1 - Un debito d’onore
Osip Mandel’štam
Tel Aviv ha assunto l’aspetto di una Costa Azzurra, sia pure in chiave spartana, con le sue folle pittoresche e ridenti che la sera sciamano sui lungomari e tra i caffè di via Dizengoff. Eppure è un’illusione, perché è un brutto vivere quello di Israele. Sono in pochi a essere autorizzati a parlare a nome del dramma israeliano, e quei pochi abitano là in quella Masada moderna, si confrontano ogni giorno e ogni notte col tema semplice ed essenziale della sopravvivenza.
Israele non è mai diventato formalmente Repubblica: è rimasto Stato, quasi a rispecchiare la tragica provvisorietà del suo destino di democrazia tormentata e di costruzione statale unica al mondo, che vive contro le leggi della logica, della storia e della forza. Israele è un paradosso, e la prova che la fede muove le montagne.
Israele è l’unico Stato al mondo che sente sulla nuca il fiato caldo di un nemico fanatico, che non ha paura di morire, giorno e notte, da settant’anni. In Israele si ha sempre il timore di essere addentati e scannati d’un tratto, all’improvviso. Come ha detto l’ex capo di stato maggiore israeliano Ehud Barak, «Israele può essere distrutto in un giorno».
Eppure è lo Stato al mondo non soltanto più povero di amici, ma anche più ricco di nemici che vorrebbero trasformarlo in un brutto ricordo. Un mondo pieno di chi si limiterebbe a dire «ohibò» il giorno in cui Israele dovesse soccombere.
Da dove è sorto questo nuovo antisemitismo? Come è arrivata l’opinione pubblica internazionale a considerare Israele come la sentina di tutti i mali? Una bugia, ripetuta molte volte, finisce per diventare verità. Questa affermazione, attribuita al ministro per la propaganda nazista Goebbels, non è mai stata vera quanto oggi.
Di bugie, su Israele, se ne dicono e scrivono tante. Il terreno che le accoglie è sempre fertile e una bugia ben radicata diventa una quercia. È così, come spiega lo storico dell’Olocausto Daniel Goldhagen nel suo libro The devil that never dies, che oggi «200 milioni di europei vedono lo Stato d’Israele come simil nazista».
È questo che sembra dire la brava gente antisemita: «O Israele, gusta quel fiele della morte che tu volevi dare ai palestinesi! Bevi dalla tazza avvelenata che per tanti anni hai accostato alle loro labbra! La tua fine è prossima, i palestinesi hanno deciso di mandarti i loro eroi, i figli dell’Islam. Ed essi purificheranno il suolo della Palestina. Perciò preparati, Israele, spargi le tue lacrime, lamentati e urla perché ecco che si avvicina il giorno del tuo sterminio». È come se a settant’anni dalla Shoah il sangue degli ebrei non si sia ancora asciugato.
Il mondo arabo islamico, e con esso grandi segmenti dell’opinione pubblica internazionale, sta ancora tentando di sommergere la piccola isola ebrea formatasi nel suo sconfinato oceano, incapace di volgersi verso un futuro dove sia presente lo Stato d’Israele. È una specie di ipnosi: distruggere Israele, costi quel che costi. E anche in Occidente si vive e si vibra al pensiero di ghermire per la gola Israele e annegarlo nel Mediterraneo.
Non si può non guardare con grande pena ai bambini palestinesi vittime della guerra con le piccole facce splendenti. Ma la nostra empatia deve anche infrangersi sulla mostruosità dell’uso che è stato fatto delle loro vite nella guerra a Israele, di come si mandano a morire, di come si insegna loro a odiare, di come le loro mamme si dichiarano fiere dei loro «martiri». La solidarietà umana non deve mai nascondere la verità. Soltanto questa aiuta a risolvere i conflitti; invece vola nell’aria, specie a opera dell’Europa, una grande, fatale menzogna. Per questo per Israele bisogna continuare a emozionarsi e stringersi, perché la sua sicurezza è un debito d’onore per tutti gli uomini.
