando i teologi più evoluti garantiscono che l’inferno non esiste. Non di meno ci tengo a precisare che quei giudizi sarebbero scorretti, contro le apparenze.
Non ce l’ho in via specifica con la solidarietà: potrei esaltarne i meriti anziché i difetti, o meglio potrei fare l’una e l’altra cosa in successione. Due libercoli, due compensi. Attento, lettore, a non chiamarmi venale e senza coscienza. Venale sì, per sbarcare il lunario, ma non senza coscienza. Mi vendo, vendo la mia penna (questo è lavorare per gli altri), ma non ho mai tracciato un rigo che non si accordasse con le opinioni e i sentimenti miei del momento. Sì, d’accordo, l’avrò tracciato talvolta, il rigo infame, per disattenzione, per galanteria, per il galateo, che è l’apoteosi della menzogna; insomma per futili motivi. Mai per motivi migliori, se la memoria non m’inganna.
Nella mia stessa persona convivono, a dosi variabili, il solidarista e l’antisolidarista, non perché sono senza coscienza: al contrario perché ne ho due e vorrei averne di più. Esse non sono mai sovrabbondanti. Con due coscienze cerco di vedere il rovescio di ogni medaglia, e bene o male ci riesco se non mi arrabbio troppo e perdo il lume degli occhi. Qualcuno sosterrà che sono un tardo e modesto imitatore dei sofisti, i quali scandalizzarono l’Atene del V secolo, prima facendosi pagare palesemente, secondo me contro la stupida, antisindacale e insincera abitudine dei filosofi precedenti di lavorare gratis; poi confrontando una opinione alle altre, la tesi all’antitesi, il discorso alla discorsa, il logos alla loghina, e ricorrendo, in pro della confutazione, al discorso doppio, al paradosso, all’antilogia, alla dialettica.
Si sa che i sofisti, a cominciare da Protagora di Abdera, incontrarono l’ostilità degli uomini tutti di un pezzo, dei fissati, monomaniaci, monocrati, fanatici, sedicenti depositari della verità unica e assoluta, manichei per i quali esistono solo il bianco e nero, o addirittura solo il bianco o il nero, non lo sfumato, non il grigio, non gli infiniti grigi deliziosi alla vista. Col passare del tempo, ahimè, «sofista» divenne sinonimo di cavillatore truffaldino; «sofistico» è un pedante rompiscatole; «sofisma» vale ragionamento capzioso; «sofisticazione» significa addirittura adulterare un prodotto.
Torniamo all’origine, per favore. La mia filosofia è da quattro soldi, ma è l’illustre Popper, dietro le cui spalle mi riparo, che firma l’elogio dei sofisti e di Protagora, l’ispiratore di Pericle e il primo teorico della società aperta; è Popper che conduce l’accusa contro l’antisofista e totalitario Platone, il principale responsabile della degenerazione semantica del vocabolario proprio alla sofistica. Lo so: davvero insieme al vocabolario degenerarono anche alcuni sofisti inferiori alla media come moralità; e c’è inoltre chi sostiene che Popper capì nulla di Platone. I sofisti degenerati insegnarono ai demagoghi i trucchi verbali per imbrogliare la gente; ma i sofisti onesti insegnarono, tentarono di insegnare, alla gente come difendersi dai trucchi verbali dei demagoghi. Fatica sprecata, ma benemerita. Quanto a Platone, è proprio la sofistica, quella genuina, a dirci che le critiche unilaterali di Popper al grand’uomo non esauriscono il tema, e che è bene criticare le critiche, e le critiche alle critiche.
