PARTE PRIMA
Le organizzazioni criminali
ENZO CICONTE FRANCESCO FORGIONE ISAIA SALES
Le ragioni di un successo
Mafia e Sicilia sono due nomi indissolubilmente legati a partire dai primi anni dell’Unità d’Italia, da quando, pronunciata per la prima volta la parola mafia in una rappresentazione teatrale, essa fece il suo ingresso in un documento ufficiale a firma del prefetto di Palermo Antonio Filippo Gualterio. Era il 25 aprile 1865.
Quell’isola, con le sue caratteristiche, con la sua storia, ha prodotto ciò che è conosciuto universalmente con il nome di mafia, e quel marchio le è rimasto scolpito come una pervicace e quasi esclusiva identità. Da lì, poi, da quella piccola isola del Mediterraneo, la mafia avrebbe conquistato nientemeno che gli Stati Uniti d’America, il cuore cioè del capitalismo mondiale, una delle più grandi e ricche società industriali dell’Occidente, esportata come un tragico dono dei suoi emigranti; in seguito si sarebbe riprodotta in altre parti del Sud d’Italia e del mondo, infine nell’epoca contemporanea in alcune regioni del ricco Nord del Paese.
In questa identificazione tra mafia e Sicilia a volte, tra gli storici e gli studiosi del fenomeno, balena una convinzione di unicità, di specificità, quasi a dire che ciò che si è condensato nel significato di mafia sarebbe incomprensibile senza la Sicilia e la sua storia; insomma che non ci sarebbe stata, e non ci sarebbe, mafia senza la Sicilia, senza i siciliani e senza ciò che lì è avvenuto tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento.
Stanno proprio così le cose? Se un fenomeno, nato in Sicilia nell’Ottocento, ha avuto una così lunga durata, affrancandosi dalle condizioni storiche e territoriali che ne resero possibile la sua originaria espansione e proiettandosi così agevolmente nella modernità (divenendo un modello vincente per tutte le violenze private del mondo), è utile continuare a descriverlo come un originale ed esclusivo prodotto siciliano?
Con questa introduzione proviamo a mettere in discussione il paradigma interpretativo dell’esclusività della Sicilia nella produzione di ciò che comunemente definiamo mafia. Innanzitutto perché la mafia siciliana non è l’unico fenomeno di tipo mafioso prodotto dalla storia italiana e meridionale.
È sicuramente quello più conosciuto e studiato, anche perché si è installato e radicato negli Stati Uniti d’America e ciò ha avuto un grande impatto sulla opinione pubblica mondiale. Ma contemporaneamente alla nascita e allo sviluppo della mafia in Sicilia, in altre due regioni meridionali, anch’esse governate prima dell’Unità d’Italia dallo stesso regime politico e istituzionale, quello dei Borbone, si sviluppavano fenomeni similari che hanno conosciuto poi la stessa lunga durata storica.
Tre fenomeni con le stesse caratteristiche e nello stesso frangente storico si sviluppano in tre aree diverse dell’Italia meridionale. E ad essi se ne aggiunge un quarto, la Sacra corona unita alla fine degli anni Settanta del Novecento in Puglia. La camorra napoletana addirittura nasce prima della mafia siciliana e a suo modo la influenza attraverso il suo statuto (già in vigore nel 1842) e il suo primato nel controllo delle carceri borboniche.
Dunque, la camorra può vantare rispetto alla mafia siciliana una primogenitura nel campo delle criminalità italiane che hanno conosciuto un così eclatante successo di potere, di consenso e di durata. E che dire della ’ndrangheta, che non è nata proprio ieri, e che oggi – nell’avvio del nuovo secolo – è la mafia con più capacità di espansione nel Nord d’Italia e nel mondo?
Se tre fenomeni criminali sono coevi, nascono e si consolidano sotto lo stesso regime politico preunitario, e si affermano oltre ogni previsione a partire dall’Unità d’Italia in poi, forse è il caso di guardare all’insieme delle comuni circostanze storiche alla base della loro origine e del loro successo. L’impressione è che si tratti di un comune modello vincente, che definiamo appunto «modello mafioso», più interessante da analizzare delle specifiche e indubbie differenze tra le tre mafie.
