1. La rinascita dei partiti dopo la liberazione: le premesse ideologico-politiche
1. IL GOVERNO PARRI E IL PARTITO D’AZIONE
Dopo la Liberazione, gli italiani dovettero affrontare enormi problemi materiali e morali. C’erano prima di tutto le distruzioni della guerra alle quali porre rimedio. Gravissimi danni avevano subito le abitazioni dei centri urbani (più di due milioni di vani erano stati distrutti, e più di un milione gravemente danneggiati dai bombardamenti); duramente colpito era il settore agricolo, dove nel 1945 la produzione del grano, della carne, delle patate e dell’olio si era pressoché dimezzata, e quella del latte era diminuita di un quarto, rispetto al 1938; i trasporti, sia stradali che ferroviari, erano sconvolti (il 60 per cento delle strade era fuori uso, e oltre 8.000 ponti erano stati distrutti); la flotta mercantile era ridotta al 10 per cento rispetto al 1938, e le attrezzature portuali erano fuori uso per il 70 per cento; scuole, ospedali e stazioni ferroviarie erano inutilizzabili per il 40 per cento; le industrie non avevano subito danni irrimediabili, ma erano pressoché paralizzate per la mancanza di materie prime1.
I problemi morali e politici non erano minori. Il Paese era stato largamente fascista durante il ventennio mussoliniano2; nel 1944-45 si era svolta, nelle regioni settentrionali e centrali, una sanguinosa guerra civile, che ebbe, dopo il 25 aprile 1945, un seguito atroce, con migliaia di esecuzioni, al Nord, di fascisti e di presunti tali. Lo stesso Ferruccio Parri, uno dei massimi capi della Resistenza, pochi giorni prima di andare al governo, aveva rivolto per radio un appello ai partigiani, invitandoli a porre termine alle stragi: «Le esecuzioni illegali – disse – che turbano alcune città del Nord ci compromettono con gli Alleati e offendono soprattutto il nostro spirito di giustizia. È un invito preciso che vi formulo. Basta!»3. Alla paura e all’orrore per le stragi, diffusi in ampi settori della popolazione, si aggiungeva il timore della burocrazia statale e parastatale per le epurazioni che si annunciavano contro coloro che avevano avuto cariche o avevano occupato posti di qualche rilievo nella pubblica amministrazione durante il fascismo4.
Dopo la Liberazione gli italiani erano dunque più che mai divisi. Certo, una buona parte di essi era indifferente alla politica, ed era presa fondamentalmente dai problemi della sopravvivenza quotidiana, data la grave penuria di generi alimentari e di beni essenziali nelle grandi città, dove infuriava il mercato nero (una situazione solo alleviata dagli aiuti elargiti dagli Alleati nella seconda parte del 1945, e poi dagli aiuti UNRRA – a carico soprattutto degli Stati Uniti – nel periodo gennaio 1946-giugno 1947, ammontanti a circa 430 milioni di dollari). Ma nei settori della popolazione più sensibili alla politica, la divisione era profonda fra coloro che auspicavano e anzi ritenevano imminente una profonda rivoluzione, che avrebbe creato nel Paese un assetto radicalmente nuovo, di tipo socialista, e i moderati, che non auspicavano nessuna palingenesi, bensì desideravano ardentemente il ritorno alla normalità e alla sicurezza, la ripresa della vita civile sui binari tradizionali della continuità amministrativa e più generalmente sociale. Gli italiani non costituivano dunque più una nazione, se la nazione è qualcosa che rampolla, per usare la bella espressione di Ernesto Renan, da un «plebiscito quotidiano», ovvero da valori, aspirazioni, scelte comuni o comunque sentiti dalla grande maggioranza dei cittadini.
Questa divisione profonda nelle menti e negli animi degli italiani si rifletté nelle vicende del governo Parri, il primo governo italiano sorto dopo la Liberazione (e che durò pochi mesi: dal giugno al novembre 1945).