Dopo questo, voglio aggiungere che l’immaginaria Repubblica di Platone, condotta da filosofi, mi inquieta più di una reale Repubblica italiana, condotta da concussionari. Col che dimostro di passaggio che ho delle preferenze e perfino delle convinzioni: questo e quello per me pari non sono. Ho la fastidiosa sensazione che i filosofi secondo Platone siano esclusivamente coloro che la pensano come lui, uomo tutto di un pezzo: ai sofisti, che non la pensano come lui, spetta dunque una fine non divertente, in quella sua Repubblica perfetta. Come minimo non devono aprir bocca, ciò che per i sofisti è come una condanna a morte; al massimo c’è l’aprir bocca esclusivamente per il taglio della lingua. I concussionari, invece e per fortuna, non sono uomini tutti di un pezzo, anzi sono generalmente accomodanti, si contentano del nostro denaro. Mi appello di nuovo all’intelligenza del lettore: non sto elogiando la concussione. Nel mio piccolo non l’ho mai esercitata. Non ho mai venduto una promozione nell’università statale dove insegno, nemmeno alle studentesse più seducenti. Caso mai, regalo. Mi limito a sostenere ragionevolmente che, al taglio della lingua, preferisco subire una concussione per denaro. Sto divagando? No, giacché i solidaristi accaniti sono di frequente essi pure uomini tutti di un pezzo (in apparenza), e io sto scrivendo un pamphlet che potrebbe offenderli.
Vi sono tempi, come l’epoca della Rivoluzione francese, nei quali trionfa la solidarietà, o la fratellanza secondo il lessico preferito allora, e diventa pericoloso non partecipare vistosamente al trionfo:
I periodi rivoluzionari non fanno regola. E sia. Ma nel 1928, quando G.B. Shaw, socialista e quindi solidarista per logica, pubblica The Intelligent Woman’s Guide to Socialism and Capitalism, non una rivoluzione, ma la sincerità e la sicumera del «superuomo» lo indussero a confessare la sua voglia di stragi: «detesto i poveri e attendo ardentemente l’ora del loro sterminio. Ho un po’ più di compassione per i ricchi, ma sono egualmente disposto a vederli sterminati». La sua solidarietà non mancava, ma la più calda andava a Mussolini, Hitler e Stalin.
Una pazzia innocua? Nell’Inghilterra di Shaw non vi furono stragi, malgrado Shaw. Nell’Italia attuale non corro alcun rischio, benché qualche cruento matto solidarista ci sia anche qui. Apprezzo comunque il gesto dell’editore, che mostra interesse alla mia incolumità. Interpreto cosi la sua spontanea decisione di ridurre il grado di offensività del titolo del pamphlet: dall’originale e secco Contro la solidarietà all’effettivo e abboccato I pericoli della solidarietà. Questa, caro lettore, è la piccola storia della gestazione del libercolo che tiene fra le mani (lo tiene ancora?). A Sterne occorsero un duecento pagine per arrivare alla nascita, non più in là, del suo eroe Tristram Shandy, a me mezza dozzina di pagine di introduzione stanno già larghe, e scommetto anche a lei, lettore.
Lettera 2
A una sconosciuta triste
Signora o signorina,
non so il suo nome, ma vorrei chiamarla Alba, se non le dispiacesse. Non ci conosciamo, eppure c’incontrammo per diversi mesi d’autunno e d’inverno, un anno piovoso ormai remoto. C’incontrammo ogni giorno feriale, all’incirca nello stesso posto, dove, sempre lì, i nostri orari di lavoro e la nostra abitualità incrociavano i cammini, all’angolo tra due vie di un quartiere medio borghese e vecchio art nouveau, del quale a poco a poco avevamo imparato la vita al risveglio quotidiano, verso le otto del mattino. Bisogna andare a piedi per «vedere», notare le cose anche piccole, mai insignificanti, e dare un volto alla gente.
Vi sono scrittori, come Pessoa, che sanno trasformare in arte la descrizione dell’«aria» di un quartiere e degli incontri fuggevoli di sconosciuti sul marciapiede. Perché sconosciuti si rimane, sebbene passino e ripassino le medesime facce, fino al giorno in cui misteriosamente non ripassano più: «Il vecchio anonimo dalle ghette sporche che mi incrociava quasi sempre alle nove e mezzo del mattino? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza successo? Il vecchietto tondo e rubizzo, col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria? Il pallido tabaccaio? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita? Domani anch’io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch’io... sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un «che ne sarà stato di lui?». E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi».