Perché nel suo rifiuto e nel suo boicottaggio, in questo nuovo pilatismo, dove c’è più odore di petrolio, di giochi di potenza, di pregiudizi che di moralità, si esprime lo spirito avvilente di mortificazione dei grandi valori storici e morali di cui l’Europa, e con essa Israele, è stata portatrice.
Lo stato ebraico merita l’incondizionata ammirazione di ogni popolo civile. Invece, i nemici oggi sono più forti e gli amici sono sempre più avari di amicizia. Israele è abbandonato alla sua sorte, solo contro tutti. E anche il tempo lavora contro di lui.
Il progressivo isolamento di Israele nelle sedi internazionali ha fatto sì che la cultura dei diritti fondata dall’ebraismo sia oggi usata contro gli stessi ebrei, dalla Convenzione di Ginevra alle accuse di “crimini contro l’umanità”. La Corte internazionale dell’Aia ha aperto un’inchiesta su Gaza che potrebbe trascinare Israele sul banco degli imputati1. La proverbiale lentezza e miopia dei magistrati dell’Aia svanisce non appena si tratta dello stato ebraico (la Corte ha già condannato Gerusalemme per aver eretto un muro di difesa dagli attacchi terroristici2).
Israele è una nuova Venezia, quando nel 1571 l’ignavia dell’Europa e l’alleanza fra la Francia e il sultano aprirono con la sua caduta la marcia degli ottomani su Vienna. Era un intero mondo quello che si sbriciolava e andava in rovina sotto le cannonate dell’armata ottomana. Con una differenza: Israele non è disposto a fare la fine di Marcantonio Bragadin, spellato vivo dai turchi, le orecchie e il naso tagliati dopo aver resistito undici mesi all’assedio.
L’assedio dello Stato di Israele dura dal 1948. Ogni dieci o quindici chilometri percorsi in auto lungo le maggiori arterie, è facile scorgere, più o meno lontano dalla strada, un recinto protetto da filo spinato. Qualsiasi edificio pubblico, ristorante e supermercato è protetto da guardie armate. Qualunque sia il giudizio su singoli aspetti delle istituzioni e della politica di Israele, resta il fatto che questo piccolo paese continua a combattere per la sua sopravvivenza e che i suoi nemici, sempre battuti, gli rifiutano il riconoscimento, e che rimane l’unico rifugio aperto a collettività ebraiche sempre minacciate.
Eppure oggi ci si sente più anti-imperialisti a inveire contro il sionismo, nella totale ignoranza di ciò che davvero è stato. Appoggiare i nemici di Israele a tutti i costi è il nuovo “socialismo degli idioti”, come August Bebel ebbe a definire l’antisemitismo. E sarebbe un grave errore prendere le parole dei nemici di Israele come un semplice sfogo di isterismo demagogico. Così, a suo tempo, si fece con Mussolini e con Hitler: così si lasciò, subito dopo, che Stalin confiscasse la libertà e l’indipendenza di una mezza dozzina di popoli europei. Oggi è il sogno mai spento di veder sprofondare Israele.
Lo Stato di Israele è una società che resiste al ricatto, che concentra su di sé l’odio di tutte le opinioni languide, di tutte le volontà di resa dell’occidente, convinto che lo Stato d’Israele debba essere cancellato dal Medio Oriente col sangue, non importa con quanto sangue. È una scandalosa fortezza solitaria. In Israele tutti vengono educati nelle stesse scuole, tutti fanno lo stesso servizio militare, tutti lavorano a fianco a fianco nelle fabbriche, negli uffici, nei kibbutzim, tutti imparano e parlano la stessa lingua, l’ebraico biblico. È facile in Israele visitare un importante uomo politico o un accademico di fama mondiale e scoprire che abita in un appartamento di quaranta metri quadrati, una camera da letto che di giorno si trasforma in salottino.
Aldo Capitini, oggi veneratissima icona dei pacifisti italiani, nel 1967 sosteneva che Israele avrebbe dovuto lasciare entrare gli eserciti arabi che premevano da tutti i lati, e battere gli occupanti con la non violenza. Quanti sopravviverebbero? Oggi questo sogno inconscio di veder scomparire Israele anima grandi segmenti dell’opinione pubblica internazionale.