Ferruccio Parri, già comandante supremo (insieme a Raffaele Cadorna e a Luigi Longo) delle formazioni partigiane, era persona proba e mite (abbiamo già visto il suo appello contro le stragi di fascisti), e nel suo governo erano presenti tutti i partiti antifascisti, compreso il moderato Partito liberale. Ma per il ruolo che egli aveva avuto nella Resistenza, e per il fatto di essere uno dei massimi dirigenti del Partito d’Azione, cioè della formazione politica che più invocava mutamenti subitanei e radicali nella vita del Paese – per tutti questi motivi il suo governo appariva come un prodotto del «vento del Nord», cioè del CLNAI (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) e delle palingenetiche attese resistenziali. Del resto, con i suoi atteggiamenti e i suoi discorsi Parri avallava ampiamente questa immagine: per esempio, quando in più occasioni gruppi di tipografi rifiutarono di stampare giornali nei quali venivano criticati il PCI e l’Unione Sovietica, Parri si dimostrò debole, ambiguo, e sostenne che nessuno poteva essere obbligato a stampare cose che andavano contro le sue opinioni5: in questo modo egli mostrava di avere una idea della democrazia non di tipo liberale, ma di tutt’altro tipo, che giustificava la censura.
È assai significativa, del resto, per capire la visione politica di Parri e degli azionisti, l’aspra discussione che egli ebbe con Croce in seguito a un discorso che il Presidente del Consiglio tenne alla Consulta (un organismo composto di 304 membri, divenuti poi 430, con compiti consultivi e di controllo, nominato nell’aprile del 1945 dal governo su designazione dei partiti del CLN). Qui, il 26 settembre 1945, egli disse:
E di fronte alle vivaci interruzioni che questa sua affermazione provocò, Parri aggiunse:
A Parri rispose il giorno dopo Benedetto Croce, il quale, dopo aver reso omaggio all’uomo per la battaglia da lui condotta contro il fascismo, dichiarò di voler «ribattere nettamente un giudizio storico» che aveva suscitato «stupore».
E dopo aver passato in rassegna i grandi progressi compiuti dall’Italia nell’età liberale, Croce aggiunse:
Al centro della risposta di Croce a Parri c’era, come si vede, il nesso libertà/democrazia, metodo liberale/avanzamento democratico. Nessuno di questi due termini poteva mancare, secondo il filosofo napoletano. Per Parri e per gli azionisti, invece, l’accento cadeva esclusivamente sulla democrazia. Ma di quale democrazia si trattava? Qual era la concezione della democrazia propugnata dal Partito d’Azione, di cui Parri era uno dei rappresentanti più eminenti?
Il Partito d’Azione era un partito composito, nel quale erano confluite una componente socialista (il cui massimo esponente era Emilio Lussu), e una componente che non era orientata verso il socialismo, bensì verso una «democrazia avanzata», e che comprendeva uomini come Ugo La Malfa, Bruno Bauer e Manlio Rossi Doria. Per questi ultimi (a differenza da Lussu, la cui prospettiva non si distingueva da quella dei socialisti) all’azione di profondo rinnovamento economico-sociale e istituzionale che il Partito d’Azione doveva condurre nel Paese, avrebbero dovuto partecipare «col proletariato, coi contadini, tutti gli elementi produttivi della società». La posizione di La Malfa e dei suoi amici non era dunque classista, bensì interclassista. Per La Malfa bisognava sì «isolare ed eliminare […] la grande borghesia strappandole tutte le posizioni di cui oggi usa ed abusa a danno di tutta la collettività»; ma alla «grande opera di ricostruzione nazionale» avrebbero dovuto partecipare «tutte le forze produttive del Paese»7. In particolare, avrebbero dovuto parteciparvi i piccoli e medi imprenditori, sia pure in un quadro radicalmente rinnovato rispetto alla situazione prefascista, perché caratterizzato dall’azione dei sindacati, dei consigli di fabbrica, del controllo operaio, nonché da un nuovo regime successorio e da una nuova fiscalità.