Beh, non essendo io Pessoa, dirò senz’arte i miei ricordi di quel tempo di incontri in una Torino ai nostri fini non diversa da Lisbona. Era per me un tempo di disperazione. Inutile rivelarne i motivi. Era come se la disperazione mi pesasse sul capo e mi costringesse a tenere gli occhi bassi; insomma, guardavo più verso terra che verso il cielo. Il che non mancava di qualche lato buono: raccolsi molte informazioni sulla varietà di forme e di scopi dei chiusini di città, tanto da poterne fare uno studio, all’occorrenza, e soprattutto raccolsi una quantità di monete spicciole e perfino qualche biglietto da mille, perduti da chissà chi, caduti da chissà quali tasche o portafogli.
Ma la disperazione rimaneva, e la scorsi di sfuggita simile alla mia anche sul suo piccolo viso, donna sconosciuta delle ore otto. Anche lei camminava frettolosa a testa china, isolata nel suo dolore, gli occhi stanchi già di mattina (notti insonni?), che il trucco serio da impiegata di avvocato o di notaio non riusciva a curare. «Se a ciascun l’interno affanno / si leggesse in fronte scritto...» Ma si legge, si legge, se l’osservatore e l’osservata hanno il medesimo stato d’animo. Divenni il suo osservatore obliquo, per timidezza. Più giovane di me, senza essere giovanissima, lei conservava una bellezza, che il dolore rendeva più fragile e preziosa, purificata di ogni volgarità. C’erano tutti gli elementi perché mi sentissi affascinato dal suo segreto, desideroso di svelarlo, di svelarle il mio, desideroso di offrirle quella solidarietà fra infelici, che dovrebbe essere la più facile.
Sì, la più facile... In primo luogo, chi mi dava il coraggio di fermarla? In secondo luogo, come avrebbe lei reagito se uno sconosciuto qual ero l’avesse fermata e svegliata dai suoi pensieri? Come avrebbe inteso una offerta di solidarietà, farfugliata lì sul crocicchio con le mani nelle tasche del cappotto, o peggio con le mie mani a cercare le sue? Chi sarei stato per lei? Un matto, uno scippatore, un molestatore sessuale, tutto fuorché un solidarista. Probabilmente mi sarebbe arrivato un ceffone sulla guancia. E se mia moglie (sono ammogliato) avesse assistito alla scena equivoca, avrebbe preteso che offrissi evangelicamente l’altra guancia per un secondo ceffone. E se io intrattenessi un’amante in quel quartiere, o se l’intrattenesse lei, Alba, mi occorrerebbe una terza guancia per un terzo ceffone.
Si dimentica facilmente che la solidarietà esige un patto anticipato tra almeno due persone, chi la propone e chi l’accetta. In questo la solidarietà non è distante dall’amicizia e dall’amore. Quando Marx, per nostra disgrazia, si mise in mente di guarirci di tutti i mali, cadde in tre errori, e il primo, grave, fu di non chiederci se eravamo d’accordo. Il secondo, veniale, fu di sbagliare la teoria del valore economico. Esiste un terzo errore di cui poco si parla: egli cincischiò a proposito dei mali peggiori, che secondo i non bugiardi romanzi di appendice sono l’amore non ricambiato e la morte (il colmo dunque è la morte per amore non ricambiato). Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’ancor romantico e già enciclopedico Marx, appena ventiseienne, dà segno di badare (anche) ai romanzi d’appendice e scrive: «Quando tu ami senza provocare amore, cioè quando il tuo amore come amore non produce amore reciproco, e attraverso la tua manifestazione di vita, di uomo che ama, non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è una sventura». Si può dire contorcendosi meno, ma è vero. Il Manifesto del 1848 rifiuta sdegnato la soluzione della «comunanza delle donne», che caso mai sarebbe una pratica da borghesi, i quali, «non contenti di avere a loro disposizione, oltre la prostituzione, le mogli e le figlie dei proletari, trovano un vero diletto nel sedursi le mogli scambievolmente». Lasciamo stare che Marx sedusse la serva e non ne riconobbe il conseguente figlio naturale. Immaginiamo, per pura ipotesi, che i nostri, cara signora o signorina Alba, fossero crucci amorosi. Le religioni della fratellanza universale, di cui il marxismo è una variante, ci consigliano di rinunciare alla persona amata per amore della persona amata. Sublimazione dell’egoismo in altruismo. Ma mi dica la verità: lei, dopo, si sentirebbe meglio? Io no. E perché a sublimare non è la ...