Si può e si deve parlare di una storia unitaria delle tre grandi criminalità di tipo mafioso in Italia. Certo, ogni organizzazione criminale ha una sua singolarità, un nome proprio, una identità ben precisa, un autonomo svolgimento: nasce e prospera in un determinato ambiente storico, economico, sociale, culturale e politico. Insomma, ogni criminalità ha una sua singolarità. E tuttavia è facile notare come tra i diversi agglomerati criminali molti sono i punti di contatto, i nessi, le interconnessioni, le similitudini. Perciò parleremo della comune influenza della criminalità di tipo mafioso sulla storia italiana.
Inoltre, oggi in varie parti del pianeta, e non nelle nazioni economicamente e civilmente più arretrate, svariati fenomeni criminali stanno riscuotendo un successo sociale, economico e politico analogo a quello conosciuto nel tempo dalle tre mafie italiane, pur non avendo alle spalle un’origine ottocentesca, né un analogo pedigree storico, ma rivestendo tutte le caratteristiche della contemporaneità.
Ci sarà un motivo non banale se tutte le criminalità che hanno un successo durevole nel tempo, all’interno di società e Stati moderni, vengono definite mafie? Ecco, noi intendiamo con questa opera rispondere alle seguenti domande: come mai contemporaneamente in tre regioni meridionali, di sicuro tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento, si sono prodotti fenomeni sociali (prima che criminali) similari che pur assumendo nomi diversi, pur avendo avuto un diverso impatto con la storia dei rispettivi territori, pur essendosi intrecciati diversamente con la storia sociale, politica ed economica delle singole regioni di appartenenza e dell’Italia, possiamo allo stesso modo definire fenomeni di tipo mafioso?
In questa ottica ciò che si presenta sulla scena della storia meridionale e italiana nella prima metà dell’Ottocento, che si consolida soprattutto dopo l’Unità della nazione nella seconda metà dell’Ottocento e che conosce, poi, un successo negli Usa nella prima metà del Novecento e un successo planetario nella seconda, lo si deve analizzare al di là delle indubbie connessioni con lo specifico siciliano. Se forme criminali che definiamo di tipo mafioso per delle caratteristiche comuni (caratteristiche che dopo nei dettagli analizzeremo) si presentano sulla scena della storia nello stesso periodo, sotto lo stesso regime e prosperano allo stesso modo sotto qualsiasi forma di governo succedutosi dall’Unità d’Italia in poi, e se due di esse (la camorra e la ’ndrangheta, non studiate e analizzate come la mafia siciliana, anzi nel tempo totalmente sottovalutate) sembrano oggi surclassare per potenza, consenso ed espansione quella siciliana, forse è venuto il momento di non trattare singolarmente i suddetti fenomeni in rapporto solo al loro territorio di nascita e di insediamento, e accettare invece la sfida di una definizione di mafia in un senso più ampio del rapporto con la sola Sicilia. E capire allo stesso modo perché dovunque nel mondo una criminalità si insedi stabilmente all’interno di singole nazioni, si usa il termine mafia per segnalarne la forza e la capacità di consenso.
Insomma, perché un fenomeno nato e localizzato nel Mezzogiorno è diventato un fenomeno di successo nazionale e mondiale? In che consiste il modello mafioso? Una risposta a queste domande ci sembra più urgente delle specifiche e indubbie differenze tra ciò che chiamiamo mafie. In definitiva, quello mafioso si è dimostrato un modello riproducibile nel tempo e non specifico del solo Mezzogiorno d’Italia. Perciò useremo spesso il termine mafie al plurale, insieme al singolare mafia, per dare conto di questo successo mondiale di un modello nato sì nell’Italia meridionale del XIX secolo ma diventato poi un modello di successo della violenza privata nell’economia globalizzata.
VIOLENZA DI INTEGRAZIONE
Noi proviamo a partire dalle considerazioni del Prefetto di Girgenti (Agrigento) nel 1874: «Tutti fanno delle esposizioni più o meno esatte, più o meno comprensibili sulla condizione e sugli intendimenti della maffia ma nessuno sa propriamente definirla». Mafia – allora si usava scriverla con la doppia f – è un certo potere violento di controllo continuativo su persone e attività in uno spazio determinato. Mafia è violenza minacciata e messa in atto, che si fa potere territoriale per riconoscimento aperto o velato degli stessi che dovrebbero reprimerla.
