Rivista di Politica 4/2015
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Waldemar Gurian: religione e politica

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Waldemar Gurian: religione e politica

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Alla ricerca del sovrano: dopo Schmitt, contro Schmitt - Damiano PalanoLo studio delle Relazioni internazionali e la politica estera degli Stati: quanto possono (o debbono)incidere le scienze sociali sulle scelte dei governanti? - Lorenzo ZambernardiI Repubblicani statunitensi e la sfida per la Casa Bianca - Alia K. NardiniUtopia e/o realismo: come interpretare il Potere e le sue dinamiche? - Maurizio SerioIl Leviatano europeo e le metamorfosi del concetto di sovranità - Riccardo CavalloLa parabola politica di Helmut Kohl: un pensiero debole per una grande Germania - Giuseppe De LorenzoLe basi sociali dell'obbedienza e della rivolta. È la povertà la causa storica delle ribellioni popolari? - Giovanni Belardelli

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CONGETTURE E CONFUTAZIONI

Cibo e politica:
sulla relazione tra fame
e movimenti di protesta*

di Giovanni Belardelli
1. Pinocchio, come sa chiunque, è un burattino di legno che però ha tutte le caratteristiche di ogni essere umano: parla, sente, vede, beve e mangia come ogni ragazzo. Anzi, alla fine del suo primo giorno di vita, è già in preda ai morsi della fame. Così, dopo avere scoperto che la pentola che sembrava bollire sul fuoco era soltanto dipinta sul muro, inizia a frugare dappertutto nella misera dimora di Geppetto, alla disperata ricerca di qualcosa di commestibile: «un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla» (C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Rizzoli, Milano 2011, p. 41). La descrizione della fame di Pinocchio appariva all’epoca – gli anni Ottanta del XIX secolo – meno inverosimile di quanto possa apparire oggi a noi; al di là dei tratti evidentemente ironici e caricaturali, rispecchiava infatti quella che era allora la condizione di milioni di italiani, la cui vita era dominata dalla penuria di cibo. Le parole di Collodi servono dunque a ricordarci qualcosa di cui abbiamo ormai solo una conoscenza libresca: vale a dire, quanto la fame abbia condizionato, soltanto fino a poche generazioni fa, l’orizzonte esistenziale della maggioranza della popolazione italiana ed europea. Una fame, se non sempre effettiva, sempre in agguato per quanti si trovavano alla mercé di un’improvvisa carenza di viveri, in primo luogo di pane, causata da un cattivo raccolto, dalla malattia di qualche pianta, da un aumento dei noli marittimi o da altro ancora.
2. Quando, per un aumento dei prezzi o per una scarsa disponibilità del pane o di altri alimenti essenziali (ovviamente i due fenomeni erano e sono in genere collegati), il cibo veniva a mancare, poteva verificarsi quella forma di protesta sociale che era la sommossa per i viveri. Un esempio letterario notissimo è l’assalto ai forni in cui si imbatte a Milano Renzo Tramaglino ne I promessi sposi. Secondo George Rudé, sarebbe comunque il periodo che va dagli anni Trenta del secolo XVIII al 1848 quello nel quale «la forma tipica della protesta sociale è costituita dalle sommosse per i viveri, non dallo sciopero del futuro, [né] dal movimento millenaristico o dalla jacquerie contadina del passato» (G. Rudé, La folla nella storia 1730-1848, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 13). Seppur con caratteristiche diverse, le sommosse per i viveri si verificano sia nelle città sia nelle campagne, sia in Francia sia in Inghilterra, anche se – in questo caso – con protagonisti diversi. Ecco ciò che emerge al riguardo dal confronto tra la cosiddetta «guerra delle farine» che divampa nella regione parigina durante l’aprile e il maggio 1775 e i tumulti del pane che si verificano in Inghilterra nel 1766: «In Francia, a parte Parigi, si trattava perlopiù di contadini: viticoltori, braccianti agricoli e piccoli artigiani di campagna. In Inghilterra, coloro che vengono più spesso citati nei rapporti, e ciò vale per la stragrande maggioranza delle sommosse inglesi del XVIII secolo, erano tessitori, minatori del piombo, minatori del carbone, barcaioli o semplicemente “i poveri”» (ivi, p. 56).