Se Israele fosse invaso, il mondo assisterebbe a un genocidio di proporzioni mostruose. Questo Paese minuscolo, otto milioni di abitanti giunti dai quattro angoli della terra a costruire una sorta di enclave illuminata in un mare islamico, è tutto un esercito, uomini e donne, giovani e anziani. E la “Yeshuv”, la comunità di Terra Santa, si trova ancora a dover sostenere la lotta più spietata e aspra. È la grande paura, la coscienza quasi ossessiva d’un pericolo reale alimentata dai ricordi d’un vicino e tragico passato. Israele è un piccolo popolo su un piccolo territorio, e ha quasi tutto il mondo contro di lui.
Tutti oggi cedono: perché gli ebrei no? Lo slogan del 1940, «Londra può resistere» può essere applicato soltanto a Israele, oggi, nel 2015.
1 - Court look into possible Israeli war crimes, «New York Times», 16 gennaio 2015.
2 - International Court rules against Israel’s wall, «The Guardian», 9 luglio 2004.
2 - Il censimento delle coscienze
Durante la Guerra dei sei giorni nel 1967, Giovanni Spadolini, uno dei pochi autentici amici di Israele nella politica italiana di quegli anni, scrisse che attorno al destino del popolo d’Israele si sarebbe consumato «il censimento delle coscienze»1. «Lo spartiacque della lotta di sopravvivenza del popolo ebraico divise il mondo come rare volte era accaduto dopo la violenza hitleriana».
Da una parte si ritrovarono coloro che esaltavano, o giustificavano, o anche soltanto scusavano l’Egitto di Nasser; dall’altra coloro che condannavano il sogno macabro e megalomane del panarabismo e rifiutavano di assumere un atteggiamento di equidistanza rispetto a fatti tali da investire le radici stesse della vita e della civiltà moderne, e da chiamare in causa i principi essenziali di umanità e di libertà, ovvero la nascita e la sopravvivenza di Israele.
Oggi sembra impossibile quanto accadde in Italia in quel lontano 1967. Durante la Guerra dei sei giorni, dall’Italia partirono decine di volontari, ebrei e non ebrei, anche cattolici, alla volta di Israele. Volevano prestare servizio civile per aiutare il piccolo Paese minacciato di sterminio. Le richieste e le offerte da tutta Italia giunsero ininterrotte all’ambasciata israeliana, alle comunità ebraiche, all’Agenzia Ebraica, al Keren Hayesod. Un industriale piemontese, che chiese di restare anonimo, donò un milione di lire. Arrivarono denaro, medicinali, attrezzature sanitarie, scatole di cibo raccolti. Anche il sindaco di Torino, Giuseppe Grosso, inviò la propria solidarietà. E a Roma, donna Francesca de Gasperi2, moglie del grande statista democristiano, organizzò una raccolta di sangue e fondi da inviare a Israele. Di fronte alla sinagoga di Roma non c’era alcun pudore nel ringraziare Israele e il cielo per «la liberazione di Gerusalemme» dopo venti secoli.
Fu il 1967 lo spartiacque anche nella comunità di intellettuali, politici, scrittori e giornalisti. In gioco, scriveva Spadolini, c’era «la solidarietà verso il piccolo e martoriato Paese che si difendeva in casa sua, contro la minaccia di soffocamento dell’accesso al mare». Il filosofo francese Raymond Aron lo disse così: «Tutto ricomincia. Non la persecuzione; solo la malevolenza. Non il tempo del disprezzo; però il tempo del sospetto».
Due anni dopo, nell’estate del 1969, in Europa già ci fu la prima manifestazione di quest’odio nuovo, irrazionale, violento e assillante nei confronti di Israele. Una dimostrazione antisemita, paragonabile soltanto a quelle degli anni che precedettero il nazismo, si svolse nell’aula magna dell’Università di Francoforte. Era in programma una conferenza dell’ambasciatore d’Israele a Bonn, Asher Ben-Natan, un ebreo austriaco che per primo aveva dovuto rappresentare Israele sul suolo tedesco. Doveva intervenire sul tema Pace in Oriente3, ma gli venne impedito di parlare.