Senonché, a veder bene, la concezione di uomini come La Malfa, Bauer, Rossi Doria e altri, era insidiata da una contraddizione profonda fra un programma incentrato sul mercato, sui ceti medi e sulla piccola e media borghesia, e un programma di «rinnovamento sociale e politico» con evidenti connotati massimalistico-giacobini. La Malfa, infatti, era convinto che il Partito d’Azione dovesse chiedere «la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali» al fine di «recidere alle radici […] ogni potenza reazionaria del grande capitale» (secondo la formulazione del programma del Partito d’Azione dell’aprile 1943, redatto da Carlo Ludovico Ragghianti in collaborazione con lo stesso La Malfa).
Nei «Sedici punti programmatici» fissati dal Partito d’Azione nel luglio del 1944 si affermava che il partito «addita nell’ordinamento privatistico dei maggiori complessi aziendali uno dei fattori più diretti dell’alleanza fra borghesia plutocratica e fascismo e della conseguente politica corporativa la quale, aggravando lo sfruttamento dei ceti proletari e piccolo-borghesi, ha finito per coinvolgere nella stessa rovina anche le medie imprese e la media borghesia. Il Partito d’Azione propugna perciò la trasformazione di quei grandi complessi in imprese di interesse pubblico». Di qui la prospettiva di una economia organizzata su due settori: uno basato sulla «gestione pubblica dei grandi complessi industriali, commerciali, finanziari, assicurativi e fondiari, l’altro a gestione libera – individuale, cooperativa o altrimenti associata – nel quale si cimentino il rischio e lo spirito di iniziativa personale»8. È evidente che questo programma era minato da una contraddizione insanabile, poiché non sarebbe stato possibile, né da un punto di vista economico, né da un punto di vista politico, conservare una libera economia di mercato nazionalizzando i maggiori complessi produttivi, commerciali e finanziari. Da un punto di vista economico, il settore privato sarebbe stato assai presto soffocato dalla inefficienza, dal parassitismo, dallo spreco di risorse del vasto settore pubblico. Da un punto di vista politico, la realizzazione di un programma di questo tipo sarebbe stata possibile solo con la vittoria di un fronte composto da comunisti, socialisti e azionisti, e avrebbe comportato una rapida collettivizzazione dell’economia del Paese, nonché, ovviamente, il soffocamento della democrazia liberale. Il Partito d’Azione, anche nelle sue componenti non socialiste, era quindi lacerato – come osservò giustamente Benedetto Croce – da una contraddizione fondamentale, risultante da «uno strano connubio» tra una professione di fede liberale e una riforma sociale totale, che avrebbe potuto realizzarsi solo con durissime misure coercitive e con l’«indispensabile complemento di una fedele guardia della rivoluzione, che ben s’intende che cosa sarebbe e quali altri complementi richiederebbe»9. Un esponente del Partito d’Azione come lo storico Adolfo Omodeo, di cultura liberale e largamente influenzato da Croce, avvertì che il partito si era avviluppato in una contraddizione grave, foriera di pericoli formidabili. Commentando infatti la crisi del partito, egli, pur accettando «la necessità» delle collettivizzazioni «nell’interesse di tutta la comunità nazionale», osservò che esse non dovevano essere concepite «come una panacea, ma come una necessità che non è priva di rischi che vanno vigilati rigorosamente; del rischio di un accentramento nelle mani dello Stato del potere economico, oltre quello politico; di degenerazioni dittatoriali e illiberali, di egemonie burocratiche che possono essere peggiori di quelle plutocratiche». E aggiunse che «contro questi rischi si è guardinghi, perché, una volta compromessa la libertà, solo Iddio sa quando, come e a che prezzo la si può riacquistare»10. Il timore di Omodeo era ben fondato, ma non era più che un presentimento, che non andava alla radice del problema, e che di fatto avallava la prospettiva di una svolta illiberale nella vit...