Limitandoci alla Francia, va ricordato come nel corso del secolo XVIII – nonostante la appena citata «guerra delle farine» – la condizione alimentare delle campagne migliorasse. Almeno nel senso che, dopo la grande carestia del 1709, la fame diffusa e ricorrente era scomparsa; gli anni tra il 1733 e il 1778 furono anzi anni di prosperità per i produttori agricoli. Poi i cattivi raccolti del 1787 e 1788 alimentarono una serie di sommosse che ebbero una parte essenziale nella crisi rivoluzionaria del 1789 (cfr. ivi, pp. 28-29). Possiamo allora dire che la Rivoluzione francese sia stata una rivoluzione della fame? Nonostante in vari momenti, nel corso del periodo rivoluzionario, il problema della carenza di cibo giocasse un ruolo importante, la risposta evidentemente non può che essere negativa. Non dovrebbe essere neppure necessario spiegarne le ragioni, direttamente collegate al nuovo bagaglio di idee che anima i protagonisti della rivoluzione. Idee che oltretutto – ed è una novità non da poco – avevano cominciato a diffondersi e a essere pubblicamente discusse in una misura fin lì sconosciuta già nei mesi precedenti la convocazione degli Stati generali. Le sommosse per i viveri che si verificano anche nel periodo rivoluzionario mostrano semmai come le caratteristiche della protesta di antico regime si affiancassero e mescolassero con tendenze e movimenti che si nutrivano di idee e concetti nuovi, in primo luogo l’idea di sovranità popolare. Come ha scritto François Furet, «se […] la sovranità apparteneva ormai al popolo, come poteva la rivoluzione mostrarsi indifferente alle miserie umane», a cominciare dalla mancanza di cibo? (F. Furet, Maximum, in F. Furet-M-Ozouf, Dizionario critico della rivoluzione francese, Bompiani, Milano 1988, p. 528)
Proprio il caso delle sommosse della fame durante la Rivoluzione francese mostra la riproposizione di idee e comportamenti antichi che però, contemporaneamente, iniziano ad accompagnarsi a concetti decisamente nuovi. La forma e il modello di quelle sommosse restavano press’a poco gli stessi di vent’anni prima, collocandosi dunque «nella tradizione della taxation populaire dell’ancien régime» (G. Rudé, La folla nella storia 1730-1848, cit., p. 128). Ma è anche evidente che dopo il 1789 il clima politico e la mentalità popolare erano cambiati. Così, se durante i tumulti del pane verificatisi nel 1792 nella Beauce non c’è quasi alcun segno di ostilità verso la nobiltà rurale, è anche vero che vi si individua la presenza di «correnti sotterranee e tonalità antirealiste, “patriottiche” e politiche […] che mancano completamente nelle sommosse del passato. Le bande itineranti vanno in giro gridando “Vive la Nation” e si annunciano agli abitanti di villaggi e città come “fratelli e liberatori”» (ivi, p. 129).
Questo non vuol dire, naturalmente, che anche le sommosse precedenti alla rivoluzione non fossero guidate da idee. La fame, infatti, e più in generale le sofferenze materiali, non provocano di per sé né sommosse né rivoluzioni. A provocare le une e le altre è sempre la particolare lettura che gli esseri umani, sulla base del loro peculiare bagaglio concettuale, compiono della propria condizione. È essenziale, in particolare, che la condizione di sofferenza e privazione sia identificata come il prodotto di un atto di ingiustizia. Anche le sommosse per i viveri caratteristiche dell’ancien régime dovevano necessariamente avere dietro si sé una concezione di ciò che è giusto o ingiusto, per quanto rudimentale potesse essere (non dimentichiamo che a parteciparvi erano generalmente degli analfabeti). Quelle sommosse rivendicavano la necessità di rimuovere quello che era sentito dalla mentalità popolare come un prezzo ingiusto dei viveri perché tale da non permettere il sostentamento di un essere umano; individuavano – non sempre a torto – i responsabili della carenza del grano nei mercanti o negli agricoltori, che evitavano di immetterlo sul mercato nell’aspettativa di un aumento del prezzo; proponevano l’introduzione di un calmiere dei prezzi, che sembrava giustificato dal ricordo delle misure di regolamentazione prese più volte dai governi in tempo di carestia (anche nella Milano dei Promessi sposi). La richiesta di una taxation populaire, di un controllo dei prezzi, si sarebbe affacciata di nuovo nel corso della Rivoluzione francese costringendo i giacobini a introdurre, contro le loro stesse convinzioni favorevoli alla libertà del mercato, il maximum generale dei prezzi nel settembre 1793.