Mafia è violenza strategica, non sempre brutale, basata sull’accorto bilanciamento del suo uso e della sua minaccia. Chi definiamo mafioso deve saper usare la violenza quando serve al momento opportuno, il che non vuol dire che la usi quotidianamente e in tutte le circostanze del proprio agire; deve poter fare affari anche senza usarla, ma il ruolo rivestito nel mondo degli affari gli è dato non tanto dalle proprie capacità imprenditoriali ma dall’uso possibile della violenza.
La violenza, dunque, nella mafia ha un valore programmatico e strategico, non è occasionale devianza. Il delitto, insomma, è parte essenziale di un governo degli interessi di un territorio, obbedisce a una strategia di controllo e di esercizio del potere, non è animalesca dimostrazione di coraggio e baldanza. Mafia è un potere a carattere privato parallelo a quello ufficiale: parallelo, non alternativo. Essa non è un esercito che occupa un territorio con le armi, anche se ha a sua disposizione migliaia di affiliati che le sanno ben usare. Come si è potuto affermare un potere privato violento per così tanti anni senza determinare una emarginazione per coloro che lo esercitavano, ma addirittura una legittimazione diretta o indiretta da parte dei rappresentanti delle Istituzioni, è il fascino e il mistero delle mafie, ed è ciò che le rende diverse dalle semplici bande di criminali.
Indubbiamente mafia è la parola italiana più conosciuta al mondo. È una parola che ha avuto un successo planetario esattamente perché con essa si dice di un particolare tipo di criminalità che ha riscosso un successo plurisecolare. È noto che operano ormai da tempo a livello mondiale vari gruppi criminali variamente assimilabili al modello mafioso, e che vengono definiti con il sostantivo mafia accompagnato dall’aggettivo del loro luogo o nazione di insediamento.
Molti studiosi si chiedono se sono corrette tali definizioni. Sull’argomento è di estremo interesse quanto scriveva Giovanni Falcone:
È opinione diffusa che il modello criminale della mafia sia connotato da caratteristiche condizionate dall’ambiente e non possa essere trapiantato in situazioni sociali differenti. Questa opinione è giusta ma non sufficiente, perché bisogna ancora chiedersi se la criminalità mafiosa, una volta depurata da quegli aspetti che sono troppo specifici per poter essere riprodotti altrove, possa prender piede al di fuori dell’Italia. Se si formula il problema in questo modo si capisce subito che si tratta di un problema apparente, perché nello spettro della criminalità internazionale le organizzazioni più importanti – anch’esse depurate dei loro caratteri specifici – presentano dei caratteri che sono analoghi a quelli della mafia. Organizzazioni come le Triadi cinesi, la cosiddetta mafia turca e la yakuza giapponese presentano tutte una flessibilità che consente loro il passaggio in brevissimo tempo a qualsiasi tipo di attività illecita. Per raggiungere i loro scopi tutte queste organizzazioni dispongono di considerevoli mezzi finanziari, ricorrono all’uso della violenza e tentano con tutti i mezzi di assicurarsi l’inerzia della polizia e dell’autorità giudiziaria.
È del tutto evidente che la fortuna della parola mafia è andata sicuramente a discapito del rigore del suo uso. Ma sta di fatto che il termine mafia è oggi un termine della globalizzazione e indica il peso che nei suoi equilibri sta conquistando la violenza privata organizzata. Il successo della parola sta dunque tutto nel suo significato: la violenza privata ha spazio e ruolo nel mondo globalizzato. Hanno, cioè, successo quelle criminalità organizzate che riescono a integrarsi nella società in cui operano fino a esserne una delle forme di regolazione.
La violenza privata può regolare il corpo sociale di vasti territori? La mafia ha dimostrato di sì. Infatti, diversamente dalle opinioni comuni e da quanto viene insegnato nelle scuole e nelle università, l’uso permanente della violenza su di un territorio non separa, non isola, non esclude dalle relazioni sociali, ma dà potere permanente e duraturo e soprattutto «integra». Perché il significato di mafia oggi nel mondo è proprio questo: violenza di regolazione sociale, di relazione e di integrazione.
La violenza non è un fat...