Duemila studenti e appartenenti al Fronte di Liberazione palestinese si unirono, insultando e fischiando l’ambasciatore. Le manifestazioni di intolleranza cominciarono già all’arrivo di Ben-Natan. Quando il diplomatico entrò nella sala, gran parte dei giovani lo accolse fischiando e agitando cartelli con scritte come «abbasso l’occupazione», «sionisti fuori dalla Palestina», «nazisti via dalla Germania». Quando l’ambasciatore prese la parola, successe il putiferio. Fischi, grida, un ininterrotto battere ritmico delle mani e dei piedi, rumore di trombette e raganelle superarono la voce dell’oratore.
Per tre volte, tra la fine di giugno e i primi di luglio di quell’anno, gruppi di studenti impedirono a Ben-Natan di parlare nelle Università di Francoforte, di Amburgo e di Norimberga. Le stesse Università dove gli ideologhi del nazismo avevano declamato la necessità di liberarsi degli ebrei per il bene della Germania. In un momento di calma relativa, l’ambasciatore di Israele riuscì a pronunciare una sola frase: «Se riuscirete a impedire la discussione odierna, ciò sarà un avvenimento storico. La medesima cosa è infatti avvenuta in Germania esattamente 34 anni fa».
Da allora, l’effetto desiderato dell’odio e dell’isolamento di Israele nell’opinione pubblica internazionale è presto ottenuto: quanti professori, giornalisti e intellettuali oggi hanno il coraggio e l’onestà di alzarsi in piedi e di stare dalla parte di Israele? Codardia, menzogne e odio dominano il mondo culturale occidentale.
Ai governi arabo-islamici si perdona tutto: la polizia organizzata da ex criminali di guerra nazisti, le forche di ebrei a Bagdad, le stragi di curdi e neri sudanesi, il nazionalismo fanatico, la distruzione del cristianesimo di San Paolo e degli antichi patrimoni dell’umanità. Contro Israele, invece, non occorre neppure portare delle accuse fondate, basta indicarlo come odioso, per poi attribuirgli, ricorrendo alla superstizione, di essere la fonte di ogni male, di essere diventata una fortezza da Deserto dei Tartari, e non la patria dell’umanità.
E così lo Stato d’Israele può tranquillamente essere tacciato di «imperialismo» dai governi e dalle opinioni pubbliche di tutto il mondo perché, oltre a custodire la memoria delle vittime del nazismo, si è preso anche l’obbligo morale di impedire con le armi che nessun altro Adolf Hitler, nessun movimento terroristico o nemico giurato dell’ebraismo possa far sorgere una nuova Auschwitz. Perché Israele si rifiuta di vedere i bambini ebrei come vittime, deboli e perseguitati come vorrebbe l’Occidente, mentre è sorto per difenderli. È questo il mistero di quella che Giuseppe Saragat ebbe a definire «la sopravvivenza di Israele»4 dopo la guerra dello Yom Kippur.
È invece da un giudizio prepolitico, di natura morale, esoterico quasi, imperioso e condizionante come tutti i giudizi che scaturiscono irresistibili dal fondo della coscienza, che nasce l’odio per Israele e per gli ebrei, che riprende vita il timore che l’oscuro, irrazionale, primitivo appello alla sopraffazione degli ebrei prevalga ancora una volta, contro ogni logica, contro ogni progresso. L’alba della pace per gli ebrei deve rimanere ben al di sotto dell’orizzonte.
Gli ebrei israeliani hanno restituito alla Galilea il suo splendore biblico, hanno trasformato in un giardino fiorito le pietre morte del Negev, e in forza del loro genio una delle regioni più depresse e abbandonate del mondo è diventata un paese moderno e democratico, libero, tecnologicamente avanzato.
Eppure, di Israele oggi si deve far vedere soltanto il conflitto, «il muro», i carri armati, ...