Il fatto che ogni movimento di protesta abbia sempre un’origine intellettuale, alimentandosi in particolare di un sentimento di ingiustizia (storicamente determinato e dunque diverso in contesti storici diversi) è stato sottolineato vari anni fa da Barrington Moore, in un volume dedicato appunto alle «basi sociali dell’obbedienza e della rivolta». Moore citava tra l’altro l’autobiografia di un lavoratore tedesco, nato nel 1735 nelle Alpi svizzere. Costui era stato dapprima contadino, poi recluta forzata nell’esercito di Federico il Grande, successivamente operaio in una fabbrica di salnitro e tessitore a domicilio. Nonostante la sua vita fosse stata caratterizzata da sofferenze e privazioni, tra cui naturalmente la fame, questo lavoratore non aveva mai mostrato alcun sentimento di critica o moto di protesta nei confronti dell’ordine sociale esistente (B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 154 ss.). Le sofferenze erano da lui attribuite alla sfortuna, oppure a un ordine di cose che veniva percepito come naturale e inevitabile; un ordine di cose che poteva solo essere accettato così come non si può che accettare la grandine che rovina il raccolto. La grande novità prodotta dalla Rivoluzione francese e poi, nel corso dell’Ottocento, dalle teorie socialiste risiederà appunto nel fornire una griglia concettuale alla luce della quale criticare la propria condizione. La fame, prima ancora che il prodotto di un cattivo raccolto, sarebbe stata sempre più considerata come la conseguenza di un ingiusto assetto sociale.
3. A questo punto vorrei fare, molto rapidamente, tre esempi – quasi obbligati, anche se non sono certo gli unici possibili – di autori che hanno introdotto concetti o idee di ingiustizia tali da dare anche alle sommosse della fame un carattere del tutto nuovo. Anzitutto Jean-Jacques Rousseau, che nel celebre brano che apriva la parte seconda del Discorso sull’origine dell’ineguaglianza aveva scritto: «Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno» (J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 133). Brano di una forza straordinaria, in cui tornava implicitamente l’idea cristiana secondo la quale Dio ha dato in dono la terra a tutta l’umanità e nel quale si percepisce l’eco delle utopie egualitarie dei secoli precedenti; brano che, collocando l’eguaglianza dei beni in un antico e mitico passato, la consegnava in realtà alle battaglie politiche e sociali del futuro. Anche se certamente nessun contadino di Francia poté leggere allora il testo rousseauiano, dopo di esso nessuna sommossa della fame sarebbe più stata la stessa. Voltaire percepì subito le radicali implicazioni del passo che abbiamo appena letto, tanto da annotare in margine alla sua copia del Discorso: «Come, chi ha piantato, seminato e recintato non ha diritto al frutto delle sue fatiche… Come, quest’uomo ingiusto, questo ladro, sarebbe stato il benefattore del genere umano! Ecco la filosofia d’un miserabile che vorrebbe che i ricchi fossero derubati dai poveri» (il brano è riprodotto ivi, p. 133 n.).
Tra quanti elaborarono e diffusero i criteri di ingiustizia sociale che hanno dominato la storia europea e mondiale degli ultimi due secoli va certamente annoverato Emmanuel-Joseph Sieyès, in particolare per la distinzione tra il terzo stato, che svolgeva «i lavori su cui si regge la società», e l’ordine privilegiato, che assegnava a sé tutte le cariche onorifiche e lucrative, consumando «la parte migliore del prodotto senza avere in nulla concorso alla sua creazione» (E.-J. Sieyés, Che cosa è il terzo stato?, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 24 e 27). Questa distinzione, scriveva nel gennaio 1789 in Che cosa è il terzo stato, determinava l’estraneità della nobiltà rispetto alla nazione; un’estraneità che di lì a poco avrebbe giustificato l’autoproclamazione del terzo stato come Assemblea nazionale, avvenuta il...

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  1. Rivista di Politica Ottobre-Dicembre 2015
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  4. Numero 4 Ottobre-Dicembre 2015